Il Principe Nascosto

di Agonia.Altrui.Company

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    Già, il principe.
    Sul suo conto erano state raccontate infinite storie, l'una diversa dall'altra: alcuni dicevano che fosse un rakshasa, talmente feroce che il padre era stato costretto ad imprigionarlo; secondo altri, invece, era stato vittima di un sortilegio, che gli impediva di mostrarsi alla luce del sole, altrimenti si sarebbe mutato in sabbia.
    Tra le bambine e le fanciulle si era invece diffusa la leggenda che egli fosse talmente bello che nessuno avrebbe dovuto vederlo, perchè il suo aspetto era capace di far perdere la ragione a uomini e donne, portandoli alla follia.
    (estratto dal primo capitolo)

    Si tratta di un racconto fantasy che ho iniziato a scrivere di recente. Apprezzerei qualunque tipo di commento, sia esso positivo o negativo, che possa aiutarmi a migliorarlo. Potrebbero esserci errori ortografici. Beh, spero che qualcuno lo legga e lo apprezzi :)

    TRAMA
    Nel paese di Pathbahea c'è un misterioso principe che nessuno ha mai visto. Ufficialmente, egli non può mostrarsi in pubblico perchè affetto da una strana malattia e per questo viene tenuto nascosto nel castello. La storia ha inizio quando un giovane guaritore viene condotto a palazzo, nella splendida capitale di Jaharra, proprio per curare questo principe. Il ragazzo, che viveva nel deserto, viene così a contatto con una realtà completamente diversa dalla sua, quella in cui vivono i nobili, tra ricchezze, menzogne ed ipocrisia. Diversi misteri verranno svelati, come la verità sul principe, la storia delle divinità venerate a Pathbahea e il passato del protagonista stesso.



    PROLOGO
    L'anziana donna chinò il capo, in segno di ringraziamento, e gli sorrise, mettendo in mostra due file di denti gialli e rovinati, come conchiglie spezzate.
    Lui chinò il capo a sua volta e rispose al sorriso: gli piaceva il volto di quella donna, coperto di infinite rughe, migliaia di solchi leggeri che s'intrecciavano tra loro in quelli che sembravano complicati arabeschi.
    Mentre la guardava allontanarsi sotto il sole cocente, il suo sguardo fu attirato lontano, verso l'orizzonte, dove una nube di sabbia si alzava minacciosa, ma non era una tempesta: qualcuno si stava avvicinando molto in fretta. Dovevano essere allmeno sei uomini e tutti a cavallo.
    Il ragazzo rientrò nella tenda e si mise a riordinare oli ed unguenti, riponendo con cura i loro scintillanti contenitori di vetro dentro ad un grande baule; quando ebbe finito con quelli, raccolse coperte e tappeti, li piegò e li accatastò in un angolo. Si guardò attorno, in quel piccolo caos familiare, e sospirò: c'era ancora molto da mettere in ordine prima di partire.
    Quando uscì di nuovo i soldati avevano già risalito l'altura, erano smontati da cavallo e si avvicinavano minacciosi, con le scimitarre sguainate, urlando ordini e minacce.
    Lui, con calma e compostezza, s'inginocchiò a terra e tese le braccia davanti a sè; mentre un uomo gli legava i polsi con una corda spessa e ruvida, un altro gli mise un sacco di tela sulla testa.
    Infine, uno di loro lo colpì alla nuca talmente forte che al giovane parve di vedere le stelle, appena prima di perdere i sensi.

