Scrittori della Notte: liberi di scrivere

Posts written by Matteo Del Piero

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    A causa di alcuni problemi con il pc e per la situazione ormai nota a tutti ultimamente non ho aggiornato, ma sto preparando i nuovi file :D mi auguro comunque che stiate tutti bene! Un abbraccio e ci sentiamo presto :)
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    CITAZIONE (Milly Sunshine @ 22/7/2020, 19:07) 
    Ora possiamo dedurre che il caso della morte di Kyle sia collegato a quel caso irrisolto precedente, o almeno lo è in apparenza.
    Non mi stupirebbe però se qualcuno che può dimostrare di essere totalmente estraneo alla prima vicenda irrisolta, stesse "emulando" il precedente killer per far ricadere i sospetti su qualcun altro. Sarebbe una faccenda più complicata ma non lo escluderei.

    Ottima deduzione, Miss Poirot. Vedremo se avrà indovinato :D
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    Ogni tanto, pc permettendo, aggiorniamo together

    FILE 259 – Il ragazzo scomparso nel nulla



    I metodi del commissario Andrade erano quanto di più noiosi ci fossero al mondo. Il protocollo che seguiva era meticoloso, quasi maniacale e prevedibile. I regolamenti vanno seguiti, avete ragione, ma diamine, è la cosa più stupida del mondo quando il caso è ancora aperto e non hai la più pallida idea di cosa l’aggressore possa fare in seguito. Seppur Andrade non fosse intenzionato a collaborare con noi, io e Flavio avevamo continuato a fare domande e ipotesi durante tutta la sua permanenza nella locanda. Dopo aver rifiutato di prendere per buoni gli interrogatori sommari che noi avevamo condotto sui presenti, interrogò di nuovo ogni singola persona presente ricavando le informazioni che noi gli avevamo proposto qualche ora prima. Ricavò dunque cose trite e ritrite, ma lo fece al doppio del tempo. Ottimizzazione, questa sconosciuta. Il suo sottoposto, l’agente Lonelli, ci venne incontro mentre Andrade prendeva appunti dal racconto di Bianca.
    «Il commissario è un tipo a posto, è solo un po’ arrabbiato con il mondo».
    «Il suo superiore è un cafone» disse Flavio incrociando le braccia. «In un’operazione di polizia si collabora fra colleghi, non si fa la gara a chi ce l’ha più lungo».
    «Ha ragione, detective, ma…vede…» Lonelli ci si avvicinò talmente tanto che il suo cespuglio di capelli biondo ci solleticò i volti «Andrade è in servizio da anni sull’isola e non è mai stato accettato da alcuni pezzi grossi della città perché…ecco…avrete notato che…».
    «Andrade è di colore» dissi. «Per questo molti ignoranti non lo vedono di buon occhio».
    Lonelli annuì. «Sull’Isola del Giglio non ci sono grossi crimini, questo potrebbe essere il caso giusto per rilanciare la sua reputazione e affermarsi come valido poliziotto, per questo è così geloso della conduzione delle indagini».
    «Bianca è mia figlia» disse Flavio. «Non voglio pestargli i piedi, ma se crede che starò a guardare mentre cerca di fare progressi sta fresco».

    Il membro più silenzioso dei presenti era Bea, la moglie di Ernesto. Una donna riservata, stravolta nell’aspetto, con i capelli quasi appiccicati al volto e le espressioni deviate dal tempo. Mentre Andrade cianciava si era accomodata ad uno dei tavoli della locanda e fissava il vuoto. Ogni tanto il suo sguardo si dirigeva verso l’enorme vetrata che aveva di fronte e che dava accesso alla zona di parcheggio in cui, dai racconti, Bianca aveva sorpreso il misterioso aggressore nel picchiare uno dei collaboratori del sindaco. Decisi di avvicinarmi a lei e di carpirne qualcosa di interessante cercando di apparire come consolatore.
    «Signora Bea,» le dissi accomodandomi «è preoccupata per la locanda?».
    La donna sorrise e abbassò lo sguardo. «Anche per quello».
    «Vedrà che risolveremo presto il caso e lei tornerà ai suoi affari con suo marito».
    «Tu dici, giovanotto?».
    «Glielo assicuro, signora».
    «Eh, a volte è proprio stancante trovarsi in certe situazioni».
    «La vedo onestamente troppo turbata, data la situazione. C’è qualcosa che la turba nel profondo, signora?».
    «Mio marito» confessò. «Non è una persona paziente».
    «Cosa vuole dire?».
    La donna iniziò a ridere sotto i baffi, come se volesse prendere in giro Ernesto. «Ora è convinto di poter fermare da solo l’aggressore. Ha detto che farà dei turni di guardia fuori dalla locanda con una mazza di legno e appena vedrà arrivare qualcuno inizierà a colpirlo a sprangate».
    Sorrisi. «Un uomo coraggioso».
    «Mio marito non ha proprio un passato di cui vado fiera, per questo quando torna alla sua vecchia versione mi sento un po’ giù di morale. Mi sento come se il nostro matrimonio non l’avesse cambiato».
    «Cosa intende per “vecchia versione”?».
    «Ma lo sai, voi giovani siete sempre molto esuberanti. Tu mi sembri un tipo composto, uno che sa il fatto suo» con le dita affusolate percorse il contorno del proprio mento. «Dove vuole arrivare?».
    Bea sospirò. «Quando ho incontrato mio marito era un avanzo di galera. Un tipo aggressivo, pericoloso. Aveva la fama del picchiatore, del rissaiolo. Ha anche dei precedenti penali. Poi, appena sposati, ha ricoperto anche cariche importanti come quella di vice sindaco».
    «Era vice sindaco quando è accaduto l’episodio dell’incendio di Lionel, il ragazzo di cui ci avete raccontato ieri sera?».
    «Il ragazzo bruciato vivo in una casa? Mio marito era vice sindaco, ma ovviamente ne sa meno di niente. Fu un episodio clamoroso, l’intera isola non è mai riuscita a scoprire la verità. Tu sostieni che quell’aggressione sia legata a quel vecchio caso?».
    Annuii. «Secondo Bianca l’aggressore urlava all’impazzata. Dal racconto sembra proprio che chiunque stesse picchiando il collaboratore del sindaco volesse ricreare la leggenda delle urla di Lionel».
    Bea si portò le mani alla bocca per enfatizzare un gesto di stupore. «Non ci posso credere! Non vorrei che venisse incluso nella lista dei sospettati o che facesse qualche sciocchezza. Non ha più vent’anni e come avrai notato non ha un fisico da cinquantenne in forma. Mio marito si è lasciato andare e se provasse a fare le cose che faceva anni fa per proteggere la locanda temo si farebbe molto male».
    «Capisco,» dissi «ma se scopriamo il colpevole non avrà bisogno di agire in quel modo. Non si preoccupi, ho già delle idee per incastrare il nostro uomo».
    Fummo interrotti dalla voce di Bianca, che urlò a gran voce: «Kyle è scomparso!».
    Mi alzai dalla sedia e la raggiunsi, i presenti le andarono incontro, ma mentre mi dirigevo verso di lei fui stoppato fisicamente dal commissario Andrade con una mano.
    «Stai indietro, ragazzino».
    «Bianca è una mia amica, mi lasci stare».
    Andrade e io andammo l’uno di fronte all’altro a muso duro, occhi dell’uno nell’occhio dell’altro. La mascella gli tremava incontrollata come fosse animata da una scarica elettrica. «Questo è il mio caso, hai capito? Il mio cazzo di caso. Non ti permetterò di rovinarlo».
    «Io i casi li risolvo» gli dissi sorridendo.
    Andrade rispose al mio sorriso con un ghigno intriso di miscredenza. «Non resta da vedere chi lo risolverà per primo, allora». Poi si voltò verso Lonelli. «Agente, voglio un rafforzamento delle unità: chiami il commissariato e dica loro di inviare altri cinque agenti per il pattugliamento. Dobbiamo cercare questo ragazzo e dobbiamo trovarlo in fretta. Se è scomparso rischia di incontrare l’aggressore».

    La ricerca di Kyle ci stava impiegando più del dovuto. Le ricerche erano iniziate a mezzogiorno ed erano proseguite per tutto il pomeriggio. Dalla locanda alla foresta, dalla spiaggia al centro abitato, dalla zona marina a quella urbana: di Kyle non sembrava esserci traccia, quel ragazzo sembrava essersi volatilizzato nel nulla, come se il vento se lo fosse portato disperdendolo nell’aria. La polizia, guidata dal commissario Andrade, sembrava brancolare nel buio, ma la cosa non mi stupiva. Una cosa che ho imparato dall’ispettore Ducato durante tutto il tempo passato al suo fianco nelle varie indagini è la capacità di motivare il personale senza tuttavia ridurlo a poltiglia tramite insulti verbali. Ducato è uno di quei capi silenziosi, che sbottano in maniera esagerata, ma che tramite quel complesso giro di parolacce e gestacci riescono a motivarti a dare sempre di più. La sua mentalità è semplice: se rendi, rimani; se non rendi non sei adatto per questo lavoro e, parole sue, dovresti dirigere il traffico con le palette, «come fanno i poliziotti scarsi». Il commissario Andrade aveva probabilmente i suoi motivi per discutere con ogni tipo di persona gli si avvicinasse e voglio anche giustificare il suo atteggiamento da primadonna per via di ciò che aveva subìto per via di alcuni imbecilli, ma ciò che non tolleravo e che a mio avviso frenava le indagini era la sua spasmodica ricerca di indizi nella maniera peggiore possibile. Non sono nessuno per parlare di metodo d’indagine visto che, di fatto, non ne seguo nemmeno uno e non so neanche se ne sono davvero in grado, ma i modi del commissario erano tutto fuorché positivi: spintonamenti a poliziotti, urla in faccia dinanzi ai sospettati, totale noncuranza del rispetto del lavoro altrui.

