Vento nero

Romanzo post apocalittico (e storia di un padre e un figlio)

« Older   Newer »
 
  Share  
.
  1. EG the Wanderer
        +1   -1
     
    .

    User deleted


    Ciao a tutti
    Vi propongo, sperando che vi piaccia, un romanzo che sto scrivendo nelle ultime settimane. E' un progetto su cui sto lavorando in modo abbastanza rapido, lasciando che la trama proceda liberamente. Di solito preferisco pianificare tutto ciò che accadrà prima ancora di scriverlo, ma spesso finisco per lasciare l'impresa a metà. In questo modo, invece, spero di riuscire a farvi leggere anche la conclusione. I primi capitoli sicuramente dovranno essere modificati in base alle idee che mi verranno in futuro.
    Critiche e pareri sono ovviamente molto ben accetti :) Grazie per l'attenzione


    CAPITOLO 1: RESPIRA



    <È ora di andare, Ad! È ora di andare.>
    Adam emise un pigro sospiro. Tirò un’ultima lunga boccata dalla sigaretta, godendo del caldo fumo voluttuoso che gli accarezzava la gola. Gettò a terra la cicca e la soffocò con il pesante stivale nero. Diamine, era ora di andare.
    Aaron, Dave e Rog erano già in sella, con i motori ruggenti e scalpitanti, impazienti di divorare altri chilometri. Adam si fece aspettare, mentre si sistemava i lunghi capelli neri in un codino dietro la nuca. C’era della gente alla stazione di servizio: donne con il viso contratto, infastidite dallo scoppiettio dei motori, e uomini. Gli uomini erano ammirati. Uomini? pensò Adam, divertito. Erano uomini quei deboli, magri, pallidi vermi che strisciavano sulla loro utilitaria elettrica insieme a una mandria di marmocchi? Adam indossò il suo casco nero e accese la moto. La belva prese vita con un ruggito, tremando tra le sue gambe. Aprì il gas. Dio, quanto amava quel suono! Lanciò un’ultima occhiata sprezzante agli spettatori e poi fece cenno ai suoi.
    <andiamo!>
    Adam passò in testa al gruppo e, con una accelerata poderosa, sfrecciò sull’autostrada. Diamine, ne avevano di strada da fare! Erano a malapena a metà del tour: dovevano ancora attraversare tutti i paesi scandinavi prima di tornare a casa. Adam scosse il capo, scacciando il pensiero. Non voleva tornare a casa. Quanti anni aveva Caiden ormai? Quattro, cinque? Nonostante tutto, quel bambino voleva ancora vedere suo padre. Cosa devo fare per liberarmi di lui? pensò Adam. Maledetto bamboccio! Non mi trasformerai in uno di quei mezzi uomini! Ma non era il momento per quei pensieri tristi.
    Il sole splendeva alto nel cielo, illuminando l’asfalto di bagliori sfuggenti. L’aria turbinava come il vento di un urgano e talvolta riusciva ad infilarsi piacevolmente sotto il giubbotto di pelle di Adam. Attorno a lui i vasti campi dell’Europa centrale sfrecciavano via in un lampo sfocato. Non era bella la vita?

