Scrittori della Notte: liberi di scrivere

Posts written by charlie

  1. .
    Non oggi, ma due anni fa. Prima della pandemia e prima della tua malattia, l’ultima volta che ti ho vista e abbiamo parlato.
    E come tutte le volte, eravamo arrivati alle questioni di cuore. Tu come ogni volta ti eri interessata del mio status, single/accoppiato e di come stavo con… E io come ogni volta, avevo tentato di spingerti nuovamente a ritentare con il mio amico Jerry. Perché nessuno me lo ha mai levato dalla testa e nessuno me lo leverà mai, eravate fatti l’uno per l’altra. Peccato solamente, che insieme non riuscivate ad andare d’accordo e la quadra, nonostante i vostri ripetuti tentativi, non l’avete trovata mai.
    Ma allo stesso modo, la parola “fine”, tra di voi non è mai stata definitiva e una sorta di legame affettivo, lo avete sempre mantenuto. Ok Jerry un po’ lo ha per vizio, di rimanere in buoni rapporti con le ex (a differenza mia che tentano sempre di investirmi con l’auto e un po’ per questo lo invidio). Ma con te era diverso. Lo so io, lo sa Jerry e lo sapevi tu.
    Oggi però mi tocca arrendermi all’evidenza, è finita davvero, ma questo era l’unico modo possibile.
    Jerry ora è qui, accanto a me, nella camera ardente. Mentre guardiamo ciò che non sei più. Perché tu sei da un’altra parte. Ma qualunque essa sia, siamo sicuri che starai gettando scompiglio anche lì.
    Perché persone pirotecniche come te, non ne ho mai conosciute. E proprio come ha sempre detto il Jerry: “La Gabry non è definibile. La Gabry è un aggettivo.”
    Ora lo prenderò per le spalle e lo porterò a bere un caffè. La vita continua e deve continuare. Ma tu mancherai a tutti.
  2. .
    Ciao Wordgate. Il genere umoristico credo sia il più difficile. Il fato di usare nomi strampalati può essere efficace (lo hanno fatto anche nomi illustri), ma a mio parere non bisogna abusarne e soprattutto non puntare tutto su quello.
    In ogni caso molto scorrevole, hai una bella scrittura.

    Charlie
  3. .
    Grazie 1000. Sei troppo buono :))
  4. .
    Descrivi meglio, dettaglia maggiormente, rallenta un pochino il ritmo, a favore della chiarezza.
    Alcune cosa appaiono dal nulla, senza un minimo di introduzione.
    Spero di essermi spiegato, ma non ne sono sicuro, non è semplice.
    Charlie
  5. .
    Quella di Natale, si ok, è la più famosa. E anche la più facile da individuare. Voglio dire, basta aprire un qualunque calendario. Ma non è questo l’argomento. O meglio, non è quella l’unica vigilia che incontriamo nel corso della nostra vita e forse, nemmeno la più importante. E non lo dico per apparire blasfemo. E’ che la Vigilia di Natale è rassicurante. Tutti gli anni viene puntuale, presepi, alberi addobbati, panettone, regali, amici e parenti. Messa di mezzanotte e poi tutto riprende esattamente come prima. Esattamente, come prima.
    Le vigilie di cui parlo io no. Una volta trascorse, non lasciano nulla come lo hanno trovato.
    Ognuno ha la sua, anzi le sue. Si, perché la vita è un continuo susseguirsi di cambiamenti ed ogni cambiamento ha la propria vigilia. Anche se delle più, non ci accorgiamo. E lasciamo che ci sorvolino come uno stormo di piccioni. Lasciandoci semplicemente travolgere dagli eventi e/o facendoci fare la cacca in testa.
    D’ogni modo, tutti i cambiamenti, anche quelli positivi, fino all’attimo prima, mettono paura.
    Avete presente il primo salto dal trampolino? Io lo ricordo bene, mentre volavo giù scomposto da tre metri d’altezza, con lo specchio d’acqua che si avvicinava inesorabile ed il bagnino che urlava “Nooooooo!” Il secondo tuffo andò meglio, ma questa è un’altra storia.
    E così anch’io, vivendo il mio quotidiano, zeppo di cose da fare, importanti, futili o idiote che fossero, ho sempre lasciato che un sacco di vigilie mi sorvolassero. Finché una mattina, facendomi la barba, stavo ripensando ad un po’ di mattane giovanili. Tipo quando volevo tatuarmi due ali ai lati del pene, sovrastate da una scritta a caratteri cubitali, che citava: “Uccello del Paradiso”. Ma solamente perché la scritta “Palo della cuccagna” mi sembrava un po’ eccessiva. Oppure quella volta in agosto, in cui con due amici, un’auto e una tenda da campeggio, eravamo partiti verso l’Europa dell’Est, senza una meta precisa. Per ritrovarci in Bielorussia, e scoprire che non c’era un bielocazzo. E proprio nel bel mezzo dei miei vaneggiamenti, passandomi una mano sul viso per saggiare il risultato delle mie fatiche, fu come avere alzato la testa di scatto e uno di quei piccioni mi si fosse stampato in faccia.