    CAPITOLO 01
    Il ragazzo cominciò a piano a riprendersi.
    Aveva ancora gli occhi chiusi, ma ormai era sveglio; non riusciva a muoversi e gli pareva che il mondo traballasse sotto di lui, intuì quindi di essere stato legato in sella ad un cavallo.
    Sentiva il corpo molle e dolente, inoltre avvertiva delle fitte acute alla testa; gemette di dolore e si sforzò di sollevare le palpebre. Capì immediatamente dove si trovava.
    Tutto attorno a lui si stagliavano alti palazzi di pietra, bianchi come ossa, che risplendevano al sole; sulle loro sommità riusciva a vedere le grandi cupole, verdi e blu, rivestite di sodalite e diaspro. Le strade erano larghe e lastricate, oltre che terribilmente affollate, già dal primo mattino. Un'affascinante confusione, ricca di suoni e colori, avvolgeva la città, invadendone ogno anfratto.
    Jaharra, la capitale.
    Era l'alba, per cui doveva aver viaggiato per tutta la notte.
    Abbassò lo sguardo sulla piccola folla che si accalcava attorno ai cavalli e i soldati, disegnando il loro sentiero, donne e bambini che lo guardavano incuriositi; poi guardò verso l'alto, verso la cittadella dove lo stavano conducendo. In cima ad essa, maestoso ed imponente, svettava il palazzo reale.
    Non aveva difficoltà ad immaginare che fosse proprio quella, la sua meta. Infatti, in tutto il regno si parlava del principe, afflitto da una malattia strana e mai vista, che nessun medico era ancora stato ingrado di curare, se ne stava rinchiuso nelle viscere del palazzo da anni ormai.
    Era diventato pressochè una leggenda, non c'era nessuno che potesse dire di averlo visto.
    Il giovane scrutò di sottecchi i soldati che lo scortavano: sotto gli elmi non riusciva a distinguere bene i loro volti, ma non dovevano essere un gran bello spettacolo, soprattutto se rispecchiavano il loro carattere brutale.
    Guardò di nuovo verso il palazzo, che si faceva sempre più vicino e incombente; il sole alle sue spalle lo trasformava in una sagoma scura, gigantesca ed inquietante.
    Il ragazzo non venne condotto verso l'ingresso principale, come invece aveva immaginato, ma in un piccolo cortile, al limitare del castello. Era un luogo piuttosto isolato, cinto da mura alte e disadorne.
    Qui, i soldati smontarono da cavallo e uno di loro si avvicinò al prigioniero; estrasse un piccolo pugnale e sciolse le corde che lo costringevano sulla sella, poi lo afferrò da sotto le braccia e lo tirò giù di peso.
    Appoggiare finalmente i piedi su un pavimento stabile fu una sensazione piacevole, se non chè ad essa si sostituì subito un senso di vertigine e di nausea; il mondo parve traballare agli occhi del ragazzo, quasi fosse ancora a cavallo. Sentì le gambe deboli, instabili, e fu perfino grato all'uomo che continuò a tenerlo saldamente per le spalle, mentre un suo compare gli legava le mani dietro alla schiena.
    Gli uomini lo condussero allora all'interno del palazzo, senza mostrargli più gentilezza di quanta gliene avessero riservata sino ad allora.
    Mentre veniva trascinato lungo i corridoi potè ammirare la bellezza del casello, gli archi inflessi, tipici di Pathbahea, e quelli trilobati, una piccola influenza dell'architettura seripaziana; la cosa più affascinante, comunque, erano senz'altro le grandi colonne, tutte riccamente decorate con motivi geometrici e floreali, che sostenevano gli alti soffitti.
    Ovunque si aprivano cortili interni splendidi e rigogliosi.
    Sarebbe stata senz'altro una visita più piacevole, se si fossero presi la briga di invitarlo, anziché trascinarlo fin lì.
    Venne portato davanti ad una grande porta di legno intarsiato, che due guardie si accinsero ad aprire; della stanza che c'era oltre, però, riuscì a vedere soltanto il tappeto, tanto in fretta venne costretto a prostrarsi.
    Mentre uno dei soldati lo teneva schiacciato a terra, il ragazzo guardò avvicinarsi, con elegante lentezza, un paio di scarpe rosse, ricamate d'oro, con la punta all'insù.
    -Cosa sarebbe questo?- domandò il loro proprietario, con la voce carica di disprezzo.