    Alle ore ventuno non avevamo fatto nessun progresso di rilievo. Le squadre di emergenza della polizia avevano setacciato al dettaglio tutta l’isola, ma di Kyle nemmeno un odore, né un suono. Niente di niente. Sparito.
    «Possiamo quantomeno dedurre che il nostro uomo conosca bene l’isola» osservai mentre il sudore mi colava dalla fronte.
    Flavio mi fissò inarcando un sopracciglio, poi lanciò un’occhiata stanca all’insegna della locanda nella quale soggiornavamo e un’altra in direzione della fitta rete di alberi rigogliosi che popolavano la foresta nella quale avevamo speso energie alla ricerca di Kyle. «Il nostro uomo è dell’isola, per forza la conosce bene».
    «Non hai capito,» dissi «intendo proprio bene. Il tizio che ha rapito Kyle sa bene come muoversi, ma più di ogni altro abitante».
    Bianca, un po’ scossa per l’aggressione e a tratti anche per la sparizione dell’unica persona con cui avesse legato dall’inizio del viaggio, mi fissò scuotendo la testa. «Dove vuoi arrivare?».
    «Già,» rincarò la dose Flavio «dove vuoi arrivare con questo ragionamento idiota?».
    «Kyle non è sparito nel nulla» dissi. «Abbiamo setacciato tutta l’isola, palmo a palmo. Delle squadre di ricerca sono ancora in giro per trovare quel ragazzo. Ho il sospetto che chiunque lo abbia rapito lo stia muovendo. La polizia sta setacciando anche le case più isolate della comunità, sta letteralmente facendo il porta a porta e nessuno dice niente».
    «Muovendo?» ripeté Flavio. «In che senso?».
    «Con un’auto. O con un carro. Non lo ha posizionato da nessuna parte di preciso. Secondo me lo ha spostato per tutto il giorno fingendosi un normale cittadino dell’isola».
    «Un piano diabolico» osservò Flavio. «Ma allora come lo troveremo?».
    Non risposi e mi limitai a fissarlo negli occhi con aria costernata.
    Flavio sollevò le sopracciglia. «Tu dici che potrebbe già essere…».
    Annuii. «O è imbavagliato e nascosto davvero bene, oppure…».

    Un urlo ci distrasse interrompendo la nostra conversazione. Fu l’urlo di un poliziotto che non avrei mai voluto udire, a cui fece seguito un enorme fumo nero e un puzzo nauseabondo che impestò la locanda e le zone limitrofe, un odore molto forte, non decifrabile a primo impatto. Io e Flavio corremmo in direzione delle urla e dalla destra del sentiero boschivo spuntò anche Denise, che cercava di aiutare i poliziotti nella ricerca nonostante i tentativi di Andrade di allontanarlo. Scostati tre cespugli disposti in modo obliquo e punti dai rovi delle piante presenti ci ritrovammo di fronte uno spettacolo dell’orrore: Kyle, o ciò che ne rimaneva, era appeso a un palo di legno conficcato nel terreno, crocifisso. Il fuoco che ne dilaniava le carni partiva da un mucchio di legno ai suoi piedi e gli aveva divorato già metà corpo, andando a rosicchiare la carne attorno alle ossa del torace. Di Kyle non rimaneva che il volto esausto di un uomo prima ucciso e poi dato in pasto alla crescente intensità del fuoco. Di noi non rimasero che le urla glaciali che riempirono di tensione l’intera isola.
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    CITAZIONE (Bastiano_M @ 10/3/2020, 19:55) 
    In passato ho provato a leggere come lurker alcuni dei file di Alex Fedele, ma in effetti mi sono perso a causa dei riferimenti alla trama orizzontale del romanzo. Solo che ho paura ad affrontare oltre 140 pagine di thread :ph34r: ...

    Non aver paura, al limite puoi sempre mandarmi a quel paese :D Lungo anche perché è di fatto una serie di libri in serie ahaha. Mi rendo conto che possa apparire impegnativo sotto il profilo della lunghezza, ma dipende molto dai tuoi gusti (se dovesse piacerti o meno) :)

    CITAZIONE (Milly Sunshine @ 10/3/2020, 23:02) 
    Non nego che sia lungo, però ci sono anche molti commenti in mezzo. :D

    Quelli sono il sale del thread :D
    Tornerò ad aggiornare non appena avrò modo di riprendere i file in mano!
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    Con colpevole ritardo dovuto ad un funzionamento pc risalente al tempo della preistoria, cerco di aggiornare:

    FILE 258 – Lionel



    Erano le tre del mattino quando tutti noi, clienti compresi, scendemmo a piano terra per scoprire cos’era accaduto a Bianca. Dopo averci raccontato lo svolgersi dei fatti, Flavio fissò dritto negli occhi Ernesto, il proprietario della locanda. L’uomo abbassò lo sguardo e sospirò.
    «Questa storia pregiudica il turismo nella nostra zona ormai da tempo. Non so perché quel Lionel perseguiti l’Isola del Giglio e non so chi sia ad avergli fatto del male. Ma so che per i nostri affari sta diventando dannoso».
    «Lei pensa agli affari?» domandai. «Bianca e Andrea potevano lasciarci le penne».
    «Certo, certo, penso anche a loro…ovviamente».
    Kyle, il bellimbusto, cercò subito di consolare Bianca. «Vedrai, mia cara…è tutto passato…ora tutto bene…tu bene, okay baby?».
    «Senti, allontanati» gli dissi.
    Kyle mi fissò senza dire niente.
    «Capisci la mia lingua? Allontanati».
    «E perché?» domandò Bianca. Ce l’aveva ancora con me per l’affare di Victoria.
    «Perché devo farti qualche domanda e non ho bisogno di Casanova in giro».
    «Oh, Casanova!» esclamò Kyle. «Lo…come dite voi qui…ehm…scuppafimmine».
    «Sciupafemmine» corressi. «E non mi sembra il tuo caso. Aria».

    «Hai notato niente di strano?» domandai a Bianca quando rimanemmo da soli.
    «No, niente».
    «Nessun dettaglio?».
    «Era gobbo».
    «Questo lo so, Bianca».
    «Allora puoi far ritornare Kyle e andare».
    Sbuffai e portai una mano sul viso. «Non fare la bambina».
    «Io faccio la bambina? Sei tu che stai bullizzando Kyle».
    «Ma chi cazzo è questo Kyle?» sbottai. «Lo conosci da tre ore e sembra che siate già amici da una vita e poi non stiamo parlando di questo. Quell’uomo voleva uccidere te e Andrea. Ti sto solo interrogando per…».
    «Aveva un casco».
    «Un casco?».
    «Boh, da motociclista, mi sembra».
    «Okay, ora sta tranquilla e riposati».
    «Come sta Andrea?».
    «Sta guardando la tv in soggiorno, non è molto scosso».
    «E l’uomo aggredito?».
    «Un collaboratore del sindaco. Pare che l’aggressore gli abbia dato appuntamento qui e l’abbia picchiato. Lui è grave» dissi. «Dall’identità è uno degli assessori comunali. Gli ha fracassato il volto con l’arma che aveva. Ora è in ospedale. Ce la farà, questo ci hanno detto. Ma non avrà mai il viso di prima».

    Mi rivolsi a Flavio, impegnato a discutere con i membri della locanda.
    «Sicuri di non aver visto niente di strano?».
    «Cerchiamo un tizio che usa la mano destra e che ha dei tribali sul braccio destro».
    «Te lo ha detto Bianca?».
    Annuii. «Mi ha anche detto che prima di seminarlo gli ha lanciato un grosso sasso contro e dovrebbe averlo colpito al ginocchio sinistro. Il nostro uomo potrebbe avere un taglio in quella zona del corpo».
    Flavio smise di parlarmi e si rivolse alla folla. «Signori, la polizia è già stata avvisata. Nel frattempo condurremo dei piccoli test per risalire all’aggressore ed essere sicuri che nessuno di voi sia tra i sospettati. Due stanze, una per gli uomini, l’altra per le donne. Vi spoglierete rimanendo in intimo e verrete controllati: cerchiamo una ferita sul ginocchio sinistro. L’aggressore potrebbe avere queste caratteristiche.
    «Non mi spoglierò mai dinanzi a degli sconosciuti, detective» tuonò Irina indignata.
    «Allora quando arriverà la polizia farò il suo nome come sospettata numero uno. Si muova immediatamente prima che la faccia trattenere dalle forze dell’ordine! Denise, tu controllerai le donne. Fabio, tu controllerai gli uomini. Al lavoro, ragazzi».