    Non ero più un giovincello, ma quella era cosa ormai risaputa e me ne ero fatto una ragione. Anche se gli anni che se ne vanno, insieme a quelli del mutuo sulla casa, non sono mai roba facile da contare. Ma il fatto era, che le mie figlie, stavano per andare all’università. E questo, era tutt’altro paio di maniche.
    Già, le mie figlie stavano per andare all’università. E a me, era passata la voglia di scherzare.
    La cosa non era ancora imminente. Stavano facendo l’ultimo anno di liceo. E si aggiunga, sono sempre state due brave ragazze, di quelle che ogni genitore vorrebbe veder crescere. Per cui nulla avrebbe dovuto allarmarmi più di tanto. Eppure quella era una Vigilia, che seppur ancora lontana, era proprio di fronte a me e che in un certo qual modo, sentivo speciale.
    Perché con essa, vedevo materializzarsi un sacco di domande, alle quali, potevo al massimo formulare ipotesi. Perché da quel momento in poi, la musica sarebbe cambiata. Le risposte a certe domande, non sarebbero più state nelle mie mani.
    Cosa avrebbero fatto? Dove avrebbero studiato? Avrebbero scelto un posto vicino casa, oppure si sarebbero trasferite in un buco per studenti, a qualche centinaio di chilometri? Spiccando il volo e abbandonando il nido, prima del tempo? O meglio, prima di quando io sarei stato pronto a farmene una ragione. Perché è maledettamente vero. Per un genitore, i figli sono sempre piccoli.
    Nonostante fosse inverno, avevo spalancato la finestra del bagno. Avevo bisogno di ossigenare il cervello e schiarire le idee.
    Le cose sarebbero cambiate, fuori discussione. Ma pensandoci bene, quante volte lo avevano già fatto, da quando erano nate? Probabilmente un numero incalcolabile. E quello che si avvicinava, non era certo il primo cambiamento radicale. Ma soltanto uno della lunga lista, dei cambiamenti che avevano in passato, ed avrebbero in futuro, modificato i loro rapporti con il resto del mondo. Me compreso.
    E probabilmente, la vera difficoltà, sarebbe stata tutta mia. Nell’essere capace di adattarmi a questa novità.
    Perché in fondo, le mie figlie crescevano e diventavano indipendenti. E di questo, dovevo solo essere felice.
    E poi, molto più spesso di quanto i pessimisti come me non credano, i cambiamenti portano con sé cose buone. Bastava solo avere il coraggio di aprire le braccia ed accoglierle, così come venivano.
    Avevo chiuso la finestra, preso coraggio, la giacca ed ero sceso in strada. Direzione il bar del Giuliano, proprio di fronte casa. Dove ero solito prendere il caffè, prima di recarmi al lavoro.
    Mentre un senso di sicurezza mi pervadeva e la felicità mi si dipingeva sulla faccia, vivace come un quadro di Ligabue. Le mie figlie erano grandi. Buona parte del lavoro era fatto.
    L’unica cosa che avrei dovuto raccomandare loro, era di ricordarsi che non avevo il dono di Sant’Agostino. Di conseguenza, qualora avessero mai decidessero di andare in capo al mondo, per lo meno, entrambe dalla stessa parte. Non ci dovevano essere dubbi sulla mia destinazione, quando avrei messo a mia volta, le cose in valigia.
    Il bar era pieno, come solito a quell’ora. Il profumo di caffè aleggiava nell’aria, insieme al chiacchiericcio generale. Le solite persone, alle prese con il loro quotidiano, esattamente come me. E come me, avevano il loro bravo stormo di piccioni, che le sorvolava e che ogni tanto sganciava. A volte piovevano buone notizie, a volte altre cose. Un saluto qua, una pacca sulla spalla là. Quel giorno il mio piccione aveva sganciato bene. Per me era una buona vigilia. E di colpo, mi ero sentito un Re.
  6. .
    Ciao Lady Joan Marie.
    Ti dirò esattamente quello che penso, prendila come una critica costruttiva, perché questo è quello che vuole essere.
    Fantasia fervida ne hai e riesci a dare un ottimo ritmo. Forse anche troppo sincopato, ma credo sia dovuto al fatto che quando scrivi, la fantasia corre e temi ti sfugga qualcosa. Come se stessi guardando un film de dovessi raccontarlo mentre ti scorre davanti agli occhi (lo dico perché per me funziona così). Il ritmo in un racconto per me è tutto, se è lento lo trovo noioso. Ma se corre eccessivamente vorticosamente, rischia di essere tutto chiaro solo per te (lo dico perché io ho dovuto lavorare molto su di me, su questo punto).