    <padre!>
    Adam spalancò gli occhi. Buio. Il sole, la strada, la moto, gli amici… tutto sparito. Era sdraiato. I ricordi degli ultimi diciotto anni esplosero nella sua mente. Dannazione! Con un sospiro Adam si tolse il visore, strizzò gli occhi e un grigio soffitto ammuffito rispose al suo sguardo.
    <padre!> Caiden lo scuoteva gentilmente per la spalla. Il suo pallido viso imberbe era distorto dalla paura. <È ora di andare!>
    Adam si alzò a sedere e spinse via il ragazzo. Sapeva bene quanto gli desse fastidio essere toccato a quel modo. Si stropicciò gli occhi e si ravvivò la folta barba. Diamine, i ricordi virtuali lasciavano così intontiti. Per un istante la sua mente tornò a quell’estate, l’ultima estate che aveva trascorso con gli amici, in giro per il mondo. Quanto gli sarebbe piaciuto tornare là!
    <hanno dato l’allarme, padre> riprese Caiden con un balbettio. <due squilli. Dobbiamo tornare alla Città.> Il moccioso era già in tenuta da Superficie, ma non aveva ancora indossato il casco.
    <sì, sì.> Lentamente Adam si alzò. Inutile ragazzo! Debole e vigliacco! A volte dubitava che fosse proprio figlio suo, sebbene ricordasse bene la notte in cui aveva messo incinta Hellen. Quella stupida ragazza non aveva nemmeno insistito perché lui usasse le precauzioni! E poi piangeva! Piangeva quando aveva scoperto di aspettare un bambino! E che bambino… Uno schifo.
    Uscirono dal Caffè Virtuale senza perdere tempo a salutare Osmord, il malato, deforme proprietario. Ah, Caiden ne aveva paura! Strano che avesse avuto il coraggio di giungere fin lì per chiamarlo.
    I corridoi della Zona Esterna erano bui e umidi. Barboni, handicappati e altra gentaglia si raccoglieva negli angoli delle gallerie bevendo liquori rivoltanti e grufolando come maiali. Nessuno ripuliva il lerciume che lasciavano in terra e in molte zone lo sporco copriva completamente il cemento annerito.
    <hai la mia roba?> interrogò Adam, mentre svoltavano rapidamente verso sud.
    <certo.>
    <dammela.>
    <non è meglio arrivare in un luogo sicuro prima di…>
    <dammela.>
    Caiden si tolse un grosso zaino dalle spalle gracili. Ne estrasse la nerotuta, il casco e la cintura e porse il tutto a suo padre.
    <bene> sorrise Adam. Si vestì rapidamente. La nerotuta era pesante e rigida, riempita com’era di tutte quelle plastiche antiproiettile, antitaglio, eccetera. Bah, roba inutile. Si strinse in vita la cintura, notando con un grugnito di piacere che il ragazzo si era ricordato di infilare nelle fondine pistole e coltelli. Ovviamente Adam girava sempre con una rivoltella nascosta in tasca, ma non era un’arma adatta ad un vero scontro. Indossò il casco, lasciando aperta la maschera.
    <il fucile?>
    <l’ho lasciato a Elric.>
    esclamò Adam, schiantando una manata sulla spalla del ragazzo. <sta’ in piedi, eh! Ora andiamo, non farmi aspettare.>
    A passo spedito attraversarono gli ultimi corridoi della Zona Esterna, scivolando sapientemente nelle zone d’ombra delle telecamere della Guardia Cittadina. Il ragazzo era sempre terrorizzato quando si trattava di girare per quelle zone illegali, ma Adam non se ne stupiva: del resto, era un vigliacco.
    Aprirono un pannello ben nascosto nel muro – uno dei nuovi accessi di cui la Guardia non sapeva ancora nulla – ed emersero in un vecchio magazzino. Sebbene ora si trovassero in Città, erano pur sempre vicini alla Superficie, dunque era normale che i cunicoli fossero ancora del vecchio tipo. Mentre camminava-no, sulla loro testa correvano tubature e condutture dell’aria. Quelle erano galleria del Prima, quando la gente andava raramente sottoterra. Non erano nemmeno ben illuminate.
    <dove?> chiese Adam, rompendo il silenzio. La sua voce brusca rimbombò tra le pareti strette.
    <uscita quarantadue.>
    <ah, bastardi! È la più lontana!>
    Caiden abbassò lo sguardo. <È solo quello che hanno detto.>
    Adam rise. <hai intenzione di guadagnati la paga, oggi? O te ne starai nascosto da qualche parte come al solito?>
    <io combatto sempre.>
    <sì, sì> ribatté con sarcasmo Adam. <avessimo fatto come volevi tu, a quest’ora saremmo tutti e due a portare vassoi alla mensa militare.>
    <È quello che volevo fare io. Tu eri libero di fare altro.>
    <sì, sì. Sta’ zitto.>
    Attraversarono le zone centrali della Città, affollate di lavoratori, ma non furono intralciati: la gente vedeva le divise nere dell’esercito e si scostava velocemente. Com’era giusto che facesse. C’erano molti altri soldati e mezzi militari che sfrecciavano nelle gallerie più ampie. Infine, Adam e Caiden imboccarono una serie di scale e di ascensori e si lasciarono trasportare su fino al salone di uscita. I militari riempivano la zona. Grandi ascensori trascinavano verso l’alto carri armati e unità di comando mobili. Adam proseguì a passo spedito verso il fondo, dove alcune squadre stavano già entrando nelle camere di espulsione. La squadriglia centododici, per fortuna, era ancora in attesa di molti dei suoi uomini.
    Adam raggiunse Elric e lo salutò con una dura stretta di mano. <cosa si dice?> domandò, facendosi consegnare il suo Rockert modello T2. Si sfilò un guanto e palpeggiò la canna. L’acciaio dipinto di nero era piacevolmente freddo contro la sua pelle. Buon acciaio. Il miglior fucile. Elric e Caiden, come quasi tutti i membri della squadra, usavano ancora il vecchio Rockert T1: era il fucile d’assalto in dotazione alle truppe regolari. L’arma patetica che anche lui avrebbe dovuto usare. Ma, be’, Adam sapeva come ottenere quello che voleva. Distolse lo sguardo sdegnoso dall’arma di Elric, il quale stava parlando con la sua voce roca. <ripeti> intimò Adam. <non ti stavo ascoltando.>
    Elric provò a rivolgergli uno sguardo irritato, ma il tentativo fu ridicolo. <ho detto> ripeté, <che hanno avvistato dei Selvaggi. Almeno cento uomini, pare. Hanno tre carri.>
    <non ci hanno mai attaccati con dei carri> s’intromise timidamente Caiden.
    <non fare il vigliacco, ragazzo!> ribatté Adam. <chissà dove li hanno trovati, quei rottami. Non riusciranno nemmeno a sparare, scommetto.>
    Elric rise, nervoso. <be’ il Comandante non vuole correre rischi. A quanto ne so, abbiamo una decina dei nostri carri là dietro. E forse anche qualche elicottero che ci aspetta in Superficie. Li schiacceremo come formiche.>
    Adam non sopportava quel genere di allegre battute da parte di mezzi uomini come Elric. Mentre il Caposquadra richiamava la loro attenzione, Adam rimase in silenzio, dimostrando la sua netta superiorità su quella marmaglia agitata.
    Il Caposquadra Shilson fece il solito discorso: attenzione all’aria, attenzione agli animali, attenzione agli edifici. Bla, bla, bla. Adam preferì osservare le manovre dei carri armati che si arrampicavano sulle lunghe rampe che portavano in Superficie. Il rombo sordo dei motori riecheggiava tutt’attorno a lui. Proprio come la mia vecchia Harley!
    Dieci minuti più tardi, la squadriglia centododici si mise in marcia. Furono chiusi in una piccola camera di espulsione, dove le luci lampeggiavano rosse e gli altoparlanti schiamazzavano. <maschere!> gridavano. <maschere e filtro!> Adam le ignorò. Poi, finalmente, partì un rapido conto alla rovescia.
    Quando il portellone di cemento armato si spalancò e la gelida aria di Superficie penetrò, tutti i soldati, tranne Adam, avevano il volto coperto dalla maschera. Sembravano brutti scarafaggi bitorzoluti. Marciarono fuori, compatti, pestando gli stivali sulla rampa d’acciaio. E davanti a loro, improvviso, esplose l’infinito paesaggio del mondo di Superficie. Il cielo era nero sopra le loro teste: cupe nubi polverose si agitavano spinte dai forti venti d’alta quota. L’ombra schiacciava la terra. E la vecchia Berlino giaceva in pezzi, con i suoi edifici grigi e traballanti, spezzati da una gigantesca ragnatela di crepe che si stendeva per decine e decine di chilometri attorno a loro. La brezza fredda generava turbinelli di polvere nel grande cortile in cui l’esercito si stava organizzando per la sortita.
    <padre, la maschera!> gemette Caiden, spaventato.
    <sì, sì.> Adam fece un lungo profondo respiro. L’aria era così fredda da far male e aveva un sapore strano: amarognolo, come formaggio andato a male. Quanti anni di vita rubava una boccata come quella? Due, tre? Non gl’importava. Respirò ancora, semplicemente per il gusto di fare qualcosa che nessuno aveva il coraggio di imitare. Poi si coprì il volto con la maschera e attivò il filtro. I suoi polmoni poterono rifornirsi di buona aria.
    Mentre la squadriglia centododici veniva caricata sul carro di un grosso furgone nero, Adam si guardò attorno, soddisfatto. Questa grigia, buia, realtà era il suo mondo adesso. Niente più sole e prati e moto. Bensì, sangue e morte.