    I controlli di Fabio e Denise non sortirono gli effetti sperati. Chiusi in due anguste stanzette usate dai proprietari della locanda come stanzini per riporre imballaggi e scatole, orpelli e cose varie, nessuno dei presenti nella locanda aveva ferite da nessuna parte.
    «Nessuna ferita» disse Fabio. «E nessuna s nessun tipo. C’è solo Ernesto, il proprietario del locale, che ha una cicatrice da bruciatura dietro la schiena, ma niente di fresco, è di anni fa».
    «Che mi dici tu, Denise?» domandò Flavio.
    La ragazza, mani incrociate dietro la schiena e consueta faccia da schiaffi, scosse la testa. «Nemmeno l’ombra di un indizio».
    «Dobbiamo ricominciare daccapo» osservò Flavio, un po’ demotivato. Quando tutti si furono allontanati mi fissò qualche secondo di troppo e lo scrutai di lato mentre il mio sguardo era perso nelle mie elucubrazioni. La situazione relativa all’aggressione di Bianca non mi convinceva per niente, c’era qualcosa che non quadrava e l’aggressione al collaboratore del sindaco? Qual era il filo rosso che teneva sospesa la vicenda?
    «Non sei convinto?» mi chiese Flavio.
    «Eh?».
    «Non sei convinto» disse. «Quando fai quella faccia lì non sei convinto di ciò che ho detto, non è vero?».
    «Ecco, io…io penso che l’aggressore sia uno dei presenti nella locanda».
    «Cosa?» Flavio strabuzzò gli occhi. «Ma nessuno si attiene alle caratteristiche descritte da Bianca! Abbiamo appena controllato!».
    «Hai ragione,» convenni «ma ricordi cosa ha detto? Dopo aver corso per qualche metro e avergli lanciato il sasso, Bianca si è rifugiata con Andrea nella locanda. Lì l’aggressore si è fermato all’entrata e non ha seguito Bianca».
    «E questo cosa vorrebbe dire?».
    «Sembra strano, no? L’aggressore voleva uccidere Bianca perché lo aveva colto in flagrante mentre cercava di uccidere l’assessore comunale, ma perché non l’ha seguita fino in fondo? Sarebbe potuto entrare e ucciderla, ma si è fermato vicino alla porta per una questione molto semplice: se fosse entrato e avesse attirato l’attenzione avrebbe poi dovuto sostenere la presenza di tutti gli altri clienti della locanda e forse non voleva incontrare qualcuno in particolare perché sa che avrebbe notato in lui delle caratteristiche o dei movimenti che lo avrebbero reso noto agli occhi di tutti».
    Flavio aggrottò le sopracciglia. «In effetti è un ragionamento che può starci».
    «Non solo» ci interruppe Denise spuntando da dietro. I suoi capelli biondo cenere mi si appoggiarono sulla spalla solleticandola. «Chi può dare appuntamento a qualcuno proprio nel parcheggio di questa locanda situata fuori dal centro abitato? Deve per forza essere uno della locanda. Dobbiamo solo capirne di più».
    «E tu da dove spunti?» domandai.
    Denise fece spallucce. «Vi ascolto sempre di nascosto».
    «Buono a sapersi, impicciona» disse Flavio disturbato.
    «Bianca è in pericolo» comunicai. «Se l’aggressore si è messo in testa di eliminarla ci riproverà ancora».
    Flavio sospirò, ma sul suo volto il nervoso era evidente, insinuato in ogni cavità, dipinto su ogni ruga. «L’unica cosa da fare è comportarsi normalmente, come se non lo sapessimo. E aspettare che l’aggressore si faccia vivo. Ovviamente noi la sorveglieremo».

    Ernesto e Bea, la simpatica coppia over cinquanta che gestiva l’ARAGOSTA BLU, aveva subito chiamato la polizia per cercare di vederci chiaro. Verso le dieci del mattino una volante con la sirena spiegata aveva parcheggiato nel viale posteriore della locanda e due poliziotti dall’aspetto per niente rassicurante si erano presentati a noi come il commissario Giorgio Andrade e l’agente Carlo Lonelli. Andrade era un uomo alto e slanciato con indosso un cappotto fuori stagione che immagino portasse per conferirsi un po’ di autorità in più rispetto a quanto avesse. Fronte alta, pelle scura come quella delle sue radici – era di nazionalità portoghese – e fisico statuario raccolto in camicia sportiva e pantaloni eleganti completavano il quadro. Andrade ci fissò dall’alto verso il basso e ci riconobbe: «Alex Fedele e Flavio Moggelli. Ho letto le vostre imprese sui giornali».
    «Molto piacere, commissario» disse Flavio.
    «Molto piacere un cazzo, detective».
    «Prego?».
    «Questo è il mio caso» precisò. «Il mio caso con persone che conosco. Questa è la mia isola. Siete turisti, comportatevi come tali e continuate a farci lavorare. Lonelli» chiamò all’ordine il suo sottoposto, un tizio più basso dell’ispettore Ducato con capigliatura folta e bionda e un paio di gambette flesse come quelle di un ciclista affaticato.
    «Quel commissario è un maleducato» osservò Bianca.
    «Puoi dirlo forte, bambina mia» commentò Flavio. «Ma con me deve stare calmo, o gli spezzo le braccine».
    «Non direi, Flavio» intervenne Denise. Ci voltammo verso di lei e lei sospirò. «Quel tizio fa palestra da anni, è più grosso di Flavio e secondo me è anche cattivo nel pestaggio».
    «Bah, giuggiole» affermò Flavio. «Lo metto sotto con una mano. Ma pensiamo alle cose serie. Sarà anche la sua isola, ma hanno aggredito mia figlia. E mi occuperò del caso, che lui lo voglia o no».
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    CITAZIONE (Milly Sunshine @ 19/11/2019, 15:59) 
    Niente, questi sono peggio che la signora in giallo e don Matteo messi insieme, ogni posto in cui vadano capita qualcosa... non saranno loro che portano un po' sfortuna?

    La storia del figlio del sindaco è molto interessante, anche se al momento non ho idee su congetture varie... solo che i miei sospetti sono caduti per qualche motivo sul proprietario della locanda.

    Don Matteo ha la sua esperienza, eh :D

    La storia del figlio del sindaco diciamo che avrà risvolti nuovi che potrebbero portare a una nuova evoluzione
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    FILE 257 – La leggenda di Lionel



    Secondo il sindaco non potevamo alloggiare in un albergo pieno di turisti. Il nostro nome circolava un po’ troppo sui giornali, in quel periodo. Il rischio di un assedio popolare nel caso in cui fossimo stati riconosciuti sarebbe stato problematico per tutti, quindi ci consigliò caldamente di sistemarci in una vecchia locanda fuori città ormai abbandonata dal mondo, insediata all’interno della vegetazione più fitta dell’isola, leggermente fuori dalla zona nevralgica delle attività commerciali o di semplice vita sociale. La locanda, una costruzione interamente in legno molto affascinante ma un po’ toccata dalla bacchetta magica degli anni, si chiamava ARAGOSTA BLU, ed era gestita da una simpatica coppietta in là con gli anni che non appena ci vide fu cortese nell’aiutarci a sistemare bagagli ed effetti personali. Il proprietario ci si presentò come Ernesto. Non era un uomo alto o slanciato, ma pur essendo piccolo di statura conservava un certo tipo di stazza fisica a livello muscolare che francamente mi stupì. Ci raccontò dei suoi dolori articolari e del fatto che non fosse più efficiente come una volta, ma nonostante avesse più di settant’anni notai come comunque fosse più in forma di me, il che è tutto dire. Capelli sale e pepe, camicia alla boscaiola e pantaloni da papà ne completavano il quadro. Sua moglie Beatrice – per gli amici Bea – era nettamente più giovane di lui di almeno quindici anni. A testimonianza di ciò occhi più luminosi, di un castano rovere ambrato e capelli biondi cotonati in modo impeccabile che sembravano usciti da una pubblicità di cosmetici. Bea era ben più socievole di suo marito e quando il sindaco se ne fu andato chiacchierò con tutti noi del più e del meno mostrandoci in modo superficiale la locanda e le attività svolte.

    Il figlio della coppia, Walter, dava una mano in cucina e nella gestione del resto del personale. Ci salutò con vigore, stringendoci la mano uno ad uno.
    «Avervi qui è un piacere, ho sempre seguito le vostre imprese sui giornali». Rifilò occhiate languide in direzione di Bianca e Denise e decisi che se avesse continuato lo avrei odiato, ma poi mi ricordai di essere in vacanza e di non dovermi sobbarcare nessun tipo di peso, né professionale, visto che non si prospettavano casi all’orizzonte, né di tipo sentimentale. Walter era un ragazzo così acqua e sapone da far sorridere: ad uno sguardo carico di gioia e di soddisfazione personale abbinava un volto ovale, leggermente schiacciato, decorato con folte sopracciglia e una capigliatura senza tempo, simile a quella portata dai contadini nei film a loro dedicati. Un taglio ordinato, corto e dalla tonalità rossiccia che ritornava cromaticamente anche in prossimità del leggero velo di barba che gli copriva parte del volto. Ci disse di avere ventiquattro anni, ma non ne dimostrava più di diciotto ed era francamente il tizio più simpatico che avessi mai visto, almeno a primo impatto. Il resto dei presenti, i clienti di quella stramba ma accogliente locanda albergo o qualunque cosa fosse, erano personaggi caratteristici che non avrei dimenticato e che elencherò in modo quasi schematico: Valentino, un baldo giovane con capelli biondi rasati alla Eminem e una macchina fotografica legata al collo tramite un cordoncino di stoffa che ci disse di essere un fotografo per una rivista locale legata ai cold case che la polizia non era riuscito a risolvere. Irina, una ragazza scontrosa e dall’espressione costantemente disturbata che si presentò a noi come una studentessa di sociologia generale. Indossava un rossetto scuro e del trucco marcato che ne appesantivano il volto e ne accentuavano gli anni, ma provai ad immaginarla al naturale e ciò che ne venne fuori fu il ritratto di una ragazzina che non poteva superare i ventidue anni d’età. E infine Kyle.
    Kyle era divertente: di origini americane, non parlava bene la nostra lingua e ogni volta che provava a pronunciare parole difficili la sua inflessione americana gli fuoriusciva fuori dalla bocca come la bava da una tigre affamata. Ma Kyle aveva un piccolo difetto. Kyle era un figlio di puttana. Un grande figlio di puttana che dal primo momento in cui incontrò Bianca iniziò a fissarla come fosse una specie di tesoro da conquistare a tutti i costi. Le si stagliò di fronte con il suo metro e novanta e i suoi capelli biondi a scodella. «Sono Kyle, bella signorina» le si presentò mentre lo uccidevo con lo sguardo. «Stasera avrebbe la…la gentilessa di cenare con me?».
    «Gentilezza» lo corressi.
    Bianca mi ignorò. «Non farci caso, Kyle. Alex fa solo rumore».
    Ah, e dimenticavo Erika, la ragazza di Walter. Erika era una ragazza minuta e all’apparenza timida, con capelli castani raccolti in una treccia. Ci salutò con parole sommesse e tornò al lavoro. Erano tutti simpatici. Tranne Kyle. Kyle non lo sopportavo.