    La forma è da sistemare completamente, ora, non so da quanto scrivi, ma credo da non molto.
    Giudizio mio finale, dentro di te ci sono tutti gli ingredienti giusti per scrivere ottimi racconti e penso anche del talento. Ma devi lavorare molto sulla forma, altrimenti, la sostanza perde di significato.

    Charlie
  7. .
    Grazie Milly, sei sempre troppo buona.
  8. .
    Come al solito, i tuoi racconti si ribaltano di prospettiva, spiazzando chi legge.
    Mi auguro tu non scriva soltanto racconti così brevi. In un racconto un po' più lungo e più strutturato, questa capacità sarebbe esaltata al massimo.
    Charlie
  9. .
    Capito
  10. .
    Vuoi dire che sei delle mie parti? :o:
  11. .
    Grazie Bastiano :D
  12. .
    Modi per sprecare la vita? La scelta è assortita. Per quanto riguarda me, avete presente le cattive compagnie? Io non me ne sono mai dovuto preoccupare. Perché io, ero le cattive compagnie. Eravamo povere anime, che dovevano gestire un corpo per un certo periodo di tempo. Ma anime travagliate, procuravano corpi martoriati. E così metà della mia vecchia compa, si trovava in gabbia. L’altra, in comunità di recupero.
    Io grossi traumi non ne avevo mai avuti. Non mi ero mai invischiato in cose più grosse di me. E il controllo, l’ho sempre voluto, mai perderlo. Ergo, ero ancora vivo e godevo di ottima salute.
    Ma non avendo mai visto la morte in faccia, non sapevo quanto fosse brutta.
    Quella notte di luglio, nei pressi di Pavia, in auto con me, c’erano Teto, Eliseo e due semiautomatici calibro venti. Roba da caccia, tanto rumore ma non ammazza.
    Ero stato ingaggiato due settimane prima, all’ora di pranzo, al Caffè Visconti, zona Policlinico. Ovvero il bar di Tommy, uno della vecchia compa, che sapeva come girava il mondo.
    Un tizio grande e grosso come un orso, con un levriero al guinzaglio, talmente affusolato da sembrare una supposta, era entrato cercando di me.
    “Sei tu il Torcia?”
    “Si.” avevo risposto fissandolo negli occhi, mentre versavo il vino e spezzavo il pane. Torciani Fabio detto il Torcia, Che male c’era? Si sarebbe visto poi.
    Il tipo era tre volte me, ma una calibro nove infilata nei pantaloni, dava una certa sicurezza.
    Pareva che nella discoteca del suo capo, dalle parti di Robecco su Stocazzo o un nome simile, dei tizi del campo nomadi di Pavia, avessero chiesto dei soldi, per non organizzare una rissa ogni sabato sera, mandando all’aria gli affari del locale. Ma il padrone, aveva deciso di picchiare più di loro. Qualcuno gli aveva fatto il mio nome e c’erano cinquemila pezzi per me. Unica condizione, i tizi si sarebbero dovuti cagare talmente sotto, da non avvicinarsi mai più alla provincia di Milano.
    E così, mentre alla televisione, che capeggiava sul muro a lato del bancone, un economista spiegava la sua teoria per azzerare l’evasione fiscale, ovvero aggiungere l’Iva ad ogni banconota. Per cui ad esempio, la banconota da cinquanta euro, sarebbe diventata di sessantuno e quindici, avevo incassato l’acconto.
    “Welwcome to the jungle, we got fun and games…” cantavano i Gun’s & Roses.
    L’auto era stata rubata la notte stessa, appositamente per il raid. Avevamo attraversato il centro storico, per evitare i posti di blocco, che si trovavano nei viali esterni e raggiunto il Naviglio, lo avevamo costeggiato, direzione periferia.
    “Come va a casa?” avevo chiesto a Teto, che non stava passando un bel momento con la moglie.
    “Insomma…”
    “If you got the money honey, we got your disease…”
    Eravamo vicini. Teto guidava lento, io ed Eliseo ci preparavamo all’azione.
    “Porta pazienza, sono cose che si risolvono.” aveva detto Eliseo. “Pensa a me, quell’imbecille di mio figlio si farà bocciare anche quest’anno. E gli ho trovato pure della mariuana, nascosta nello zaino. Ho paura che stia imboccando una brutta strada…”
    “In the jungle, welcome to the jungle…”
    “Siamo stati ragazzi anche noi Eliseo.” avevo aggiunto io. “E se ti ricordi com’eravamo…”
    “Watch it bring to your shun n-n-n-n-n-n-n-n knees,knees…”
    Teto si era fermato a bordo strada, io ed Eliseo eravamo schizzati fuori, sovrapposti alla mano, senza sicura e colpi in canna. Lo spettacolo stava per cominciare.