    -Cosa sarebbe questo?- domandò il sovrano, con la voce carica di disprezzo, guardando la creatura che il suoi soldati gli avevano portato.
    Era un ragazzino pallido, dall'aria malaticcia, così magro che riusciva senza sforzo a contarne ogni vertebra della schiena; indossava soltanto un paio di braghe, larghe e sgualcite, che un tempo dovevano essere state bianche.
    I suoi capelli erano neri come la pece e sembravano non aver mai conosciuto il tocco di un pettine.
    -Un guaritore, Vostra Altezza.- rispose uno dei soldati, inchinandosi umilmente -Lo abbiamo preso nella regione di Kaheinn, dove le sue capacità lo hanno reso famoso.-
    -Un guaritore?- ripetè il re, sollevando le sopracciglia.
    Uno degli uomini sollevò allora la testa del ragazzo per i capelli, costringendolo a mostrare il viso al sovrano.
    Questi lo osservò ancora una volta, con rinnovata attenzione, ma tutto ciò che vide fu un volto scavato, solcato da profonde occhiaie; perfino gli occhi di quella creatura era sgradevoli: piccoli e neri, privi di espressione, vacui come quelli di un cadavere. Quei piccoli occhi ricambiarono il suo sguardo con una calma snervante, senza mostrare alcun segno di deferenza o timore.
    -Un guaritore.- ripetè di nuovo il sovrano, incupendosi; con un improvviso gesto del braccio gettò a terra un candelabro d'oro, che stava in piedi lì accanto. Quello cadde silenzioso, il rumore attutito dallo spesso tappeto che ricopriva il pavimento, eppure fece sobbalzare i soldati, che s'irrigidirono.
    -Io hio chesto un dottore- disse il re -invece voi mi avete portato un ciarlatano.- c'era qualcosa di inquietante, nel suo modo di parlare; una sorta di ottusa pacatezza, come il lamento di un bambino annoiato, stanco.
    L'uomo che lo teneva a terra allentò la presa, così il ragazzo, svelto come un serpente, riuscì a divincolarsi e a mettersi in piedi. Allora osservò a sua volta la persona che aveva di fronte: Halmutaj, re di Pathbahea, era un uomo imponente, temprato da una vita di campagne militari; la sua barba, lunga e fulva, iniziava a striarsi di grigio, dandogli l'aspetto di un uomo più saggio di quel che doveva essere. Indossava anelli d'oro a ogni dito e un turbante tanto grande da apparire quasi ridicolo.
    -Non sono un ciarlatano.- affermò il ragazzo mentre tra sé e sé decideva che no, quell'uomo non gli piaceva affatto.
    Halmutaj lo guardò con un lieve stupore negli occhi, poi incrociò le braccia davanti al petto fece un cenno con il capo ad uno dei suoi uomini, che subito colpì il giovane al fianco con il manico della sua scimitarra.
    Lui ricadde a terra emettendo un gemito di dolore, sotto gli occhi attenti del sovrano.
    -Piccolo pezzente.- lo rimproverò quello, con un sospiro che nascondeva un certo divertimento -Chi ti ha dato il permesso di rivolgerti a me?-
    Il ragazzo si contorse un momento sul tappeto, poi si voltò verso l'alto, rivolgendo al sovrano uno sguardo che, più della rabbia, esprimeva una distaccata pietà.
    Sopraffatto dall'ira, il re gli tirò un calcio dritto in faccia, tanto forte da farlo rotolare su sé stesso.
    -Rinchiudetelo da qualche parte.- disse poi ai soldati, con voce glaciale -E fate presto: sta macchiando la tappezzeria.-


    Il ragazzo si portò una mano alla faccia e sfiorò delicatamente il proprio naso: era decisamente rotto. Provò a soffiare fuori l'aria e sentì uscirne il sangue, formando piccole bollicine.
    Gli procurava un dolore terribile, pulsante, che pareva estendersi a tutto il viso, come se stesse indossando una maschera di chiodi.
    Comunque, non era poi un problema tanto grave.
    Si guardò intorno, per studiare la piccola cella nella quale si trovava: tre pareti di nuda roccia e le sbarre, spesse e arrugginite, che si affacciavano sul corridoio, scarsamente illuminato da delle torce. Non c'erano finestre ed il soffitto era basso, opprimente; sul pavimento era stata sparsa della paglia ma laggiù, lontano dal sole, aveva finito per marcire.
    Faceva un freddo terribile, o forse era soltanto una sua impressione, causata dalla debolezza che si sentiva nelle membra.
    La cosa più atroce di quel luogo era il fetore che si alzava dalla latrina, in un angolo tra due pareti, e che rivelava che i servi non erano stati diligenti nello svolgimento delle loro mansioni. Almeno, non là sotto.
    Oltre el dolore lancinante che gli procurava il naso rotto, ne avvertiva un altro al fianco, dove era stato colpito, e capì di avere una costola incrinata.
    Comunque, non era poi un problema tanto grave.
    Si lasciò sfuggire un piccolo sorriso, mentre pensava che fosse quasi esilarante la velocità con la quale la situazione aveva preso una simile piega. Eppure, lui era arrivato a palazzo con le migliori intenzioni, sebbene non di propria volontà, e se gli avessero chiesto di curare il loro misterioso principe, non avrebbe certo rifiutato.
    Già, il principe.
    Sul suo conto erano state raccontate infinite storie, l'una diversa dall'altra: alcuni dicevano che fosse un rakshasa, talmente feroce che il padre era stato costretto ad imprigionarlo; secondo altri, invece, era stato vittima di un sortilegio, che gli impediva di mostrarsi alla luce del sole, altrimenti si sarebbe mutato in sabbia.
    Tra le bambine e le fanciulle si era invece diffusa la leggenda che egli fosse talmente bello che nessuno avrebbe dovuto vederlo, perchè il suo aspetto era capace di far perdere la ragione a uomini e donne, portandoli alla follia.
    Il ragazzo sospirò, emettendo un buffo suono attraverso il naso frantumato: non voleva avere nulla a che fare con mostri e maledizioni, ma se si fosse trattato di una persona malata, gli avrebbe prestato il suo aiuto più che volentieri. Non avrebbe chiesto nulla in cambio, se non di poter tornare a casa.
    Si guardò di nuovo attorno, consapevole di dover pensare al più presto ad una soluzione, ma in quel momento proprio non ce la faceva, attanagliato com'era dal dolore e dal sonno.
    Sicuramente, l'indomani gli sarebbe venuto in mente qualcosa.
    Comunque, non era poi un problema tanto grave.