    A cena lo staff dell’ARAGOSTA BLU ci servì un antipasto mare e monti classico e gustoso, un piatto di tagliolini alla carbonara e come secondo piatto orata con patate. Fu una cena davvero meravigliosa e, dopo aver consumato il cibo, tutti noi commensali dialogammo sui motivi che ci avevano portato a scegliere l’Isola del Giglio come meta per le vacanze. Nell’enorme stanzone adibito a sala da pranzo, con enormi tavoloni di legno a farla da padrone, il primo a prendere la parola fu Kyle, che si era seduto ovviamente vicino a Bianca, alla sua destra. Peccato a sinistra ci fossi io.
    «Isola del Gig…del Giglio è veramente ottima meta per vacanze» disse in un italiano lento e impostato. «Me piace molto perché mi ricorda molto isole dei…come dice quando…dei movies in tv».
    «Hai ragione» gli disse Bianca sorridendogli e ignorandomi. «L’Isola è fantastica. Forse dopo potremmo andare a fare una passeggiata».
    Sollevai lo sguardo e incrociai quello di Denise, seduta di fronte a me. Denise sorrideva in modo beffardo, ridacchiava dentro. I capelli tendenti al castano scuro le si erano parati di fronte al volto come il sipario su un’opera teatrale. Doveva divertirsi un mondo, a quanto pare. Almeno la rivedevo sorridere.
    «Bah, frivolezze» commentò Valentino, il fotografo. «Sono qui per motivi di lavoro e me ne sbatto altamente di questa isoletta disperata. Nessuno di voi conosce la storia di Lionel Il Dannato?».
    «Lionel Il Dannato?» ripeté Flavio ridacchiando. «E chi sarebbe?».
    Valentino sorrise. «Detective, così mi delude. Onestamente credevo sapesse di questa storia».
    «La conoscono tutti» commentò Irina. «Ma solo in questa zona. Io l’ho letta su internet prima di venire qui. Lui è di Torino, non può certo conoscere cose del genere».
    «Di che si tratta?» domandai cercando di ignorare Bianca e Kyle al mio fianco.
    Valentino spiegò: «Anni fa il figlio del sindaco, un certo Lionel Vonelli, fu bruciato vivo all’interno di un’abitazione. Tre uomini misteriosi picchiarono selvaggiamente il ragazzo e poi lo gettarono esanime nella casa chiudendo porte e finestre e incendiando l’intero palazzo. Il ragazzo, avvolto nelle fiamme, iniziò ad urlare come un dannato, ma non poté salvarsi. Da quel momento, durante ogni notte, le urla di Lionel si ripresentano per spaventare presenti e turisti. Fra gli abitanti del centro dell’isola c’è chi dice di averlo persino incontrato. Hanno parlato di un ragazzo gobbo e carbonizzato che li fissava urlando e lamentandosi, contorcendosi per il dolore».
    «Ma che robaccia è mai questa?!» Flavio era inviperito e scettico. «Suvvia, non esiste nessuno spirito su quest’isola, ci mancherebbe altro».
    Valentino incrociò le braccia sopra la testa e appoggiò i piedi sul tavolo. «Lei è libero di credere a ciò che vuole, detective. Ma io scatterò le foto che provano l’esistenza di Lionel e le venderò. Poi diventerò ricco e…».
    Walter, il figlio di Ernesto e Bea, uscendo dalla cucina andò dritto verso Valentino e con un gesto secco gli tolse i piedi dal tavolo.
    «Questa è una locanda seria e non ammettiamo comportamenti del genere da taverna di quint’ordine, sei pregato di comportarti bene. Inoltre stai spaventando gli ospiti con una storia che non ha alcun senso. Hai anche sporcato la tovaglia!» esclamò.
    Ernesto uscì dalla cucina. L’uomo, con indosso un grembiule macchiato, ci venne incontro.
    «Sento confusione. Che succede?».
    «Ancora quella storia».
    Ernesto sbuffò. «Lionel? Porca miseria, ne abbiamo già parlato». L’uomo ci offrì il suo miglior sorriso. «Signori, non c’è assolutamente nulla di cui aver paura. Chi ve ne ha parlato evidentemente è disinformato. Non c’è nessuna prova che questo fantomatico Lionel esista. Tutti noi lo conoscevamo, sull’isola. Lionel era un ragazzo a posto, qualcuno gli fece del male e sicuramente verrà trovato, prima o poi».
    «La polizia non sa nemmeno da che parte cominciare» disse Valentino sogghignando.



    Andrea aveva insistito tanto: voleva dormire con Bianca. Ogni tanto gli piaceva andare da lei e stare tranquillo e coccolato da quella ragazza più grande che considerava bellissima. Lei le leggeva le favole, le raccontava le storie più buffe che le venivano in mente e cercava di farlo sorridere in ogni modo anche prendendo in giro Alex, il suo amato fratello maggiore. Andrea amava stare con Bianca, ma quella sera c’era qualcosa che gli mancava. Fissò il cellulare della ragazza steso affianco al letto. Entrambi nel lettone, avevano giocato fino a qualche minuto prima. Le due e mezza di notte. Le voleva chiedere un favore, ma aveva paura che fosse inadeguato. Forse Bianca si sarebbe arrabbiata. O forse gli avrebbe detto di rimandare al mattino. Ma lui, senza Juggly, il suo orsacchiotto di peluche regalatogli dai suoi fratelli Alex e Leonardo, non riusciva proprio a tranquillizzarsi. Lo aveva visto l’ultima volta nel parcheggio della locanda, poi per il trambusto lo aveva perso di vista e ora gli mancava, diamine se gli mancava.
    «Bianca» la chiamò più volte. «Bianca» disse.
    La ragazza rispose, ancora avvolta dalla stanchezza. «Che cosa c’è?».
    «Ho bisogno di aiuto».

    E così erano andati a recuperare quell’orsetto di pezza a cui Andrea teneva tanto. Aveva solo cinque anni e Bianca non aveva saputo dirgli di no, anche se ciò sarebbe significato scendere al piano di sotto nel buio più totale e recarsi in un parcheggio desolato in piena notte situato vicino a una serie di alberi e cespugli altrettanto desolati da cui, secondo la sua fervida immaginazione, sarebbe potuto spuntare qualche malintenzionato e rapinarla. O qualche mostro.
    «E com’è fatto questo orsacchiotto?».
    «Ma è Juggly!» esclamò Andrea come se fosse la cosa più naturale del mondo. «Il mio orsetto blu che ho sempre in camera mia».
    «Ma Juggly non era la tua scimmietta verde?».
    Andrea scosse la testa. «Non sei attenta. Quella è Luggly».
    Bianca sorrise, ma quella smorfia durò poco: un suono molto sottile, un sibilo simile al vento che suonava fra le fronde degli alberi. Bianca inizialmente non ci fece caso, ma il rumore proseguiva. Finché al rumore non si associò un’immagine: girato l’angolo a ovest della locanda, Bianca e Andrea videro qualcosa di strano.
    Qualcosa si muoveva a terra: ed era un uomo, no…erano due…esseri. Il primo era a terra e nell’oscurità era irriconoscibile, ma c’era. Il secondo era a cavalcioni su di lui e gli sferrava colpi su colpi con l’ausilio di un bastone lungo, di una mazza che sembrava di legno o forse d’acciaio, visto che brillava sotto la luce dell’unico fioco lampione situato a pochi metri da lì. L’uomo a cavalcioni si accorse della presenza di qualcuno e quando si sollevò Bianca lo vide: era gobbo e storpio, sembrava abbigliato con un lungo mantello a coprirgli il corpo e il viso era totalmente scuro, irriconoscibile.
    «Chi sei tu?» domandò Andrea, pregno di innocenza. Bianca lo tirò a sé.
    «Cazzo, corri!».
    Bianca e Andrea iniziarono a correre lungo il perimetro del parcheggio, mentre l’uomo misterioso, gobbo e con il bastone, li inseguiva facendo versi di dolore, come se qualcuno lo stesse dilaniando, come se le fiamme lo stessero bruciando vivo. Bianca corse, corse con tutta la volontà del mondo con al seguito Andrea, che si era reso conto che no, quell’uomo non era per niente innocuo. Prima di entrare nella locanda, Bianca raccolse da terra un grosso sasso che sporgeva dalla terra e lo lanciò contro l’uomo colpendolo di striscio. Bianca riuscì a rientrare nella locanda, l’uomo si fermò dinanzi alla porta in vetro trasparente e rinunciò all’inseguimento. Tornò indietro, mentre la ragazza, sudata e in apprensione crollò al suolo per la fatica
  8. .
    Diciamo che il vagabondo non ha molta attendibilità, ma spesso sono proprio i pazzi a dire la verità :D
    Il trattamento del sindaco e del suo assistente non è piaciuto a nessuno, ma credo che ci sia una ragione alla base. Forse temevano che le parole di quel tizio avrebbero influenzato i nostri amici o che avrebbero gettato sospetti sull'Isola del Giglio, che - parole del sindaco - ha bisogno disperato di turisti per scrollarsi di dosso l'etichetta di quanto accaduto anni prima...o forse c'è qualcosa da nascondere.