    * * *

    Caiden strinse il fucile spasmodicamente, la canna tesa davanti a sé. Ruotò. Destra, sinistra: nessuno. I vicoli erano deserti. Con il cuore che batteva all’impazzata, aumentò il passo e raggiunse la squadriglia centododici. Suo padre se ne stava là in mezzo, con il mento alto e il petto in fuori, ridendo insieme agli altri uomini. Teneva il fucile basso: lui non si preoccupava degli attacchi.
    L’esercito si era diviso, dopo essere emerso in Superficie, e un gruppetto di un centinaio di uomini – tra cui la loro squadra – era stato inviato a prendere controllo di una vecchia piazza. Gli uomini avanzavano divisi in squadriglie con passo deciso, ma con pose rilassate. Gli esploratori e i droni non avevano individuato tracce di nemici in quella zona. Molti soldati ridevano e schiamazzavano. Troppo casino, si disse Caiden, con una fitta di preoccupazione. Quella gente non aveva cura per la propria vita?
    Mentre Caiden avanzava a passo insicuro sulle strade infestate dai detriti, un soldato gli si affiancò. Felicia era una combattente abile, nonostante l’età. Cuciti sul suo petto rilucevano ben due Fulmini d’argento. Be’, ad essere onesti lei era già stata un soldato prima del Meteorite, non aveva dovuto imparare tutto da zero.
    <forza, Caiden!> esclamò Felicia. La sua voce era attenuata dalla maschera. <ti senti pronto?>
    <sì> mentì Caiden. <È solo che… non mi piace mai andare a combattere questa gente.>
    <non è mai bello combattere altri uomini, ma a volte ci sono cose che devono essere fatte e basta, giusto? Consolati, giovanotto: quella gente è praticamente già morta. Chi sopravvivrà ai nostri proiettili morirà di cancro fra qualche anno.>
    <vorrei solo che ci lasciassero in pace.>
    <ah!> rise Felicia. <illuso. Sei troppo giovane: non conosci ancora come funzionano gli esseri umani. Quella gente vede che siamo più ricchi, più sani, più forti e desidera essere come noi. E qual è la strada più semplice per soddisfare questi desideri? La guerra. Sempre.>
    Caiden annuì debolmente. Imbarazzato, continuò a camminare in silenzio. Felicia lo metteva a disagio, ma non perché era una buffona, come diceva suo padre. Quella donna era sempre calma… lo faceva sentire più debole di quanto già fosse. Voleva semplicemente essere lasciato da solo.
    La squadriglia centododici giunse finalmente all’imboccatura della grande piazza dove l’esercito avrebbe stabilito uno dei centri di comando. Grigi palazzi si piegavano con spaventosa serietà su quel vasto lastricato. Molti edifici erano stati sventrati da colpi di artiglieria: chissà quanti anni prima si era combattuto laggiù. Chissà quanti uomini erano morti… Al centro della piazza c’erano ancora i resti di alcune fontane vuote e di aiuole dal terriccio nerastro.
    La truppa di divise: alcune squadre fecero irruzione negli edifici, altre – tra cui la centododici – furono incaricate di erigere solide barricate a tutti gli accessi. Un lavoraccio pesante, si disse Caiden, mentre aiutava a trascinare la carcassa di un’automobile nel mezzo della strada. L’acciaio strideva orribilmente contro l’asfalto. Pesante, sì, ma fondamentale! Oltre la barricata in rapida costruzione si stendeva un vero labirinto di strade ed edifici, in cui il pericolo poteva essere in agguato dietro ogni angolo. Caiden era sempre felice quando gli uomini attorno a lui insistevano sulla sicurezza. Non voleva morire.
    Dall’auricolare nel casco emerse un gracidio. <davanti a noi> annunciò il capitano Shilson. <c’è del movimento.>
    Caiden sobbalzò. Tra gli uomini corse un fremito di agitazione. Dove? Che cosa?
    Lontano, il generale Troldot rispose. <squadra ottantotto in supporto alla centododici. Capitano Shilson, che cosa vede?>
    Caiden si sporse cautamente oltre la barricata e sbirciò all’esterno.
    <tutto è fermo, signore. Ma sono certo di aver visto qualcosa. Un nemico o un animale di grosse dimensioni. Duecento metri verso nord.>
    Caiden strizzò gli occhi, studiando un grosso tumulo di detriti, dove aveva indicato il capitano. Il cemento era spezzato e coperto di muschio, con tondini di acciaio che spuntavano come i capelli radi di un pazzo. C’era davvero qualcuno là dietro?
    <mantenete la posizione, rimanete al coperto. Il supporto sta arrivando.> La voce sicura del generale rimbombava nelle orecchie. <la centosettantuno è nel palazzo alla vostra destra, ha quasi raggiunto il tetto.>
    Qualcosa di mosse. Un piccolo spostamento, là nell’ombra. Caiden aveva una buona vista.
    <capitano Hichlock, mi riceve? Raggiungete il tetto e posizionate cecchini e mortai. Probabile avvistamento a trecentoquaranta gradi.>
    Un gatto, un cane? No. Cos’era?
    <ci siamo quasi, signore> rispose il capitano Hichlock della centosettantunesima. <saliamo ora sul terrazzo.>
    Sembrava un… Sembrava… la bocca di un cannone.
    Caiden rimase paralizzato dal terrore. Aprì la bocca, ma non gridò. In alto sopra la sua testa esplose un boato. Nubi infuocate eruppero dalle finestre dell’ultimo piano del palazzo, illuminando il cielo nero. Frammenti di vetro piovvero, insieme ai resti fumanti delle nerotute.
    <hichlock! Hichlock, risponda!>
    Caiden corse via.
    Nascosto dietro ai detriti, il carro armato fece fuoco. La barricata esplose con un tuono assordante. I soldati furono scaraventati via.
    Caiden si schiantò contro la facciata di un palazzo, strisciando il casco sulla parete. Piombò a terra. Dolore. Gridò. Le orecchie pulsavano orribilmente, non sentiva nulla! Aiuto! Aiuto! Cosa doveva fare? Non riusciva a pensare.