    Quella notte il ragazzo sognò del suo passato e quando si svegliò gli pareva ancora di poter sentire l'odore di incenso e il freddo dell'ossidiana, incredibilmente liscia al tatto.
    Si tirò su a sedere e si toccò di nuovo la faccia: la ferita era rimarginata, anche se avrebbe dovuto abituarsi alla nuova forma che il suo naso aveva assunto.
    Non impiegò molto ad accorgersi che qualcuno gli aveva lasciato, lì nella cella, un otre d'acqua ed un pezzo di pane; si avvicinò, camminando sulle ginocchia, e li raccolse. Non era molto, ma lo avrebbe tenuto in vita.
    Il pane era duro e ammuffito, l'acqua sapeva di ruggine.
    Tuttavia, la tortura peggiore che la prigionia portava con sé, era senza dubbio la noia: le prime tre o quattro ore, quando ancora cercava una via di fuga, erano state quasi divertenti, ma da quando si era arreso, il tempo aveva iniziato a scorrere con un ritmo nuovo, pigro, snervante.
    Laggiù, dove non aveva modo di capire che ora fosse, poteva soltanto ascoltare il battito del proprio cuore, come un ticchettio esasperante. I secondi che passavano tra un battito e l'altro parevano infiniti.
    Diverse volte provò a rivolgere la parola alle guardie, che passavano davanti la cella quando dovevano darsi il cambio, ma quelle lo ignoravano ogni volta, con ammirevole ostinazione.
    Dai suoni che giungevano alle sue orecchie riuscì a capire che, anche se non poteva vederle, c'erano altre celle oltre la sua, ma questo non migliorò la situazione: il prigioniero alla sua destra probabilmente era vecchio e moribondo, infatti non lanciava che deboli lamenti. Dall'altro lato, invece, doveva esserci rinchiuso un brigante di Wawaru che, di tanto in tanto, imprecava sottovoce nella sua lingua, quasi ringhiando.
    Così, ignorando tutto ciò che lo ciscondava, il ragazzo cominciò ad ideare il proprio piano.
    Se fosse riuscito a guarire il principe dalla sua malattia, probabilmente il sovrano lo avrebbe perdonato per quel piccolo atto d'impudenza; tuttavia, se voleva arrivare al principe, doveva riuscire ad evadere.
    Corrugò la fronte: anche se fosse riuscito a fuggire dalla propria cella, non conosceva il palazzo reale, non aveva idea di dove fosse tenuto il principe.
    Arrivò in breve alla conclusione che, in quel momento, scappare sarebbe stato inutile; doveva trovare il modo di raccogliere informazioni da lì dove stava, senza attirare l'attenzione di nessuno. Solo una volta stabilita l'ubicazione del principe, avrebbe deciso come agire.

    Edited by Agonia.Altrui.Company - 9/11/2017, 23:40
     
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    Ho letto il prologo e il primo capitolo e devo ammettere che ho trovato tutto piuttosto coinvolgente, con un'atmosfera a tratti quasi fiabesca, specie nel primo capitolo.
    Spero che continuerai a postare presto, perché la storia mi sembra intrigante. *-*
     
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    Grazie mille! Posterò presto il secondo capitolo. :)
     
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    'anziana donna chinò il capo... e sorrise
    Lui chinò il capo... e sorrise

    La seconda frase potresti farla: Lui replicò le sue gesta...