    Vedremo in che modo i nostri soggiorneranno sull'isola...credo che troveranno la villeggiatura molto particolare e complessa e chissà, forse rivedremo i personaggi in scena
  9. .
    Inizia un nuovo caso per i nostri amici, vedremo quali saranno gli sviluppi ;)

    FILE 256 - L'isola della leggenda



    1.



    Da qualche tempo Denise soffriva di incubi ricorrenti e tutti avevano lo stesso protagonista: Diego Diaschi, quello che – di fatto – era il padre di sua figlia Sofia. Denise è una ragazza forte tutt’oggi e lo era allora, perciò nessuno si era spinto a preoccuparsi troppo per lei, almeno all’inizio. In quel momento abitava in casa con noi, sedeva alla nostra tavola, poltriva sul nostro divano ed era a tutti gli effetti una di noi nonostante gli episodi della sua vita l’avessero portata ad essere uno dei membri del Fuoco Re fin da piccola per volontà di Mauro Diaschi, che l’aveva salvata da una vita in collegio adottandola e prendendola in custodia come figlioccia. Una figlioccia protagonista di una vita sregolata, però. Nulla della vita di Denise poteva essere considerato normale: quando era poco più che una ragazzina Diego aveva abusato di lei e da quel rapporto non del tutto consenziente era nata Sofia. Denise era una bambina responsabile di una bambina più piccola, ma la parte più infantile di lei era stata repressa dando sfogo a una personalità matura e molto, molto cinica. Era stata Denise a colpirmi alle spalle facendo il doppiogioco con me e Claudio per portarmi all’accampamento del Fuoco Re come da accordi con il clan e con il brutale Oliver Clyde, uno degli uomini di fiducia del Fuoco Re che si finse nostro cliente. Era stata Denise che, una volta catturatomi, si era avvicinata nella tenda in cui ero prigioniero e mi aveva spiegato che no, non aveva alcuna intenzione di fare quella vita, di condurre un’esistenza in cui l’esaltazione ulteriore dell’uomo era il crimine, in cui sua figlia avrebbe dovuto seguire la linea rossa tracciata prima da Mauro e poi da Diego. Denise non era una criminale, ma agiva come tale perché era stata cresciuta come tale. E non voleva che sua figlia ripercorresse le sue orme, non voleva crescere una bambina di tre anni in quel cumulo di sangue e rancore. Perciò, mentre avevo la testa dolorante e il sangue appiccicato su ogni zona del corpo per via delle colluttazioni, Denise mi aveva chiesto aiuto dicendomi di voler scappare da lì. E ce l’avevamo fatta, ce l’avevamo fatta davvero. Ma quelle azioni avrebbero avuto delle conseguenze, anche a lungo termine, ma le avrebbero avute. Ducato aveva detto che il Fuoco Re intendeva darci un taglio, ma io sapevo che con il ritorno in gioco di Diego tutto sarebbe cambiato: avrebbe tentato di riprendersi la sua bambina e anche se ci avrebbe messo tempo l’avrebbe fatto con le unghie e con i denti, non per una questione di affetto, ma per una questione di principio. L’essere umano più cattivo che ebbi mai visto non avrebbe fatto sconti, tutti lo sapevamo.

    Ma c’era bisogno di tempo. Dopo settimane di incubi Flavio aveva avuto, stando a quanto dice, un vero colpo di fortuna. In agenzia si era presentato un certo Brando Molina, un suo amico dell’università che esercitava la professione di psicologo e che deteneva anche una specializzazione in psicoterapia. Il dottor Molina era arrivato in agenzia con il suo abito buono, di prima mattina, per sottoporci un caso semplice: un borseggiatore gli aveva rubato documenti e denaro la sera prima vicina al suo studio e lui era riuscito, nella colluttazione, a notare alcuni suoi tatuaggi molto strani, che partivano dal collo e arrivavano fino a sotto la vita, tatuaggi visibili per via dell’abbigliamento del tizio, canotta nera attillata da palestrato e passamontagna. Il caso ci impiegò per due giorni e dopo aver ritrovato il borseggiatore e averlo consegnato alla giustizia, andammo a cena con Molina in un noto ristorante torinese.

    Brando Molina, ma voleva che lo si chiamasse Brando anche se la maggior parte di noi si riferiva a lui chiamandolo dottore, era un uomo sui quarantacinque anni, con capelli brizzolati pettinati all’indietro e un mento importante glabro, che sembrava non aver mai visto un pelo in vita sua. Gli occhi, grigi come cemento luccicante al sole, erano vispi e interessanti, accompagnati da un naso aquilino e raffinato che sapeva di nobiltà. Dopo gli antipasti Flavio introdusse l’argomento Denise introducendolo prima alla ragazza e poi al dottor Molina.
    «Vedi, c’è questa ragazza» aveva indicato Denise «che vive un periodo un po’ particolare. Ha vissuto delle esperienze traumatiche, si sveglia urlando, spesso ha dei malumori costanti. Non ha avuto una vita facile».
    Molina aveva sorriso compiaciuto. «Non preoccuparti, portala al mio studio. Vediamo cosa posso fare. Tutto gratis, per un vecchio amico».
    «Non ci voglio andare» protestò Denise. «Non mi piacciono gli strizzacervelli».
    «Considerami un tuo amico» disse Molina.
    «Neanche per il cazzo, dottore» la risposta ci spiazzò, perché Denise non era volgare, di solito. «Non andrò a raccontare la mia vita a un perfetto sconosciuto solo perché sembra gentile e ha un titolo che lo qualifica».
    Ci impiegammo tre giorni di fila per convincerla, fino a supplicarla. Dovette vedermi davvero allo stremo delle forze, perché la sera del terzo giorno, a mezzanotte in punto e dopo una serata di discussioni in cui avevo cercato di farle capire che aveva bisogno di qualcuno che la indirizzasse a uno stile di vita più pacato, aveva accettato e sorriso elargendo una risata spropositata, come se il fatto che fossi vicino a un esaurimento nervoso la divertisse.

    Denise aveva iniziato sedute dallo psicologo due volte a settimana. Inizialmente non voleva andarci perché credeva che un’etichetta potesse restarle appiccicata per sempre: quella di pazza scatenata. Ma il fatto che in questo paese non si possa andare a farsi una chiacchierata da uno psicologo perché poi la collettività sostiene che tu sia pazzo dovrebbe far riflettere sul grado di apertura mentale presente nella società. Dopo cinque sedute Molina, che aveva appreso completamente la storia della vita di Denise, chiamò in ufficio me e Flavio e sospirò fissando la cartellina su cui aveva preso degli appunti. Nel suo camice bianco e nei suoi mocassini blu scuro, il dottore sollevò le spalle e scosse la testa.
    Flavio, allarmato per l’assenza di Luana, tutor di Denise impegnata in alcuni affari con il ministero a Roma, aveva chiesto spiegazioni al suo compagno di università.
    «Brando, perché fai così? Come sta Denise?».
    «Denise è una ragazza intelligente, con una maturità fuori dal comune per l’età che ha, ma soffre di un disturbo comune fra le persone che hanno vissuto episodi destabilizzanti. Questa ragazza ha subìto abusi, è stata pestata, umiliata ed ha avuto una figlia. Costretta a fare il doppiogioco per eliminarti» disse indicandomi «e ha dovuto capovolgere tutto per cercare di salvare la sua bambina. Soffre di disturbo post traumatico da stress, non c’è dubbio».
    Flavio aveva sollevato le sopracciglia. «Nel dettaglio?».
    Brando Molina sbuffò, come fosse un po’ infastidito. «Parliamo di un disturbo d’ansia molto particolare: i soggetti colpiti hanno vissuto un periodo di grande stress psicologico o fisico che li hanno messi a dura prova e che ne hanno messo in pericolo la vita. Denise ha probabilmente ricordi molto, molto marcati di ciò che ha vissuto e questo le provoca una sensazione di intensa paura e terrore che sfociano in urla durante la notte, sensazione di costante pericolo, mentalità molto pessimista».
    «C’è una cura per farla ritornare come prima?» disse Flavio.
    Brando elargì un sorriso leggero. «Come prima quando, Flavio? Quel perfido criminale di Mauro Diaschi l’ha prelevata a sette anni da un collegio. Non ha idea di come sia una vita normale».
    Decisi di intervenire. «Deve avere questo stato d’ansia per tutta la vita?».
    Brando scosse la testa. «Ci sono due modi per combattere questo disturbo: il primo è cercare di non farla affaticare, portarla altrove. Fate un viaggio, andate in vacanza. C’è il sole, fa caldo. Andate via da Torino, portatela via da qui e vediamo come reagisce non stando più a contatto con un luogo che le ricorda ciò che ha passato».
    «E il secondo metodo?» domandò Flavio.
    «Medicinali. Piuttosto potenti. Che sarò costretto a prescriverle per calmare i suoi stati d’ansia. Sono delle pillole che permettono un rilassamento cerebrale. Vengono prescritte in caso di stati d’ansia più forti, ma per ora non voglio fargliele assumere. Portatela in vacanza, datemi retta. E vedrete dei miglioramenti. Poi, al ritorno, me la porterete di nuovo qui. Non sarà difficile trovare una località, siete popolari, troverete sicuramente qualche posto disposti a darvi accoglienza».