    Caiden riaprì gli occhi. Era vivo? Che cosa…? Deboli, attutiti, risuonavano colpi di fucile. Caiden emise un gemito e si sollevò sui gomiti tremanti. Doveva andarsene. Si trascinò qualche passo più avanti, accasciandosi con la schiena contro una parete.
    <aiuto!> sibilò con un filo d’aria.
    Era ferito? No, sembrava di no.

    Caiden riaprì gli occhi. C’erano delle ombre sfocate che si muovevano davanti a lui. Luci, fuoco. Strizzò gli occhi e tutto divenne più chiaro. Uomini neri correvano per la piazza: gridavano, cadevano. Un grosso carro armato nemico avanzava lentamente, sputando una tempesta di piombo sui soldati. Molti uomini avanzavano sulla sua scia, sparando senza sosta. Gli edifici circostanti bruciavano: le fiamme illuminavano gli ultimi piani come vivide corone dorate.
    Caiden scosse il capo. Doveva svegliarsi. Con dita tremanti estrasse la siringa di adrenalina e se la piantò nell’incavo del gomito. Ah! Un istante dopo, tutto divenne più lucido. E giunse la paura.
    <ritirata!> gridava il generale nella radio. <ritirata! Fuori di qua!>
    Caiden si alzò in piedi barcollando. Non poteva raggiungere i suoi: tra lui e l’uscita sud c’erano i soldati nemici. Il terrore si avviluppò alla sua mente, gelido. Doveva fuggire, ma come? Non vedeva più il suo fucile. Estrasse la pistola e, con il cuore che batteva all’impazzata, strisciò di lato. Mentre i suoi ultimi compagni fuggivano o morivano, Caiden trovò una viuzza che conduceva via dalla piazza. Aiuto! In piedi sulla barrica-ta c’era un Selvaggio! Caiden reagì senza pensare: alzò la pistola e sparò. L’uomo cadde con un grido. Il suo petto si alzava e si abbassava freneticamente, pompando sangue vermiglio. Quando il ragazzo lo raggiunse, era già morto.
    Caiden trattene un conato di vomito, mentre osservava quel volto innaturalmente pallido, con gli occhi spalancati e spenti. Il sangue colava lungo il pesante giubbotto e scivolava tra la barba folta. I lunghi capelli del Selvaggio erano tinti di un azzurro vivido, ora sparsi sul cemento insanguinato.
    <non muoverti! Sei circondato!>
    Caiden si voltò di scatto. Oh, no. Oh, no! Tre Selvaggi avanzavano lentamente verso di lui con i fucili puntati contro il suo petto. Oh Signore! Non voglio morire, non voglio morire! <mi arrendo!> gridò. <vi prego, non uccidetemi! Vi prego!>
    Uno dei Selvaggi avanzò. Aveva capelli di un viola acceso. <posa le armi> intimò.
    <i>Che cosa devo fare?!
    si chiese Caiden, terrorizzato. Cosa avrebbe fatto suo padre? Avrebbe combattuto fino alla morte. Ma lui non era suo padre! Non voleva morire! Il ragazzo si chinò e appoggiò la pistola a terra. Il sangue del nemico che aveva abbattuto si allargava in una pozza ai suoi piedi.
    <la cintura!>
    Caiden si tolse la cintura e la gettò a terra. <vi prego> mormorò, con le lacrime agli occhi.
    L’uomo con i capelli viola venne avanti. Alzò l’arma e con il calcio del fucile colpì Caiden al ventre.
    Il ragazzo crollò a terra con un gemito. <vi prego!>
    Il Selvaggio si chinò su di lui, una maestosa figura colorata contro le nubi scure. Gli afferrò la maschera.
    <no, no!> I patetici tentativi di svincolarsi di Caiden non sortirono effetto. Il Selvaggio gli strappò la maschera dal viso e un fiotto d’aria maleodorante invase i suoi polmoni. <no!>
    <respira! Sei libero, fratello!>
     
    Top
    .
  2.     +1   -1
     
    .
    Avatar

    Senior Member

    Group
    Moderatore
    Posts
    14,567
    Scrittore
    +737
    Location
    Hueco Mundo

    Status
    Anonymous
    E' interessante, non c'e' dubbio. La lettura scorre rapida, ci sono descrizioni ma sono poche e ben studiate. Ti consiglio di rivedere i dialoghi perché alcuni li inizi con la lettera minuscola. Inoltre, quando uno dei personaggi pensa tra se e se potresti renderlo evidente utilizzando il corsivo. Lo fai un certi punti, ma non in tutti.
     
    Top
    .
  3. EG the Wanderer
        +1   -1
     
    .

    User deleted


    E' vero, grazie
    Probabilmente è perché per i discorsi diretti ho usato quel tipo di virgolette
     
    Top
    .
  4. EG the Wanderer
        +1   -1
     
    .