    Così eviti di ripetere che china il capo e sorride, in pratica allegerisci e rendi più scorrevole.

    CITAZIONE
    Il ragazzo cominciò a piano a riprendersi.

    C'è un eroore, a piano.

    CITAZIONE
    era ancora stato ingrado di curare

    In grado.

    CITAZIONE
    Qui, i soldati smontarono da cavallo

    La virgola, in questo caso, non serve.

    CITAZIONE
    -Io hio chesto un

    Qui c'è una svista, hio.

    CITAZIONE
    ma quelle lo ignoravano ogni volta

    Levalo quell'"ogni voltam c'è già all'inizio della frase, basta che ti fermi a "lo ignoravano".

    CITAZIONE
    Così, ignorando tutto ciò che lo ciscondava,

    Circondava.

    Aggiungo un ulteriore appunto: fai un uso troppo ripetitevo del punto e virgola. Non devi metterceli per forza a chiusura delle frasi. Cerca di dosarle meglio.

    Passando alla storia, siamo ancora all'inizio quindi mi aspetto ulteriori sviluppi nell'immediato futuro, ma al momento direi che l'incipit c'é. Un principe che si vocifera malato, un guaritore che potrebbe guarirlo..
    Ora non resta che vedere come intende fuggire di prigione. Magari darà prova delle proprie capacità guarendo il moribondo nella cella accanto.
     
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    Ti ringrazio per i suggerimenti e anche per aver trovato tutti quegli errori! La questione del punto e virgola è un punto dolente... anzi, è praticamente una droga per me, lo metto ovunque. Proverò a moderarmi. Almeno un pochino.
     
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    CAPITOLO 2
    Quel giorno c'era di guardia Hadal.
    Il ragazzo si sedette, appoggiando la schiena alle sbarre di ferro, e sospirò: con Hadal era inutile parlare, faceva semplicemente finta di non vederli, i prigionieri. Proprio come un bambino imbronciato.
    Era uno di quei soldati che somigliano più che altro a dei banditi; aveva la faccia larga, rozza, l'espressione perennemente accigliata. Non aveva la barba, ma non doveva essere molto bravo a radersi, poiché ogni giorno sfoggiava nuovi piccoli tagli sul mento e le guance. A pensarci bene, forse aveva soltanto un gatto particolarmente affettuoso. Al giovane sfuggì un mezzo sorriso, immaginando quel bruto mentre accarezzava una graziosa palla di pelo.
    -Buona sera, Hadal!- esclamò il ragazzo, cercando di sporgersi tra le sbarre.
    Tutto ciò che gli giunse in risposta fu un mezzo grugnito, che doveva appartenere al soldato e non ad un cinghiale, per quanto potesse sembrare il contrario.
    Il prigioniero sospirò di nuovo, chiudendo gli occhi: avrebbe semplicemente aspettato il cambio della guardia, sperando di avere più fortuna. Le sue aspettative non furono deluse quando, diverse ore dopo, Taliban arrivò per sostituire il suo compare.
    Ah, gli piaceva Taliban. Era un carceriere ineccepibile, ma aveva anche quel poco di umanità che lo rendeva una compagnia più piacevole di Hadal, nonché una migliore fonte di informazioni.
    -Buona sera, Taliban.- lo salutò il ragazzo, quando lui passò alle sue spalle, davanti alla sua cella.
    -E' ancora giorno, Sfregiato.- gli rispose l'altro, in maniera piuttosto sgarbata, ma con una certa confidenza.
    “Sfregiato”.
    Al giovane non dispiaceva quel soprannome: sembrava il nome d'arte di un brigante, oppure un pirata. Aveva un suo fascino.
    -Qui è sempre sera.- gli rispose, alzando le spalle.
    L'uomo riflettè per un momento, ma poi decise di non ribattere e si avviò con calma verso la sua postazione designata.
    Non andava bene. Doveva cercare di protrarre la conversazione.
    -Ho sentito dire che le condizioni del principe sono peggiorate!- esclamò allora il ragazzo. Era un azzardo, ma la sua prigionia si stava protraendo troppo a lungo e, nonostante ormai conoscesse il volto e il nome di ogni singola guardia del palazzo, il suo piano non aveva fatto progressi significativi.
    Questa volta, il soldato fu costretto a tornare sui suoi passi -Il principe?- domandò sorpreso -Da chi lo hai sentito?-
    -Da uno dei tuoi compari.- rispose risoluto il prigioniero.
    Taliban aggrottò la fronte, lasciando che le sue folte sopracciglia scure arrivassero quasi a toccarsi -Io non ho sentito dire nulla, a riguardo.- ribattè.
    L'altro rimuginò un momento -Ah, forse non sei abbastanza importante.- ipotizzò -Quindi hanno pensato che non ci fosse bisogno di dirtelo.-
    L'uomo gli tirò un calcio, attraverso le sbarre, che lo raggiunse all'altezza dei reni, mozzandogli il respiro e facendolo uggiolare.
    Ah, gli piaceva Taliban, ma quando era nervoso faceva subito ricorso alle mani. Con quel carattere, gli sarebbe stato difficile trovare una donna disposta a sposarlo.