    Fatti due piccoli tagli nella rete, a colpi di tenaglia, vi avevamo infilato le canne.
    “Fuoco alle polveri.” avevo detto fra i denti, nel silenzio circostante.
    “I wanna watch you bleed…”
    Pochi istanti e avevamo fatto saltare le finestre delle roulotte più vicine. E le prime urla avevano squarciato la notte, insieme al fischiare delle gomme della nostra auto. E se qualcuno avesse avuto la malsana idea di inseguirci, avremmo tirato fuori l’artiglieria. Quella vera.
    “Welekome to the jungle, we take it day by day…”
    Era passata poco più di una settimana. E mi trovavo sempre a pranzo da Tommy, rigirando fra le mani il giornale locale, che titolava sempre più in piccolo: “Far West al campo nomadi”.
    Gli inquirenti stavano battendo tutte le piste, ovvero brancolavano nel buio. Per cui potevo ritenermi soddisfatto. A parte che nessuno si era fatto ancora vivo con il saldo.
    Davanti al bancone e ad una birra, uno svalvolato stava tediando Tommy, con la solita noiosa storia strampalata.
    “Ne ho le prove Tommy, gli alieni sono fra noi da millenni! E lo sai chi sono? Sono i Cinesi!”
    “Immagino…”
    “Ieri stavo estirpando il bambù, dal giardino del dottor Varini. Quella cazzo di pianta, ha metri e metri di radici che si inabissano e si propagano dov’unque. Non può che essere una pianta aliena. E da dove viene il bambù? Dalla Cina! E quando ci sarà abbastanza bambù sulla Terra, ci stermineranno tutti, facendoci strangolare da quella maledetta pianta.”
    “Evidentemente…”
    Era passata poco più di una settimana dicevo e proprio in quel mentre, era ricomparso l’orso, con tanto di supposta al guinzaglio.
    “Sparisci.” aveva detto Tommy allo svalvolato, e tanto era bastato.
    “Sei stato bravo Torcia.” aveva detto l’omone senza salutare, buttando una busta sul tavolo.
    “Lo so.” avevo risposto poco cerimonioso ma soddisfatto, ritirando la paga del soldato.
    Teo era indietro con le rate del mutuo ed Eliseo doveva saldare i libri di scuola dei figli. Brave persone, che facevano quello che facevano, solo per sopravvivere alla merda che cercava di inghiottirli. Io invece, ero mosso solamente da futili motivi.
    “I can’t believe the news today…” cantavano gli U2.
    “Addio Torcia.” aveva detto dandomi le spalle ed avviandosi verso l’uscita. Ma i guai, erano entrati prima che lui uscisse. Sotto forma di tre uomini incappucciati, con spranghe di ferro alla mano.
    “How long must we sing this song?...”
    C’era voluto poco, per capire il motivo, per cui fossero lì.
    “But I won’t heed the battle call…”
    Un lampo, pochi istanti, attimi fugaci. Che avrebbero cambiato per sempre la vita dei presenti.
    “Sunday, bloody Sunday…”
    Senza dire una parola, il primo si era avventato contro il mio ingaggio. Mentre il levriero, aveva serrato le mascelle, sulla coscia dell’aggressore. Ma un secondo gli era già addosso, sferrando un colpo di spranga che aveva fatto crollare l’omone, con uno schiocco secco. Sintomo inequivocabile, che qualcosa si era spezzato.
    “Sunday, bloody Sunday…”
    Il terzo uomo aveva rovesciato un tavolino con un calcio e caricando tipo battitore di baseball, si stava dirigendo verso di me.
    Nessuna via di fuga, pochi metri e poco tempo per pensare. Cosa restava per portare a casa la pelle? Avevo tirato fuori la calibro nove e gliela avevo puntata contro.
    “Fermo.”
    Il tizio non mi aveva creduto, aveva ringhiato ed aveva sferrato il colpo. Ama il prossimo tuo come te stesso, a patto che non sia uno stronzo. Il piombo era arrivato prima del ferro e il resto era silenzio. Amen. E tutti mi avevano guardato, compreso Tommy, bianco come uno straccio, nonostante in vita sua, ne avesse viste di ogni.
    “And the battle’s just begun…”
    Il tizio che stava massacrando il mio ingaggio, si era tolto il cappuccio e aveva iniziato ad urlare, avanzando minaccioso verso di me. “Brutto figlio di puttana! Brutto figlio di puttana! Brutto figlio di puttana!” come un disco rotto di cattivo gusto.