    2



    Il dottor Brando Molina, di professione psicologo e psichiatra – intimo amico di Flavio – non aveva tutti i torti. Girammo un paio di agenzie di viaggio prima di trovare la nostra destinazione: l’Isola del Giglio , un fazzoletto di terra baciato dal sole e dal senso di relax da cui tutti noi avremmo potuto recuperare un po’ di tranquillità e dimenticare le ombre oscure che ci tormentavano a Torino. Il proprietario dell’agenzia di viaggio insistette per offrirci il soggiorno per intero e cercai di essere gentile dicendo che non era necessario, prima di essere interrotto da Flavio, favorevole invece a farsi offrire il pacchetto completo. Un vero gentleman, se ci riflettete. Quando fummo fuori dall’agenzia di viaggi mi rifilò un’occhiataccia. «Se vogliono offrirmi qualcosa, fammi il piacere di chiudere la bocca» giustificò.

    Era un lunedì mattina così luminoso da far risplendere persino gli angoli più bui dell’isola quando sbarcammo, a bordo di un traghetto privato che sicuramente aveva visto tempi migliori, sull’Isola del Giglio. Il pilota del traghetto, un tipo corpulento con una camicia striminzita addosso che gli scopriva una pancia da camionista troppo grossa per essere normale, sembrava affaticarsi anche solo nel girare il volante e quasi sudò nel parcheggiare. Lo salutammo con un cenno del capo e decidemmo di lasciarlo lì, ad ansimare mentre cercava di rimettere in moto. Quando sbarcammo trovammo tre personalità ad accoglierci con tanto di cartellino identificativo attaccato al centro del petto: il sindaco Mario Vonelli, un uomo grassoccio dall’aspetto sorridente simile a quello di un pupazzo di peluche, ma con un paio di baffoni alla Dalì; il vice sindaco, il signor Galvati, calvo e in forma con indosso un abito troppo serio per l’occupazione che svolgeva e un tizio che probabilmente svolgeva funzioni di accompagnamento dei turisti in bermuda e infradito e con capigliatura ordinata, quasi impeccabile.
    «Benvenuti!» ci urlò il sindaco Vonelli abbracciandoci come se ci conoscesse da una vita. «Oh, non sapete che onore per la nostra isola avervi come visitatori!».
    Tutti noi – eravamo io, Flavio, Bianca, Fabio, Andrea, Denise e la piccola Sofia – rimanemmo abbastanza stupiti dalla reazione del sindaco, che sembrava aver accolto un’intera squadra di calcio vincitrice della Coppa del Mondo, ma decidemmo di rispondere alle moine con dei sorrisi così falsi da poter essere capi di imputazione per alto tradimento.
    «Detective Moggelli!» esclamò riferendosi a Flavio. «Ho sentito tanto parlare di lei, che onore averlo qui e tu, ragazzino» mi guardò e non potei smettere di fissargli quei baffi rubati a Salvador Dalì. «Tu sei un mito, un eroe, un idolo!».
    «Lei sta esagerando» provai a dire, ma non riuscii neanche a terminare la frase.
    «Ma che cosa dici?! L’Isola del Giglio è onorata di avere ospiti così importanti dopo quanto accaduto anni fa».
    E aveva ragione. La situazione della Concordia non era ancora del tutto risolta agli occhi dell’opinione pubblica e l’Isola del Giglio ne era stato il teatro che aveva accumulato dolore entrando nelle colonne dei giornali non per la propria bellezza naturale, bensì per fatti di cronaca che poco avevano a che fare con la vera essenza di quel posto magico. Mi osservai attorno: il mare alle mie spalle era brillante, di un blu acceso che suscitava solo incanto e la costa delicata, abbozzata come in un dipinto. Credevo che mi sarei trovato bene lì, ma mi sbagliavo. Ciò a cui stavamo per assistere avrebbe cambiato la nostra percezione dell’isola, spingendoci a capire meglio ciò che quel posto si portava dietro da anni e anni.
    Mentre marciavamo verso l’auto del sindaco, un fuoristrada rosso fiammante con alcuni loghi comunali stampati sulle portiere anteriori, ci si avvicinò uno strano tizio.

    Calvo, basso e smilzo come un cacciavite, l’uomo era attempato e ciuffi grigiastri spuntavano dai lati del cranio facendolo apparire come un Einstein dimagrito e sofferente. Portava vestiti logori e una barba così ispida che con un bacio sulla guancia avrebbe potuto affettare la pelle del malcapitato che avesse avuto la strana idea di avere un contatto fisico con lui. L’uomo si avvicinò a Flavio e lo afferrò per il colletto della camicia tirandolo a sé e spalancando la bocca priva dei denti anteriori:
    Flavio quasi cadde in avanti, ma il vecchio lo sorresse e gli urlò in faccia:
    «Un nuovo buio!» urlò biascicando. «Un nuovo buio! E voi ci siete dentro!».
    Flavio, occhi sgranati e fissi dentro quelli di quella specie di vagabondo, non reagì se non con una mimica facciale che mirava allo stupore e al disorientamento.
    Il vecchio lo mollò spintonandolo e venne da me. Mi saltò addosso e si attaccò al colletto del mio giubbotto di jeans. «Un nuovo buio!» urlò ancora. «E voi ci siete dentro! Ci siete dentro! Ci siete dentro! Voi…voi dovete…dovete…».
    Dall’auto fuoruscì un omone in giacca e cravatta, presumibilmente un assistente del sindaco. Il grosso e massiccio uomo afferrò l’anziano per l’addome e lo spinse all’indietro scaraventandolo a terra senza pietà. Il vecchio vagabondo iniziò a piagnucolare portandosi le mani al cranio. Mentre piangeva continuava a ripetere: «Un nuovo buio! E voi ci siete dentro! Un nuovo buio! E voi ci siete dentro! Un nuovo buio! E voi ci siete…».
    L’assistente del sindaco, mostrando una disumanità che mi irritò molto, gli andò vicino e gli sferrò un calcio nello stomaco. Il vecchio stramazzò e rotolò su un fianco. Poi l’assistente lo rialzò di peso e se lo caricò sulle spalle.
    Flavio si rivolse al sindaco con occhi di fuoco. «Ma si può sapere chi diamine è?».
    Il sindaco sorrise, i baffetti alla Dalì puntarono verso l’alto. «Oh, è solo un pazzo, non dategli retta».
    «Non mi sembra il caso di trattarlo così» osservai.
    Il sindaco mi restituì un’occhiata diffidente. «Qui vigono delle regole. L’isola ha un disperato bisogno di turisti e di personalità illustri come voi. Non posso permettere che un pazzo sdentato racconti a tutti di cose false e senza senso, perché potrebbe spaventare gli ospiti. E ora seguitemi. Su quest’isola non c’è nessun nuovo buio».
  10. .
    CITAZIONE (Milly Sunshine @ 10/9/2019, 18:52) 
    Speravo in un aggiornamento più lungo e con più azione... è da un po' che Alex vive una vita quasi tranquilla.
    Attendo fiduciosa per il prossimo futuro.

    Proprio questa vita tranquilla dovrebbe insospettire...dopo l'esplosione dell'auto di Kerrin, agente federale che andò a parlare con Alex e Denise in un café vicino all'agenzia investigativa, per Alex sembra tutto quieto.
    Sembra...ma vedremo prossimamente un nuovo caso e ci saranno sviluppi ulteriori sulla vicenda Fuoco Re :D
  11. .

    FILE 255 – Lui non deve averla vinta



    Quando tutti ebbero lasciato l’ufficio – Flavio compreso, uscito per un momento per la sua consueta passeggiata mattutina – mi ritrovai a parlare con Claudio, unico superstite del gruppo di persone riunite in precedenza. Sapete che voglio bene a Claudio, anche se probabilmente siamo come maionese e cioccolata, ma a volte ha delle uscite particolari che mi lasciano senza parole.
    «Lei è almeno carina, Capitan America?» domandò quando fummo da soli.
    Annuii capendo dove voleva andare a parare. «Lei lo è, in verità molto».
    «Chi è?».
    «Victoria, una mia vecchia ragazza della mia città. Vedi, è in città per alcune cose legate all’università e ci siamo reincontrati e…».
    «Avete scopato, quello era chiaro fin da quando hai varcato la porta».
    Annuii, un po’ colpevole.
    «Tu sei consapevole di averla fatta grossa?» domandò.
    «Cosa vuoi dire?».
    «Lo sai che voglio dire, Sherlock Holmes».
    Claudio aveva la mania dei soprannomi e non accennava a togliersi quel vizio. Incrociò le braccia al ventre e la camicia di jeans smanicata che indossava sembrò gonfiarsi in prossimità dei punti strategici in cui erano presenti i muscoli delle braccia.
    «Bianca e io non stiamo insieme» dissi.
    Sbuffò. «Sentimi per un momento, Genio della lampada. Lei è palesemente presa da te, solo un cieco non lo noterebbe. Un cieco o un idiota, per quanto ne so potresti essere entrambi».
    «Come fai a dirlo?».
    Allargò le braccia. «Mi hai visto? Sono una cazzo di bellezza vivente e lei non mi degna di uno sguardo».
    Sghignazzammo e probabilmente era la prima volta da quando ci conoscevamo: io e Claudio avevamo un rapporto strano.
    «Ho sentito che te ne vai» dissi.
    Annuì. «Demi, la moglie di Jacopo, non si è dimenticata di me nonostante quanto occorso a suo marito. Ha contattato i vertici del PSD e ritornerò a Padova, con un nuovo mentore. Pare sia un amico di Jacopo».
    «Conosci il suo nome?».
    «Per niente, ma non mi interessa. Devo rimettermi in carreggiata e risolvere più casi di te, altrimenti non avrai concorrenza».
    «Nessuna concorrenza» dissi. «Sei molto al di sotto delle mie qualità»
    «Questo lo vedremo, Mister Avventura Notturna. Questo lo vedremo».