    User deleted


    CAPITOLO 2: APRI GLI OCCHI



    A volte un uomo pensa di conoscere il dolore. “L’ho già sopportato” dice, “sono forte.” E davvero si sente sicuro, perché ha compreso il tormento, l’ha dominato e non ne ha più paura. La verità è che quell’uomo non è forte: è fortunato. Invece, coloro ai quali la fortuna non sorride scoprono che non esiste limite al dolore. La conoscenza, la risolutezza, la virtù umana vanno in frantumi, fragili, come statue di cri-stallo sotto venti tempestosi.
    Adam lo capì quel giorno, mentre giaceva moribondo sul lettino del pronto soccorso. Non poteva pensare, ma lo intuì. Il dolore si fuse con la sua anima in un bozzolo duro al centro del suo essere.
    Quando finalmente le droghe furono spinte nel suo organismo, il tormento scemò. Non del tutto, no, ma a sufficienza perché potesse comprendere e ragionare.
    Adam aprì gli occhi. Fece un profondo respiro e l’aria sibilò nei suoi polmoni. L’infermeria era piena: piena di medici che scorrazzavano di qua e di là e piena di feriti. C’era un basso frastuono fastidioso. Le luci brillavano di un candore accecante. Adam richiuse gli occhi. Nel buio, al sicuro dietro le sue palpebre, una barricata di cemento e metallo apparve. No! pensò Adam. La barricata esplose: una nube di fuoco lo colpì e lo scagliò all’indietro come un manichino spezzato. Bruciava, bruciava!
    «No!» rantolò Adam, spalancando gli occhi. Un dolore ustionante si arrampicava suoi arti. Cercò di scrollarselo di dosso. «No!»
    Un’infermiera lo udì e si precipitò al suo fianco. «Va tutto bene» mormorò in tono rassicurante. Diede un’occhiata al monitor di un computer. «Signor Wasmor, va tutto bene. È al sicuro ora.»
    Che cosa vuole questa donna? Adam voleva scendere da quel letto.
    «Signore, non si muova, la prego!»
    Adam cercò di alzare la testa dal cuscino, ma una fitta di dolore lo fulminò. «Che cosa…?> gemette. Con un brivido abbassò gli occhi sul proprio corpo e vide che era nudo, ma coperto da lunghe bende bianche. Le bende avvolgevano il fianco sinistro, dalla spalla fino alla coscia, e passavano tutto attorno al torace. Il suo piede destro era ingessato. Anche il braccio destro era coperto dalle bende all’altezza della spalla, ma Adam non riusciva a percepirlo. Provò a muovere le dite: niente. Oddio, aiuto!
    L’infermiera aveva chiamato un uomo in camice, che si era avvicinato con grosso tablet tra le mani. Il medico sorrise. «Signor Wasmor, è sveglio!»
    «Che cosa… che cosa…?»
    «Shh, non parli, è meglio conservare le forze.»
    Adam non si arrese. «Che cosa… ho?» sussurrò. La gola gli bruciava orribilmente.
    Il medico sospirò. «Lei è stato molto fortunato, voglio dirle questo per prima cosa.»
    Adam rispose con uno sguardo corrucciato.
    L’uomo fece un sorriso triste. «Signor Wasmor, lei ha subito ustioni di terzo grado su quasi metà della superficie corporea. La nerotuta è ignifuga, ma l’intenso calore ha sciolto componenti plastici che si sono fusi sulla sua pelle. Li abbiamo già rimossi. Abbiamo fratture scomposte di quattro costole e di tibia e perone della gamba destra. I bruschi movimenti ai quali è stato sottoposto durante il trasporto potrebbero compromettere la corretta guarigione. Ha tagli ed escoriazioni su tutto il corpo, in particolare sul lato sinistro della testa.»
    Adam non si era reso conto del bendaggio che gli circondava il capo.
    «E…»
    E?! Cos’altro c’è?
    «Sono profondamente dispiaciuto nell'informarla che il suo braccio destro è stato quasi completamente strappato via da un frammento di metallo. Abbiamo tentato di fare tutto il possibile, ma ormai temo dovremo ricorrere a soluzioni estreme… Dovrà essere amputato.» Il medico abbassò lo sguardo. «Mi dispiace.»
    «No» mormorò Adam. Che cosa? No! Non potevano. Un tremito di paura gli corse tra i muscoli e risvegliò un’ondata di dolore. Adam gemette. No…