    Io avevo puntato su di lui e mi ero ritrovato a ripetere: “Fermo.”
    Ma lo stronzo, accecato dall’odio, aveva continuato ad avanzare urlando. “Quello era mio figlio!”
    Nessuna via di fuga, pochi metri e poco tempo per pensare. Giornata decisamente ripetitiva.
    “E allora non dovevi portarlo.”
    “There’s many lost, but tell me who has won?...”
    Il tizio aveva caricato il colpo, ed io per la seconda volta in pochi istanti e per la seconda volta nella mia vita, avevo tirato il grilletto contro un cristiano.
    Non è dato a noi scegliere, né dove né quando. L’uomo propone e Dio dispone. Altrimenti, chi mai sceglierebbe di crepare nel bar di Tommy? Niente di più stupido e assurdo. Come se tutta la crudeltà e la ferocia umana, si fosse data appuntamento a quell’ora di quel giorno, in quel bar.
    Scienziati di tutto il mondo, si accaloravano per trovare forme di vita intelligenti su altri pianeti. Evidentemente, avevano perso le speranze di trovarne sulla Terra.
    “Wipe the tears from your eyes…”
    Particolare non secondario, ero nella merda, profonda. Teatro di guerra: tre persone a terra, un lago di sangue e il levriero che si leccava una zampa. Pensando che i sapiens si sarebbero estinti, per lo stesso motivo dei dinosauri. Ovvero erano degli emeriti coglioni.
    Il terzo aggressore, se l’era già data a gambe e Tommy mi fissava scuro in volto.
    “Lo sai che sei nella merda fino alle orecchie, vero?” aveva detto con calma.
    “Già.”
    “E che hai solo una manciata di minuti, prima che tutta la madama di questa città, invada il quartiere?”
    “Già.”
    “E sai che la prima cosa che faranno, è interrogare me?”
    “Già.”
    “A meno che non mi trovino vivo.” aveva concluso, senza fare una piega.
    “Già.”
    Io ero un bastardo, ma Teto ed Eliseo no. E beccato me, sarebbero finiti dentro pure loro.
    Ma potevo io sparare a Tommy? La cui unica colpa, era stata quella di non aver tagliato i ponti, con i vecchi e stronzi amici.
    Sarebbe bastato puntarmi il revolver alla testa e chiudere la partita. In un sol colpo, risolti tutti i problemi di questo mondo e sciolti tutti i dubbi sull’altro. Ma era soluzione troppo facile e io ero un codardo. I minuti erano contati, ma dovevo riflettere.
    “E sufficiente che non ti trovino.” avevo detto a Tommy.
    “E cioè?” aveva chiesto lui, più incuriosito che spaventato.
    “Ci dileguiamo insieme. Cos’hai da perdere, a parte i creditori? ”
    “Niente. Ma se ci beccano durante la fuga?”
    “Dirò che ti ho rapito. Pluri omicidio o pluri omicidio con sequestro di persona, sai che differenza!”
    E così, Tommi e il Torcia, nuovamente sulla strada assieme. Come ai tempi del liceo.
  13. .
    Ciao Milly. E' da un po' che manco, ma non per calo di passione verso la scrittura. Anch'io scrivo sempre in prima persona. Mi aiuta a calarmi meglio nella storia e nel personaggio. E poi, due dei i miei scrittori preferiti, scrivono in prima persona. Che dire del tuo racconto? Sei brava. Secondo me sei brava e in questo racconto si vede, da come porti la storia, quasi nella banalità, per poi spiazzare sul finale e dare un senso più alto a tutto l'insieme. Complimenti.
  14. .
    Ben trovati cari ragazzi, The Aster e Milly Sunshine. E' sempre un piacere avere a che fare con voi.

    Grazie per i commenti, i complimenti, e le critiche sempre costruttive.

    Per The Aster, forse qualche refuso è rimasto. E si, concordo con te, le prime 2 parti introduttive, non sono molto brillanti, o forse non legano tantissimo con la terza. Dovrei rimetterci mano.

    Per Milly, quello che chiami finale in realtà non lo è. Ci sono altre 2 parti che pubblicherò, dopo aver controllato bene eventuali refusi. E dopo aver rivisto il finale, di cui non sono ancora del tutto convinto.

    In ogni caso, ad entrambi, grazie, grazie, grazie.
  15. .
    Arringa

    Ma quanti modi ci sono per sprecare la propria vita? Così sui due piedi, me ne viene in mente almeno un centinaio. Ma non servono mica tutti, nossignori, ne basta uno solo!
    Ebbene la scelta è ben assortita ed ognuno segue il suo.