    Denise era un organismo vivente statico. Bianca un organismo vivente dinamico. Definizioni scientifiche o presunte tali che non avrebbero comunque potuto classificare la personalità delle due ragazze, due mondi contrapposti l’un l’altro che avevano in comune molto poco. Se Bianca era sarcastica, solare e socievole con tutti, Denise era provocante, riservata e burbera per via di quanto vissuto. Se Bianca trovava conforto nello scrivere o nel guardare la tv, Denise non era per niente attratta dalla scatola magica e scuoteva tutti i suoi malesseri nell’ascolto della musica. Persino nell’aspetto non potevano essere più diverse: la prima discretamente slanciata ma mora e dagli occhi scuri come quelli di una volpe scaltra e astuta; la seconda discretamente slanciata, ma dai capelli di un biondo grano e occhi di ghiaccio che contenevano nello stesso momento dolcezza, paura e aggressività. Una delle poche cose in comune fra Bianca e Denise era il concetto di resistenza: entrambe erano dovute diventare grandi troppo presto.
    Denise le si accomodò a fianco, sul divano di casa Moggelli, inizialmente senza rivolgerle la parola. La fissò con la coda dell’occhio e vide Bianca con lo sguardo abbassato e le labbra arricciate. La sua espressione le ricordò quella di sua figlia Sofia quando un capriccio la faceva diventare la piccola discepola del caos, ma non disse niente e la fissò. Bianca se ne accorse e sbottò.
    «Che c’è da guardare?».
    Denise le mostrò i palmi delle mani. «Uh, niente. Stavo solo pensando».
    «Pensando a cosa?».
    «Sbagli tutto con lui, sai?».
    Bianca finse di non capire. «Prego?».
    «Con Alex, ciccia. Dai che hai capito».
    Bianca scosse la testa.
    Denise emise un gemito di lamento. «Lo so che sei rimasta un po’ spiazzata dal suo appuntamento galante di ieri, ma non siete fidanzati».
    Bianca abbassò ancora lo sguardo. «Ecco, non siamo fidanzati. Perciò non devo pretendergli nulla».
    «Brava, ma puoi tuttavia tenerlo sulla corda».
    Bianca fissò Denise inclinando la testa. «In che senso?».
    «Cara,» disse Denise «Alex è un bravo ragazzo, ma capisce le donne come io di cinese. Non è capace di parlare per ore dichiarandoti quanto sei importante e significativa per lui e allora sai che dovresti fare? Dovresti iniziare a trattarlo con freddezza».
    «Ma noi siamo amici».
    «Oh, svegliati bambina!» esclamò Denise sorridendo. «non crederai che non sappia che fra voi c’è stato qualcosa, vero?».
    Bianca annuì con aria colpevole. «E se anche fosse? Se c’è stato è rimasto lì dove siamo stati insieme».
    «Ma lui non lo capisce» incalzò Denise. «Dovresti scaricarlo e metterti un altro ragazzo affianco che ti faccia sentire importante. E portarlo qui, e farlo diventare verde d’invidia».
    Bianca infilò una gamba sotto al sedere e fissò Denise. «Tu mi stai dicendo questo perché…».
    «Perché sono solidale. Non nego che il tuo cavaliere sia un gran bel ragazzo».
    «Sapevo che ti piaceva».
    «Bene, ma non ho intenzione di mettermi fra voi due, qualora ci fosse qualcosa. Perché c’è qualcosa, vero?».
    Bianca fece spallucce. «Credevo ci fosse».
    «Brava, credevi. E lui ti ha letteralmente trascurata per una chissà quale sgallettata. Ripeto, non è l’unico uomo sulla Terra. Mandalo a quel paese e vedi come striscerà da te».
    Bianca sorrise. «Non voglio che torni da me a tutti i costi, non sono mica una disperata che sbava per Alex».
    «Non intendevo dire questo» chiarì Denise ricacciandosi una ciocca color grano dietro le orecchie. «Però è una questione di principio. Non deve averla vinta».
    «Non deve averla vinta» ripeté Bianca.
  12. .
    CITAZIONE (Milly Sunshine @ 13/8/2019, 18:34) 
    Ho dei dubbi che Alex starà a sentire Ducato, conoscendolo... e inizio a pensare che Victoria potrebbe avere a che fare con ciò che Alex vorrebbe scoprire.

    Deduzione molto interessante, vedremo se si rivelerà fondata. Su Alex: lo conosci bene :D
  13. .

    FILE 254 – Ducato contro Alex: la lavata di testa




    Una suoneria fastidosissima mi penetrò i timpani. Avrei voluto avere un martello per schiacciare quel dannato cellulare, ma non riuscivo a muovermi e i miei tempi di reazione erano limitati. Lo afferrai dal comodino e pigiai sulla cornetta verde: una chiamata in arrivo. Non lessi nemmeno il nome e risposi, con voce impastata derivata da una notte quasi insonne.
    «Pronto…?».
    «Alex, posso sapere dove cazzo sei finito?». La voce di Flavio.
    «Oh,» cercai di essere più reattivo. «Ecco…» lanciai uno sguardo in direzione di Victoria. Era nuda fra le lenzuola, accanto a me e mi fissava con gli occhi gonfi della notte. «Sono a casa di un amico».
    Lei ridacchiò.
    «Figurati» sussurrò Flavio. «Non fare il coglione e muoviti, l’ispettore Ducato sarà in ufficio fra cinque minuti».
    «Cosa? Sono dall’altra parte della città, non ce la farò mai a presentarmi in tempo per l’appuntamento».
    «Prendi un cazzo di taxi o un mezzo pubblico e muoviti, deve parlarci di una cosa importante» e riattaccò.
    Salutai in tutta fretta Victoria rivestendomi con gli abiti della sera precedente. Indossai velocemente boxer, jeans e camicia e mi diedi una sistemata ai capelli dinanzi alla specchiera. La casa di Victoria, che la sera prima nemmeno avevo guardato perché troppo impegnato a cercare di recuperare il tempo nel quale non eravamo stati insieme, era piccola ma graziosa: un elegante appartamento nella zona centrale di Torino. D’altronde i suoi erano sempre stati di buona famiglia e si erano permessi più volte sfarzi e lussi impressionanti, da far impallidire chi, a livello economico, preferiva investire il proprio denaro in qualcosa di più solido. Non era dunque un mistero che per il soggiorno piemontese della propria principessa i coniugi Dander avessero speso un capitale, ma la sera prima non avevo avuto tempo di realizzare: avevamo fatto l’amore per tutta la notte ed eravamo crollati solo dopo, l’uno nelle braccia dell’altra, con la frescura indomita insinuata fra i corpi nudi e sudati.
    «Devo andare in ufficio da Flavio» annunciai.
    «L’ho capito» disse sollevandosi. Era completamente nuda, il seno sodo e i capezzoli turgidi e mi fissava con un labbro arricciato, il che mi faceva venire voglia di restare, ma dovevo andare via.
    «Così rendi tutto più difficile» dissi.
    «Lo so, così resti ancora un po’».
    «Nada» dissi e mi precipitai fuori dopo averle schioccato un bacio sulla guancia

    La chiamata di Flavio era arrivata alle otto e ventidue minuti. Ducato sarebbe arrivato in ufficio alle otto e trenta.
    Arrivai solo alle nove e dodici minuti, con un ritardo di quasi un’ora e quando entrai dalla porta secondaria dell’ufficio Flavio mi lanciò uno sguardo glaciale.
    «Ti sei degnato di arrivare, vedo» disse.
    Annuii e cercai di scusarmi con un’espressione poco convincente. Alzai lo sguardo e vidi che in ufficio erano presenti, oltre a Flavio e all’ispettore, anche Bianca, Denise, Fabio, Andrea, Claudio. C’era la squadra al completo e ogni occhiata voleva dir qualcosa. Lo sguardo di Bianca era freddo, distaccato. Aveva evidentemente intuito qualcosa. Avrei dovuto prendere Fabio e appenderlo fuori dalla porta, ma sorvolai.
    Claudio, dall’alto della sua estrema indelicatezza, fischiò forte e sorrise. «Serata piena» mi disse mentre gli passavo accanto. Denise si era limitata a sorridere e a tenersi buoni Andrea e Sofia.