    Aumentarono la dose di droghe. Adam lo sapeva perché si sentiva sempre più spesso intontito e perché il dolore era scemato fino a diventare un battito sordo che gli faceva vibrare le ossa. Un giorno, lo portarono in una sala operatoria: vide il soffitto grigio sfrecciare davanti ai suoi occhi e capì. Cercò di protestare, forse riuscì persino a parlare, ma presto fu privato dei sensi. Quando si risvegliò, era privo di un braccio. Gridò, ma non aveva voce. Riusciva almeno ad aprire la bocca? Tutto era così confuso. Forse era un sogno, un orribile incubo surreale e traslucido. Voleva andare a casa… Odiava quei medici, quella gente sempre indaffarata. Odiava gli ospedali.
    I giorni fluirono via, trascinati dalla ruggente moto del tempo, e Adam rimase a letto. Le dosi furono diminuite e gli fu concesso alzarsi dal letto e persino mangiare del vero cibo. La robaccia che gli iniettavano in vena non soddisfaceva il suo stomaco vuoto. Invece, alla mensa poteva nutrirsi da sé e, talvolta, persino parlare con gli altri uomini. Ad eccezione di quei momenti Adam dormiva o attendeva con svogliata rassegnazione l’arrivo degli infermieri. Quella gente insisteva per cambiare in continuazione le sue bende e lui li lasciava fare.
    Con il passare delle settimane, poté togliere quasi tutti i bendaggi e posare gli occhi disgustati sulle cicatrici che gli deturpavano il corpo. Non aveva mai visto niente di tanto orribile. Ma, perlomeno, guarivano. Anche sopra l’orecchio gli rimase una vasta cicatrice su cui non crescevano più i capelli. I miei bei capelli! Quanto gli mancava il suo codino! Ancor più sconvolgente era vedere un tozzo moncherino dove un tempo c’era stato un braccio muscoloso. Certe notti, Adam se ne stava rannicchiato, quasi tremando dall’orrore per quel suo corpo spezzato. Cos’era rimasto di lui? Persino la gamba gli dava dei problemi: l’osso si era risaldato, ma i muscoli del polpaccio erano stati danneggiati troppo gravemente e non funzionavano a dovere. Adam se ne andava in giro zoppicando come un lurido storpio, con una sola stampella a sostegno delle sue gambe tremanti.
    «Mi dispiace» avevano detto i medici. «Lei è stato trascinato in modo maldestro e i danni sono irreparabili. Se quei soldati avessero fatto più attenzione…»
    Adam chiuse gli occhi. Urla, grida, il tuonare continuo delle mitragliatrici, le esplosioni. Adam piangeva e gridava, mentre i soldati dell’ottantottesima lo trascinavano indietro, lontano dal carro armato nemico. Gli uomini cadevano, uno dopo l’altro. Ma lui no, lui era stato salvato.
    Non è colpa loro, si disse Adam, riscuotendosi. L’avevano salvato.
    Adam aveva parlato con gli altri feriti, due dei quali erano suoi compagni di squadriglia. Altri, tra cui Elric e il capitano Shilson, venivano a trovarli di tanto in tanto.
    «Metà dei nostri sono stati uccisi dall’esplosione» aveva detto Shilson. Lui se l’era cavata con qualche frattura e bruciatura leggera. «Altri sono rimasti sul campo, feriti, e non abbiamo potuto portarli al sicuro prima che il nemico ci fosse addosso.»
    «Quanti di noi sono rimasti?»
    Il capitano Shilson aveva gli occhi lucidi, ma il mento alzato fieramente. «Sette. Siamo in sette.»
    Adam aveva chiesto delle sorte di Caiden, ma Shilson non aveva saputo dargli una vera risposta. «Non è rientrato» aveva spiegato. «Alcuni di noi l’hanno visto allontanarsi prima dell’esplosione, per cui è probabile che sia sopravvissuto. Ma non è rientrato.»
    «Non sono state organizzate spedizioni di soccorso?»
    Shilson aveva scosso il capo. «Ho chiesto al generale di poter consultare i dati di monitoraggio delle nerotute, ma non mi è permesso. Solo il Consigliere può divulgare informazione ad operazione conclusa.»
    «Significa che sono tutti morti.»
    «Sì.»
    Adam emise un lungo sospiro. Caiden… Era morto. Se anche fosse scampato all’esplosione, quel ragazzo non era in grado di sopravvivere in Superficie da solo, circondato dai nemici. Diamine, persino Adam sarebbe morto là fuori! Una profonda tristezza lo invase. Stupido ragazzo! Adam era abituato ad averlo tra i piedi, ormai. Infine se n’era liberato, eh?

    * * *

    Caiden trattenne il fiato quando fu trascinato fuori dal carcere. Lo costringevano a camminare per cinque minuti all’aria aperta ogni volta che il Senato voleva interrogarlo. Questa volta finì l’ossigeno prima ancora di arrivare all’abitazione rossa che faceva angolo con la Via Grande. Di solito la superava. Ingollò una boccata d’aria. Beh! Disgustosa, putrida aria di Superficie.
    I due Selvaggi che lo scortavano risero. «Puoi respirare, stupido ragazzo! È la stessa aria che c’è dentro la tua cella.»
    Caiden lo sapeva: quel capannone in cui lo tenevano rinchiuso non aveva nemmeno un filtro. Ma finché stava al coperto poteva illudersi di essere in un luogo sicuro, invece lì… all’aperto… Caiden rabbrividì. Sotto il cielo nero tutto sembrava malato e morente. L’aria era gelida come le dita della morte. E non gli avevano nemmeno dato una giacca pesante! Non sono abituato a questo freddo! piagnucolò. Barbari! Sono barbari!
    I due Selvaggi camminavano rilassati, con il mento alto e i lunghi capelli blu lasciati liberi sulle spalle. Tutti gli adulti portavano capelli lunghi in quel posto. E pareva obbligatorio averli tinti.
    Per l’ennesima volta in quelle lunghe settimane, Caiden fu guidato al Municipio, dove i capi dei Selvaggi governavano. Attraversò la piazza affollata, scivolando proprio sotto l’ombra spaventosa dei patiboli. Caiden trattenne un conato di vomito. C’erano due uomini e due donne che penzolavano lassù: la pelle grigia, la bocca spalancata in un ultimo grido di terrore. Erano soldati della Città. La gente vi camminava accanto come se nulla fosse, ma Caiden no, lui non riusciva a guardarli. I vestiti sbrindellati, la carne divorata da uccelli e vermi aveva già iniziato ad emanare un puzzo rivoltante. Aiuto! Doveva andarsene da lì!
    Caiden scrollò il capo, cercando di rimanere lucido. Si lasciò trascinare nel Municipio. Quel vecchio palazzo del Prima era sporco e scrostato, ma nessuno sembrava farci caso. Le grandi lettere “RS” si leggevano sulla facciata, tracciate più di recente. “Repubblica dei Sopravvissuti”. Bah! Sopra le due lettere era dipinta la croce nera, chiusa in un quadrato, che pareva essere il simbolo di quella gente. Ridicolo. Cosa avrebbe detto Adam di un posto del genere? Caiden scrollò il capo: no, non voleva pensare a suo padre. Era sicuro che Adam fosse sopravvissuto all’esplosione: lui era forte. Ma allora dov’era? Perché non veniva a salvarlo? Perché non guidava una squadra di soccorso? Non era mai stato un padre amorevole, ma Caiden aveva sempre pensato che quell’uomo sapesse amarlo, almeno un poco. Evidentemente no. Non sono abbastanza importante, si disse Caiden, trattenendo a stento le lacrime. Sospirò. Che cosa vorranno sapere oggi?