    A volte si è mossi da motivi apparentemente validi, a volte apparentemente buoni, in rarissimi casi la scelta è obbligata o quantomeno pare tale. Ma a volte, si tratta solo di manifesta stupidità, con l’aggravante dei futili motivi.
    E noi non siamo gatti, nossignori, abbiamo una vita sola. O almeno questa è la teoria comunemente più accettata. Ma probabilmente il problema è un altro, è che da giovani, ci si sente immortali.
    Avete presente le cattive compagnie? Quelle da cui ogni genitore di buon senso mette in guardia i propri figli? Ebbene io non me ne sono mai dovuto preoccupare. Perché io, ero le cattive compagnie.


    Comparizione dei testimoni

    Fulvio aveva avuto una specie di conversione religiosa, dopo il ricovero per arresto cardiaco, dovuto alla troppa polvere che aveva tirato su con il naso durante l’ennesimo festino. Si era messo a studiare chitarra e ora suonava per il coro della chiesa.
    Gianka si era dato al ciclismo, più o meno per lo stesso motivo.
    Fabio era tornato dalle nostre parti solamente un paio di mesi fa. Dopo dodici anni in Nuova Zelanda, dove era fuggito alla spicciolata per evitare che gli strozzini lo appendessero al gancio del macellaio.
    Andy era raggiante e sprizzava allegria da tutti i pori, da quando era stato dimesso. Comprensibile no? Nessun posto è come casa tua, figuriamoci San Patrignano.
    Tommaso, Tommy, da quando era guarito dall’epatite, si era messo a lavorare come un pazzo. Di giorno come magazziniere in un centro commerciale, di sera come parcheggiatore, fino a quando aveva raggranellato abbastanza da aprire un bar.
    E questi erano quelli rimasti in piedi. Poi c’erano gli altri.
    Io grossi traumi non ne avevo ancora avuti. Di tutta la compagnia di balordi, ero di quei pochi che non si erano mai fatti prendere troppo da certe cose. Il controllo, io lo volevo e non perderlo.
    Aspetto positivo: ero ancora vivo e godevo di ottima salute. Aspetto negativo: non avendo ancora visto la morte in faccia, non sapevo quanto fosse brutta. E per quanto mi fossi sforzato per un certo periodo di cacciarmi a forza dentro un’esistenza da persona normale, non ci ero mai riuscito. Ergo, avevo seguito la mia indole, e quarant’anni passati ero ancora una testa di cazzo.


    Dibattimento

    Mi trovavo su quell’auto, quella notte di un luglio afoso, nei pressi di Pavia. Con Teto, Eliseo e due semiautomatici sovrapposti calibro venti. Roba da caccia, che fa rumore, spaventa, può fare anche qualche danno serio, ma difficilmente ammazza. Se non da molto vicino.
    Avevo lasciato i ragazzi sul Lungoticino alle tre e mezza del mattino. Un posto sempre pieno di auto posteggiate ma non telecamerato.
    Dopodiché ero andato a parcheggiare al di la del ponte, in Borgoticino, un tranquillo quartiere residenziale che si estendeva lungo la riva sud del fiume. E lì, mi ero fermato a guardare la luna specchiarsi nell’acqua scura.
    Ero stato ingaggiato due settimane prima, al Caffè Visconti, zona Policlinico San Matteo, il bar di Tommy.
    Un tizio grande e grosso come un orso, tutto tatuato e pieno di muscoli che sapevano di anabolizzanti, era entrato con un levriero al guinzaglio. Il cane era talmente magro ed affusolato da sembrare una supposta, e secco com’era faceva ancora più contrasto con il suo padrone, che direttosi al bancone, aveva chiesto di me a Tommy. Il quale senza alzare gli occhi dai bicchieri che stava sciacquando, con un cenno del capo lo aveva mandato al tavolino dove stavo mangiando un piatto di spaghetti.
    Erano le due del pomeriggio. Sicuramente fuori orario per il pranzo. Ma non mi piaceva consumare i miei pasti in mezzo al chiasso e all’andirivieni degli altri. Che siano stati essi lavoratori o parenti dei malati in degenza al policlinico. E men che meno a casa da solo. Per cui l’unica soluzione era farlo in orari diversi dalla massa.
    Cambiare bar? No, Tommy era un amico e poi sapeva tenere la bocca chiusa. E non perché avesse paura di qualche cosa, ma semplicemente perché era della vecchia compa. E poi lui era fatto così.
    “Torcia?” mi aveva chiesto il tizio avvicinandosi.
    “Si.” avevo risposto fissandolo negli occhi con fare tutt’altro che amichevole. Torciani Fabio, il Torcia, ero io. Che male c’era? Lo si sarebbe visto poi.
    “Avremmo bisogno di te.”
    “Avremmo chi?”