    «Ho delle notizie discrete» annunciò Ducato sorridendo, in una delle poche volte che gliel’ho visto fare. La barba, un pizzetto brizzolato che gli incorniciava delle labbra sottili e piatte, quasi ebbe vita propria nell’accompagnare il movimento della bocca: «Il Fuoco Re per un po’ se ne starà buono, almeno è quanto trapela dall’ambiente».
    «Su quale storia?» domandai.
    Ducato annuì. «Sulla vostra. Dalle informazioni che abbiamo raccolto pare che il clan non farà alcuna mossa in relazione a quanto accaduto. Nello scontro che avete avuto hanno messo a repentaglio la loro capacità di nascondersi agli occhi della gente. Dobbiamo solo essere cauti e ognuno andrà per la propria strada».
    «Ma…».
    «Alex,» mi anticipò. Sbuffò, poi mi fissò accigliandosi. «Prima di venire qui ho pensato a cosa mi avresti detto. Prima che tu dica qualsiasi cosa lascia che ti spieghi come stanno le cose: qualche tempo fa tu, Flavio, tutti noi e gli allegri amichetti che ti porti dietro» disse indicando Claudio e Denise «ci siamo ritrovati all’interno di uno dei campi base di uno dei più pericolosi clan criminali del mondo e da lì siamo usciti sicuramente acciaccati e feriti, ma vivi. Non permetterò un simile scempio un’altra volta. Vuoi sapere perché sei rimasto vivo? Perché Denise svolgeva un doppio gioco egregio per riprendersi sua figlia Sofia, Non perché sei stato così bravo da sconfiggere il clan, non perché tu sia speciale. No, Alex. Sei furbo, intelligente e sai lottare corpo a corpo, ma sappiamo entrambi che se Denise non ti avesse liberato nella capanna in cui ti avevano imprigionato saresti stato ucciso da Diego Diaschi. In più ci ha aiutato anche la faccenda relativa a Maria Grazia. La sua tentata fuga con Roberto Festo, leader degli Enforcers, ha dato tempo alla polizia di organizzare una reazione e di prelevare Sofia e portarla da sua madre».
    Ogni volta che sentivo quel nome rabbrividivo. Avrei voluto salvare Maria Grazia, ma il suo sentimento d’amore nei confronti di Roberto Festo, il braccio destro dell’ex leader del Fuoco Re Mauro Diaschi, aveva complicato le cose. Si era gettata a capofitto in una fuga d’amore disperata ed era rimasta coinvolta in un’esplosione che le era stata fatale. Roberto era scomparso e con lui le taglie sulla sua testa.
    «Maria Grazia» proseguì Ducato «ha letteralmente fatto saltare i loro piani e ha contribuito al caos che ci ha permesso di riportare la bambina nel mondo civile. Inoltre da questa operazione avete giovato anche voi: nessuno è mai uscito vivo da uno scontro diretto con il Fuoco Re. Dovreste considerarvi protagonisti di un miracolo, come chi sopravvive a un disastro aereo».
    «Con tutto il dovuto rispetto, ispettore...» tentai di spiegare. «Non mi sono interessato alla storia del Fuoco Re per una questione di noia, bensì…».
    Ducato non voleva sentire ragione. Mi zittì con un cenno della mano. «Non rifilarmi quella serie di cagate che rifili a tutti gli altri. Lo so, hanno ucciso tuo padre e volevi scoprire chi è stato. Lo so, hanno ucciso la moglie di Flavio e hai provato a far leva sul tuo senso di giustizia per combattere qualcosa che non puoi combattere. Ma ora» curvò in avanti e iniziò a guardarmi dritto negli occhi «devi piantarla, hai capito?».
    Nonostante non fosse molto alto il tono di superiorità che assumeva quando doveva rimproverare qualcuno sembrava elevarlo a livello di centimetri e di reputazione. Mi fissò abbassando in modo lieve la testa, cosicché il suo sguardo sembrasse ancora più terrificante del solito. Quegli occhi, spettatori di tante atrocità in trent’anni di lavoro in polizia, mi fissavano da alcuni secondi e la sua bocca rimaneva immobile, animata solo da un leggero tremolio.
    Ducato si rimise in posizione eretta. «Una delle nuove personalità chiave del Fuoco Re è un tizio mascherato che si fa chiamare Il Filosofo. Parliamo di un mitomane in cui Mauro Diaschi credeva ciecamente. Non abbiamo informazioni su di lui, la sua identità è avvolta nel mistero, ha contatti solo con due o tre persone di fiducia e non ha un’identità. Non ci sono indizi tangibili della sua esistenza, non è mai stato avvistato direttamente dalla polizia, non ha precedenti penali e non c’è niente che riconduca alla sua esistenza».
    «Un uomo inesistente» osservò Flavio.
    Ducato annuì. «Un uomo inesistente. O una donna. Chi può dirlo. Di lui abbiamo solo una fotografia scattata anni fa, sfocata, in cui si vede sullo sfondo. Mascherato, ovviamente».
    «Posso avere quella foto?» domandai.
    «No, non puoi avere un bel niente» tuonò l’ispettore. «Devi allontanarti da questo caso. Diego Diaschi è in coma, ma alcuni nostri informatori ci hanno segnalato che è in netta ripresa. Quando tornerà potrebbe avere voglia di riprendersi Sofia, ma forse lascerà stare, non possiamo saperlo: l’ultima volta hanno perso uomini, soldi e armi. Noi abbiamo perso la voglia di metterci contro qualcosa di più grande di noi. Alex, in nome di tutto ciò che è sacro nella tua vita, a partire da te stesso: smetti di lottare contro i mulini a vento. La devi piantare, ragazzo. Non ti porterà da nessuna parte. Ti distruggerà e in nome di cosa? Cambia davvero qualcosa sapere il nome dell’assassino di tuo padre? Il fatto che tu sappia chi cazzo è te lo riporterà indietro? No, ragazzo. Sarai incazzato come una belva, cercherai quell’uomo per vendicarti di lui, commetterai un crimine e probabilmente la polizia dovrà ancora venirti a riparare il culo. Non sarai protetto come ora. Non riuscirai a fuggire una seconda volta». Ducato prese fiato, il suo tono divenne più dolce, ma rimase fermo. «Ti sto semplicemente dicendo che ti conosco da un po’. E so quanto puoi essere testardo o comunque non razionale quando ti arrabbi. So che c’è qualcosa di…di selvaggio e indomito nel tuo carattere. Qualcosa che in alcune situazioni ti ha aiutato, però credimi: ora è il momento di piantarla».
    Il monologo di Ducato, per quanto bello e per certi versi illuminante, mi risuonò in testa per una settimana come pattume prima di rendermi conto che forse aveva ragione.
    «Che mi dice di Sofia?» domandai.
    «Quella è l’unica cosa che mi preoccupa, l’ho già detto» ammise l’ispettore. «Il clan non vuole fomentare rivalità o arrivare a situazioni come quelle precedenti, ma Diego non la prenderà bene quando ricorderà che sua figlia è con quella che dovrebbe essere sua moglie a casa di uno dei suoi peggiori nemici».
    «Non sono la moglie di nessuno» tuonò Denise, dal fondo della stanza. «Sa bene che non ho mai avuto nessun tipo di relazione sentimentale con Diego e che…».
    «Risparmiami i dettagli, ragazzina. Lo so. Era per dire. Non posso sapere se cercherà di riprendersi Sofia o se proverà a sacrificarla in nome degli affari del clan, ma so che Alex deve stare fermo e smettere di indagare su quegli uomini».
    «Non può impedirmi di indagare».
    «Allora indaga, ma non muovere un cazzo di dito o te lo spezzo».
    «Lei è esagerato».
    «Devi darmi quella cosa che hai».
    «Che cosa?»
    Ducato gesticolò nella mia direzione. «Non fare il finto tonto, dammela».
    «Non so a che ti riferisci».
    «Lo sai!» urlò. «Dammi la penna USB che hai rubato a Martina Tulberi. Lì ci sono documenti del clan criptati. Flavio mi ha detto che non sei riuscito ad aprirla e ho chiesto conferma anche a Denise. Ci sono cose in quella penna USB che è meglio non scoprire. Dammela subito».
    «Ispettore, lei non può costringermi a…».
    Fece qualche passo verso di me. «E invece posso costringerti eccome. Ho visto Flavio, uno dei miei migliori amici, rassegnarsi per l’omicidio di sua moglie da parte di quei figli di troia. Bianca e Fabio li conosco da quando gattonavano sul pavimento, non permetterò che tutte queste persone rischino la loro vita per la tua sciocca ossessione di scoprire a tutti i costi chi ha premuto il grilletto contro tuo padre. Dammi quella cazzo di USB».
    Io e Ducato ci guardammo negli occhi per un istante che sembrò eccessivamente lungo. Pensai tante cose, in quell’istante. A come reagire se mi avesse tirato uno schiaffo, a cosa pensare sull’omicidio di papà, a cosa pensavano i miei amici presenti nella stanza.
    «Questa faccenda potrebbe essere passata, Alex. E non sai quanto potrebbe farti bene».
    Infilai la mano in tasca e pescai la penna USB. Poi la consegnai fra le mani dell’ispettore, che sorrise.
    «Hai fatto la scelta giusta, ragazzo. La scelta giusta. E per quanto riguarda il dossier di tuo padre, quello sulle indagini sul clan che ci hai consegnato tempo fa, puoi venire a prenderlo in commissariato quando vuoi. Abbiamo fatto delle fotocopie. Il fascicolo originale è meglio che lo tenga tu».
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    Credimi, è sorprendentemente la parodia più accurata che abbia mai visto :D ed ho la tua opinione sui cliché negli young adult, a volte taccio perché mi pentirei di quello che potrei scrivere.


    Piccola nota a margine: sono molto rammaricato per questo tuo distacco dalla scrittura
  15. .
    CITAZIONE (Milly Sunshine @ 21/7/2019, 21:31) 
    Gli/le ex che escono fuori dal nulla hanno sempre un che di sospetto, specie considerando che Victoria non sembra una ragazza timida e impacciata che ha bisogno di "riciclare" Alex per rimorchiare. Immagino un nuovo caso molto vicino...

    Molto, molto interessante questa tua ipotesi. Vedremo di che pasta è fatta Victoria ;)

    CITAZIONE (Milly Sunshine @ 21/7/2019, 21:31) 
    Gli/le ex che escono fuori dal nulla hanno sempre un che di sospetto, specie considerando che Victoria non sembra una ragazza timida e impacciata che ha bisogno di "riciclare" Alex per rimorchiare. Immagino un nuovo caso molto vicino...

    Molto, molto interessante questa tua ipotesi. Vedremo come agirà Victoria :D
1382 replies since 12/6/2011
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