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Come ogni mattina, la sveglia ha da poco attivato il suo orrendo lamento, che mi obbliga a lasciare il mondo dei sogni, per entrare nel mondo reale. Quel dannato lamento, che aumenta nel tempo fino allo spegnimento, sta echeggiando per tutta la stanza. Allungo la mano verso la sveglia per porre fine a quella tortura mattutina. Resto a letto, ormai sveglio, a fissare il soffitto, riflettendo come al solito, se sia giusto o meno alzarsi dal letto e affrontare l’ennesima giornata. «Buongiorno cittadino. Sono le sei del mattino, ci sono dodici gradi ed è prevista pioggia tutto il giorno» tuona la voce del controllore. Mi volto verso quel marchingegno, presente in tutte le case ormai da anni, senza dire niente. Mi limito ad osservarlo disgustato, tentando di frenare la voglia di strapparlo dal muro per lanciarlo fuori dalla finestra. Odio quella macchina, come odio tutti quelle telecamere che il governo ha posizionato ad ogni angolo della città. Per prevenire il crimine, dice lo slogan governativo. «Cittadino. Hai un’ora per prepararti. La fabbrica sta aspettando il tuo contributo» tuona nuovamente il controllore che mi ricorda cosa mi riservi la giornata. «Calmati, dammi un attimo» rispondo turbato dalla sua insistenza e tentando di mantenere la calma. Scosto le lenzuola, metto i piedi a terra e mi alzo. Assunta la posizione eretta, mi muovo verso la finestra e osservo la città che mi aspetta là fuori. Nuvole grigie in cielo e pioggia che bagna ogni edificio ed ogni strada. Questo è ciò che presenta davanti ai miei occhi ogni mattina. Pioveva sempre, in quella dannata città non fa altro che piovere. Neanche riesco a ricordare quando è stato l’ultimo giorno di sole, nonostante mi sforzi con la memoria per poterlo ricordare. Inizio a chiedermi se mai ci sia stato. Mi chiedo se il sole sia mai apparso sopra le nostre teste, sopra la nostra città. «Cittadino. Hai quarantacinque minuti per prepararti. L’autobus non ti aspetterà». Onde evitare che insista nuovamente, lascio la camera da letto per recarmi in bagno. Doccia, barba e pulizia dentale. Sono le regole mattutine che non vanno mai evitate, rischio perdere punti e, quindi, perdere privilegi o diritti, come se ne avessimo. Ma quella era la nuova direttiva del governo. Il punteggio sociale. Fai la cosa giusta, guadagni punti e privilegi, fai la cosa sbagliata, perdi privilegi. Piuttosto semplice il concetto. Da parte mia, non so quale sia il mio punteggio. Mi limito a seguire le direttive per non avere problemi. «Cittadino. Il tuo caffè è pronto» mi dice il controllore appena uscito dal bagno. Indosso i vestiti da lavoro, mi precipito in cucina, dove una tazza bollente di caffè mi sta aspettando. Bevo il caffè a brevi sorsi per non ustionarmi le labbra, mantenendo fisso lo sguardo verso la finestra. Tutto è grigio, edifici, strade, cielo, anche le persone sono intonate con i colori del paesaggio. Indossato il soprabito, esco in strada, mentre il controllore pronuncia le sue istruzioni, che evito di ascoltare, tuffandomi all’esterno dell’appartamento. Chiusa la porta, mi imbatto con la prima telecamera, piazzata fuori dal mio appartamento, che controlla il corridoio. Per alcuni istanti si sofferma su di me. Probabilmente mi sta scannerizzando ed essendo un vecchio modello, impiega qualche istante in più, rispetto a quelle installate lungo le strade. Uscito dall’edificio, apro l’ombrello e mi dirigo alla fermata dell’autobus, insieme ad altre persone che hanno la sventura di percorrere il mio tragitto. Nessuna di quelle persone sorride o dialoga con chi gli sta vicino. Sguardo fisso e vuoto di fronte a loro, proseguono nel loro camminare su quel marciapiede, tentando di evitare di mettere piede nelle pozzanghere. Arrivo alla fermata dell’autobus e il mezzo è già lì che aspetta. Mi accodo agli altri che stanno salendo e chiudo l’ombrello per non disturbare. Mi avvicino all’ingresso e la telecamera è già pronta per controllare il mio viso. «Cittadino!!!» mi urla il conducente «Il braccio … dammi il braccio destro». Ho dimenticato di pagare il biglietto della corsa. Scopro il polso destro e lo porgo al conducente che, con scanner in mano, accende il suo fascio rossastro sulla mia pelle. «Ora puoi andare» mi dice con aria soddisfatta. Vado a sedermi, vicino al finestrino, quando l’autobus ormai pieno chiude le porte e inizia la sua corsa. Con la mano, pulisco il finestrino appannato per poter guardare fuori. Faccio quel percorso ogni giorno, ogni mattina, ed ogni volta vedo lo stesso scenario. La strada bagnata, veicoli che si muovono in ogni direzione, persone che camminano e, infine, dopo aver sollevato lo sguardo sopra i tetti degli edifici, anche l’ultima novità del governo. Droni. Droni automatizzati che vegliano su di noi dall’alto. Corazzati e armati di telecamere, controllano la vita nella città. Li odio, come odio tutti quei sistemi che limitavano le nostre libertà. Ma è per il nostro bene, secondo lo slogan governativo, per evitare che gli errori del passato, tornino nel presente. Ma quali errori avevamo commesso nel passato per meritarci tutto questo? E dove erano quegli errori, se ogni traccia di quell’orrendo passato era stato cancellato dal governo stesso. Come potevamo sapere se i controlli erano giusti o sbagliati? Non potevamo. Dobbiamo solo accettare ciò che il governo decide per il nostro bene. Come bambini impauriti, lasciamo che gli altri ci dicano cosa fare e cosa non fare, senza porsi domande. Accettare, a testa bassa, questo è l’unico vero slogan che il governo deve recitare. Ed ecco la fabbrica. Una sorta di prigione per il corpo e per la mente, dove trascorro gran parte della giornata a dare il mio contributo alla società. Ma qual era il mio contributo?
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