    «Parlaci del Sindaco!» ordinò il Senatore Alderson, battendo un pugno sul tavolo. Quell’uomo dai capelli rossi era particolarmente irascibile, Caiden lo sapeva. «Non abbiamo molte informazioni su di lui.»
    Caiden scosse il capo. «Io… non ne so quasi nulla, non gli ho mai parlato. Lui non… lui non si fa vedere spesso dal popolo.»
    «Un capo che non si mostra al suo popolo?» schernì un Senatore.
    «Dì la verità, ragazzo!» Alderson appoggiò pesantemente il suo pugnale sul tavolo. Caiden ricordava bene quante minacce aveva udito con quella lama puntata alla gola.
    «È la verità!» gemette, tentando di mostrarsi convincente. «Mio padre l’ha incontrato qualche volta. Lui ha degli amici importanti. Io no.»
    «Ebbene, dì quel che sai.»
    Caiden alzò le spalle. «Il Sindaco è… è forte. È intelligente. Ha salvato centinaia di migliaia di persone quando a Berlino c’era il caos. La gente aveva paura e lui ha dato loro una vita sicura. È un eroe.»
    Alderson imprecò, grattandosi la grossa mandibola squadrata. «Non vogliamo sentirti elogiarlo» ringhiò. «Dimmi, ragazzo, il Sindaco ti fa paura?»
    Caiden annuì.
    «Ma del resto, c’è qualcosa che non ti fa paura?» rise Alderson.
    Renmann, il più anziano dei venti Senatori, intervenne in tono più pacifico. «Vogliamo sapere se è un uomo violento? La gente lo teme o lo ama?»
    «La gente lo teme» rispose Caiden. «E… lo ama. È difficile da spiegare. Il Sindaco è sempre presente, anche se non lo vedi. Le sue leggi ci proteggono, le sue decisioni rendono bella la Città.»
    «È un uomo compassionevole?»
    «No. Ama i suoi cittadini, ma è spietato con i nemici. Ripete spesso una frase quando fa gli annunci pubblici.» Caiden passò lo sguardo su quelle venti paia di occhi raccolte attorno a lui sul tavolo a ferro di cavallo. Giacche colorate, capelli variopinti, volti pallidi. Che gente! «Lui dice: “Due sono le responsabilità del Cittadino: obbedienza e risolutezza.” Dice che questi sono i cavalli alati che ci faranno volare verso la grandezza.»
    I Senatori annuirono gravemente. E poi ripresero a fare domande.
    Caiden aveva provato vergogna la prima volta, quando aveva svelato quelle poche informazioni che aveva sull’esercito della Città. Si era sentito un traditore. Ma la seconda volta era stata più facile e la terza più facile ancora. Lui non era un ragazzo coraggioso: era uno che amava vivere. E non c’era segreto che avrebbe saputo mantenere di fronte a minacce di morte e di torture indicibili.
    Terminato l’interrogatorio sul Sindaco, i Senatori vollero sapere dell’economia della Città, ma rimasero delusi. Caiden non si era mai interessato a quelle cose. Tutto andava bene finché lui aveva di che mangiare e finché riceveva la sua paga. La sua paga… sembrava un tesoro così inutile, ora.
    Infine, esaurite le domande, Alderson si alzò e a passi lenti si avvicinò a Caiden. Il ragazzo s’irrigidì. Oddio, che cosa vuole?
    «Abbiamo finito le domande, ragazzo. Sta’ tranquillo» intimò il Senatore, sempre più vicino. I suoi colleghi osservavano in silenzio. «Qua nella Repubblica abbiamo una legge particolare. Rischiosa forse, ma molto importante per il futuro del nostro popolo. E cos’è il futuro di un popolo se non una vigorosa gioventù? Questa è la nostra proposta: unisciti a noi! Prendi le nostre usanze, falle tue e vivi al nostro fianco una vita sincera e in armonia con la natura. Rinnega le loro maschere e i loro cunicoli sotterranei: sono diavolerie che ti tolgono tutto ciò che hai di umano.»
    Caiden rimase sorpreso. Dovette trattenersi dal ridere. Che cosa?! Pensano che io voglia unirmi a loro? Erano pazzi, tutti pazzi.
    «Il mondo è cambiato, ragazzo. E noi ci adatteremo e impareremo a vivere con il cielo nero e con il gelo. Quella gente non ha futuro!» Alderson si stava infervorando, i suoi occhi brillavano. «Pensano di poter restare sé stessi, mentre tutto muta. Sciocchi! Il loro fallimento sarà l’esempio che daremo ai nostri figli. Allora, ragazzo.» L’uomo avvicinò il viso a quello di Caiden. Puzzava. «Che ne dici?»
    Caiden deglutì, spaventato. «Ho davvero una scelta?» balbettò.
    «Ti concediamo due settimane di tempo, dopodiché dovrai prendere una decisione.»
    «E se… se rifiutassi la vostra proposta?»
    «In tal caso saresti libero di andartene. Non ti faremo del male. Se ti dimostrerai un debole, non varrà la pena ucciderti. Inoltre, morirai da solo, là fuori.»
    Caiden annuì, sollevato. «D’accordo… ci penserò, allora.»
    «Nel frattempo ti sarà dato un alloggio più confortevole dello stanzino in cui sei stato fino ad oggi. Sarai sorvegliato, ma potrai visitare il paese se lo desideri.» Alderson concluse con un sorriso quasi innaturale su quelle labbra rigide. Poi fece segno alle guardie che si affrettarono a condurre Caiden verso l’uscita.
    Mentre il ragazzo varcava la soglia e scendeva i primi gradini delle scale, si sentì chiamare.
    «Ehi, Caiden!»
    Caiden si voltò. Una delle Senatrici stava in piedi in cima alle scale, con le mani congiunte davanti a un lungo vestito nero. Una ragazza poco più grande di lui; bella, molto bella. Caiden non aveva mai parlato con una ragazza così affascinante e non poté non sentirsi in imbarazzo. Lui era un debole. «Ehm… Conosci il mio nome?» chiese, arrossendo.
    «Tutti noi conosciamo il tuo nome, ma molti sono troppo pigri per usarlo.» La ragazza sorrise, scuotendo i morbidi capelli argentati. «Io mi chiamo Rachael.»
    «Ehm… Caiden.»
    «Lo so. Prima che andassi, volevo dirti di non aver paura. Anche io ero nella tua stessa situazione, alcuni anni fa. È difficile vedere del buono in questa vita, quando si è abituati alla Città.»
    Caiden spalancò gli occhi. «Tu vieni… tu vieni dalla Città?»
    «Sì. Frequentavo le Zone Esterne e li ho conosciuto un uomo, un viandante. Veniva dalla Repubblica, sebbene viaggiasse molto. Fu lui a parlarmi di questo.» La donna allargò le braccia come per abbracciare tutto il vecchio, decadente edificio. «Mi convinse a seguirlo, a tornare a casa con lui. E… be’, è stata la scelta migliore che potessi fare. Finché non vivi qui non puoi renderti conto di quanto la vita della Città sia corrotta e malsana.»
    Caiden non riuscì a sorridere. «Ma voi respirate l’aria della Superficie> mormorò, sconvolto. «Morirete tutti.»
    «E i Mascherati… la gente della Città no?» ribatté lei. «So che ti fa paura, ma riflettici.» La donna venne avanti e si sedette sui gradini, aggiustando il vestito sulle gambe. «Loro vivranno forse dieci anni più di noi, ma cosa lasceranno? I loro figli non saranno adatti alla vita in questo mondo, saranno come larve che necessitano di una maschera e di un riparo per sopravvivere. Ma i nostri figli, Caiden… i nostri figli avranno la possibilità di essere diversi da noi, di seguire la mutazione del mondo.»
    «Parli… parli di mutazioni e di evoluzione?» chiese Caiden. Capiva cosa stava cercando di dirgli.
    «Anche, ma non solo.» Rachael sorrideva con gli occhi accessi di emozione. «C’è Qualcuno che ha creato questa terra per noi e che spinge la nostra specie nella giusta direzione. Dionero ha mandato il Freddo e il Buio per provarci, ma Egli non vuole l’estinzione del genere umano.»
    «Dionero?»
    Rachael si portò una mano alla bocca, con uno sguardo dispiaciuto. I suoi occhi erano color dell’ebano. «Oh, che sciocca! Tu non puoi conoscere Nostro Signore, ovviamente. Ora va’, ma te ne parlerò, lo prometto.»