    “Il mio capo, avrebbe bisogno di con te.”
    Così andava meglio. Le cose dovevano essere chiare fin da subito. Chi comandava, chi pagava, chi eseguiva.
    Il bar, a parte noi tre era deserto. Per cui il discorso poteva proseguire.
    “E chi è il tuo capo?” avevo chiesto senza invitarlo a sedere. Avendo sempre pensato che era inutile essere gentili con i subalterni.
    E così, mentre alla televisione che capeggiava sul muro a lato del bancone, un economista spiegava la sua geniale teoria che avrebbe azzerato l’evasione dell’Iva, ovvero aggiungerla già nelle banconote, per cui ad esempio la banconota da dieci euro sarebbe diventata di dodici euro e trenta centesimi, quella da cinquanta di sessantuno e quindici e così via, il tizio mi aveva raccontato la sua.
    Un paio di settimane addietro, un branco di ragazzotti provenienti dal campo nomadi vicino allo stadio, si era presentato in un locale notturno dalle parti di Robecco su Stocazzo o qualcosa del genere e aveva scatenato una rissa. Ma non era stata una bravata finita male, nossignori. Era stata un’azione premeditata. Tant’è che un paio di loro erano tornati la settimana dopo a chiedere soldi, per non ripetere la rissa ogni benedetto sabato sera, mandando gambe all’aria gli affari del locale.
    Quando ti chiedono il pagamento del pizzo, perché quello era, hai due alternative: pagare o denunciare.
    Ma siccome il proprietario non aveva nessunissima intenzione di pagare e non aveva assolutamente fiducia negli sbirri, non fosse altro perché a suo tempo aveva passato qualche mese a San Vittore, aveva optato per una terza soluzione. Picchiare più forte.
    E dato che sapeva stare al mondo, aveva cercato di organizzare le cosa come si doveva. Per cui invece di occuparsene personalmente, o di utilizzare scagnozzi che avevano ricorrentemente a che fare con lui e per tanto a lui riconducibili, aveva mandato un tizio di sua fiducia a sondare la zona, per cercare qualcuno da ingaggiare su piazza.
    E a quanto pareva, qualcuno ero io.
    Non avevo mai fatto il castigamatti, ma il tizio si era presentato soldi in bocca. Cinquemila euro, mille subito e il resto a saldo, per far passare un brutto quarto d’ora a quegli stronzi. Il che mi era sembrato un buon affare. Per cui stretta di mano e mi ero preso l’acconto.
    Avrei potuto agire come meglio credevo, al suo capo non interessava. Unica clausola, quelli avrebbero dovuto cacarsi talmente sotto da non avvicinarsi mai più al suo locale. Niente di più facile.
    Avevo cercato un paio di persone giuste ed avevo optato per un’azione intimidatoria forte e diretta contro l’intero campo. Se i ragazzi erano stati mandati da chi comandava, avrebbero capito tutti che stavano pestando i piedi alle persone sbagliate.
    Se invece avevano agito per conto proprio, il brutto quarto d’ora glielo avrebbero fatto passare loro. In ogni caso, centrato bersaglio.
    La luna nel Ticino era un vero spettacolo, che mi commuoveva sempre. Ma dieci minuti dopo i ragazzi erano già tornati a prendermi, con la vecchia Opel Astra grigia che avevano appena rubato.
    Ottima scelta, colore e modello erano di quelli che non davano nell’occhio.
    Avevo preso i sovrapposti, ero salito sul sedile posteriore ed eravamo partiti.
    Avevamo tagliato in due Pavia, da sud a nord, attraversando viette e viuzze del centro. Finestrini bassi per goderci il fresco della notte, radio appena percettibile e chiacchierando a bassa voce per fare meno chiasso possibile.
    “Welwcome to the jungle, we got fun and games…” cantavano dall’autoradio i Gun’s & Roses.
    Avevamo scelto il centro storico nonostante tutte le telecamere della zona ZTL, perché a fronte di tante belle foto su una targa non riconducibile a noi, non offriva spazi alle pattuglie per posti di blocco inaspettati. E poi in genere la madama a quell’ora era più facile trovarla ai margini dei quartieri residenziali, o lungo i viali. Le zone dello spaccio.
    Anche loro poveri cristi, avevano il loro bel da fare.
    Arrivati all’altezza del naviglio, avevamo svoltato verso la periferia. Meno di un chilometro e avremmo raggiunto l’obbiettivo.
    “Come va a casa?” avevo chiesto a Teto, che sapevo non stava passando troppo un bel momento con sua moglie.
    “Insomma…”
    “If you got the money honey, we got your disease…”
    Teto guidava lento, io ed Eliseo ci stavamo preparando all’azione.
    Si trattava di uno di quei piccoli campi abusivi, sorti su un terreno di proprietà, un pezzo alla volta. Di quelli molto discreti, che non volevano avere rogne e se ne guardavano bene dal disturbare chi gli viveva accanto. Una decina di roulotte, non di più. Scarsamente illuminate da lampadine volanti appesa qua e la. La recinzione era semplice e consisteva in una rete metallica da pollaio. L’ideale per potergli sparare attraverso senza nemmeno doversi arrampicare.
    “Porta pazienza, sono cose che si risolvono vedrai.” aveva detto Eliseo. “Pensa a me, quell’imbecille di mio figlio va a finire che si fa bocciare anche quest’anno. E come se non bastasse gli ho trovato due canne nascoste nello zaino. Ho paura che stia imboccando una brutta strada…”
    “In the jungle, welcome to the jungle…”
    Teto aveva rallentato oltremodo, guidando quasi a passo d’uomo. Ormai eravamo ad una manciata di passi e tra pochi istanti li avremmo svegliati, con un servizio in camera da Grand Hotel.
    L’ora era perfetta, in cortile non c’era nessuno e la strada era deserta.
    “Siamo stati ragazzi anche noi Eliseo.” avevo aggiunto io. “E se ti ricordi bene com’eri fatto tu, forse non ti lamenteresti più di tanto.”
    “Forse…” aveva risposto poco convinto, per riattaccare poi con la litania tipica di chi sta invecchiando. “Però i ragazzi d’oggi non sono come eravamo noi. Stanno lì e aspettano. Ma che cosa cazzo aspettano? Io alla loro età già lavoravo in fabbrica. Incollavo le tomaie nel calzaturificio di quello stronzo del Montardi. Te lo ricordi il Montardi che razza di sfruttatore era?”
    “Watch it bring to your shun n-n-n-n-n-n-n-n knees,knees…”
    Teto si era fermato a bordo strada senza spegnere il motore. Ci eravamo fatti zitti e in un baleno io ed Eliseo eravamo schizzati fuori, sovrapposti alla mano, senza sicura e colpi in canna. Per divorare a grandi falcate i pochi metri che separavano la carreggiata dalla recinzione.
    Lo spettacolo stava per cominciare.
    Fatti due tagli nella rete a colpi di tenaglia e tronchese, vi avevamo infilato le canne.
    “Pronto?” avevo sibilato sottovoce, ad Eliseo aveva risposto con un cenno del capo.
    “Fuoco alle polveri.” tiranvo il grilletto.
    “I wanna watch you bleed…”
    Due colpi a testa, quello consentivano i sovrapposti, con cui avevamo fatto saltare le finestre delle roulotte più vicine. Augurandoci che data l’ora, non ci si stesse affacciando nessuno. Diversamente, la prossima volta avrebbero imparato a dormire a la notte, invece di stare a guardare in giro.
    Tempo zero eravamo nuovamente in auto, con le canne dei fucili che ancora fumavano e le prime urla di terrore e di rabbia che squarciavano la notte. E Teto che partiva a tavoletta, senza che ci fosse stato bisogno di spiegargli cosa fare.
    Anche perché, se qualcuno al campo avesse avuto la malsana idea di inseguirci e la sfiga di raggiungerci, avremmo dovuto tirare fuori l’artiglieria. Quella seria intendo.
    “Welekome to the jungle, we take it day by day…”
    Avevamo imbucato nuovamente le strade le centro ed a ritroso eravamo tornati sui nostri passi. Rallentando a mano a mano che l’imbuto del centro storico si faceva sempre più stretto e che con lo scorrere della strada, dallo specchietto retrovisore non si vedeva arrivare nessuno.
    “Io credo che ormai siamo fuori portata.” aveva detto Teo, dando un’ultima occhiata, prima di sterzare di novanta gradi, per infilarsi contromano in Vicolo San Donnino, che da Via Belli, ci avrebbe portato in Strada Nuova.
    “Lo credo anch’io.” avevo risposto, dandogli un buffetto sulla spalla, per invitarlo a rilassarsi. Dato che tutto stava filando liscio, meglio del previsto e a di la delle più rosee aspettative.
    “And when you’re high you ever, ever want to come down, so down, so down, so down yeah”
    Avevamo attraversato il Ponte Coperto e ci eravamo ritrovati di nuovo in Borgo Ticino. Avevamo lasciato lì l’auto rubata ed eravamo saliti sulla mia.
    Avrei dovuto riaccompagnare i ragazzi al casello di Bereguardo, poi fine del lavoro.
    Il giorno dopo i giornali locali avrebbero battuto la notizia, il nostro ingaggio l’avrebbe letta a conferma dell’avvenuto lavoro e avrebbe cacciato il resto del grano. Facile no?
180 replies since 23/3/2011
.