    Caiden attraversò il paese, lasciandosi condurre dalle guardie in direzione della propria nuova dimora. Questa gente è fuori di testa! L’aria di Superficie aveva fatto marcire i loro cervelli? Oddio, e se fosse vero? Stava accadendo anche a lui? Padre, ti prego, vieni a prendermi!
    La Repubblica dei Sopravvissuti era sorta in un piccolo paesino poco lontano dalla Città, fuori dai resti di Berlino. Caiden non sapeva quale direzione avevano preso dopo la battaglia, quando lui e gli altri prigionieri erano stati caricati su un furgone, bendati e legati. Avevano viaggiato per meno di due ore, perciò non potevano essersi allontanati tanto. Il paese era piccolo, con case sparse, circondato dalla campagna arida. I Selvaggi si nascondevano bene: non costruivano niente di nuovo, disperdevano il fumo dei camini, non accendevano luci durante la notte. Non doveva essere facile trovarli. Eppure la Città aveva mezzi incredibili, aveva aerei, elicotteri e droni. Le squadre di ricerca potevano trovarli. E se loro non ci fossero riusciti, sarebbe stato Caiden ad andarsene. Il ragazzo sorrise, mentre un torrente di coraggio caldo si riversava nel suo corpo. Poteva fuggire? Sì. Oh, non c’era possibilità che rimanesse in un posto del genere. Sarebbe tornato a casa, avrebbe dimostrato di essere forte e coraggioso. Datemi il tempo di capire dove mi trovo, pensò con un sorrisetto, osservando i Selvaggi attorno a lui. Datemi del tempo e me ne andrò da qua!
     
    Top
    .
  5.     +1   -1
     
    .
    Avatar

    Senior Member

    Group
    Moderatore
    Posts
    14,567
    Scrittore
    +737
    Location
    Hueco Mundo

    Status
    Anonymous
    CITAZIONE
    L’ho già sopportato” dice, “sono forte.”

    "Ci sono già passato" suona meglio.

    CITAZIONE
    vide che era nudo, ma coperto da lunghe bende bianche. Le bende avvolgevano il fianco sinistro, dalla spalla fino alla coscia, e passavano tutto attorno al torace

    Io questa la semplificherei: "vide che era vestito di sole bende, bianche, che gli avvolgevano il corpo dal fianco sinistro..."

    La storia prosegue in modo interessante. Mi ha ricordati un film, Il Prigioniero Coreano, non so se lo hai visto. Comunque, mi incuriosisce la faccenda del Dionero.
     
    Top
    .
  6.     +1   -1
     
    .
    Avatar

    Nessuno è più odiato di chi dice la verità

    Group
    Member
    Posts
    312
    Scrittore
    +26
    Location
    Seconda stella a destra, poi dritto fino al mattino

    Status
    Offline
    Ho letto il primo capitolo e mi piace molto! Purtroppo non ho tempo di leggere il secondo ora, ma lo farò al più presto.
    La storia è molto interessante, ricordati le correzioni di Aster!
    L'unica nota: spesso ho faticato a capire chi parlava. Prova a specificarlo
     
    Top
    .
5 replies since 16/10/2018, 10:40   88 views
  Share  
.