    Sentì dei passi avvicinarsi. Non erano i passi delle guardie, erano più leggeri, silenziosi. Allora, il ragazzo continuò a fingere di dormire.
    Dalle fessure degli occhi socchiusi, osservò le due esili figure che entrarono nella sua cella, per pulire la latrina. Avevano i piedi scalzi, indossavano vestiti cenciosi e la debole luce delle torce scintillava sui loro collari di ferro. Erano schiavi.
    Durante la sua permanenza nelle segrete, il giovane aveva appreso molte cose su di loro.
    Il culto di Azhil, il Grande Padre, predicava l'uguaglianza tra gli uomini; tuttavia, anche dopo essersi convertita, Pathbahea non era stata capace di rinunciare alle comodità offerte dalla schiavitù.
    Soltanto i reali e i nobili, da allora, si erano arrogati il diritto di tenere degli schiavi.
    Questi schiavi erano costretti a seguire regole ridicolmente ipocrite: dovevano fare il proprio lavoro senza essere visti ne uditi da nessuno, per non arrecare vergogna al proprio padrone. Per tutta la durata della loro vita, era fatto loro divieto di parlare.
    Erano come dei servizievoli spettri.
    Il ragazzo avrebbe voluto tentare di parlare con loro, ma sapeva che avrebbe potuto metterli nei guai, infrangendo quel tabù.
    Così si limitò a continuare ad osservarli, arrischiandosi ad alzare un poco le palpebre: una di loro era una ragazza, mentre l'altro appena un bambino. Lei aveva i capelli lunghi, disordinati, e in quella luce soffusa era difficile dire se fossero rossi oppure castani; chinata sulla latrina, con quella folta chioma che le copriva la schiena, sembrava un animale selvatico.
    Il bambino, invece, se ne stava in disparte e la guardava lavorare, immobile, con le braccia abbandonate lungo i fianchi.
    Un paio di volte, al ragazzo parve che lui si fosse voltato nella sua direzione, e temette di essere stato scoperto; ma quello non disse mai nulla e continuò ad osservare la propria compagna.
    Alla fine, raccolsero il loro secchio e lasciarono la cella, silenziosi com'erano arrivati.
    Il prigioniero potè finalmente muoversi di nuovo, sdraiandosi sulla schiena e fissando lo sguardo verso il soffitto.
    Il regno Pathbahea era come un scatola di giocattoli rotti, ma lui non era in grado di aggiustarli tutti. Poteva curare una malattia o una ferita, ma non l'egoismo che risiedeva nell'animo umano. Beh, a dire il vero, non poteva fare proprio nulla, finchè se ne stava rinchiuso laggiù.
    Il piano di scoprire dove fosse nascosto il principe per poi fuggire non aveva dato risultati, quindi avrebbe fatto esattamente il contrario.
    Quando arrivò il cambio della guardia, una gaia risata risuonò lungo il corridoi, doveva essere Braldo.
    Il ragazzo si lasciò sfuggire un sorriso: gli piaceva Braldo, perchè aveva una faccia buffa, un grosso naso a patata e, soprattutto, perchè era sempre ubriaco.


    Una festa. Ci sarebbe stata un grande festa.
    Braldo era talmente sbronzo che non c'era stato nemmeno bisogno di chiederglielo, ne aveva parlato di propria iniziativa. Anzi, non era stato zitto per un minuto durante tutto il suo turno di guardia.
    Il pronipote del figlio del fratello dello zio dell'imperatrice di Seripaz, o qualcosa del genere, sarebbe presto giunto in visita a palazzo, e re Halmutaj aveva deciso di fare le cose in grande: era stato organizzato un banchetto degno degli dei, con cibi prelibati provenienti da ogni parte del regno. Danzatrici, attori, circhi itineranti, ogni sorta di divertimento; ma ciò che interessava al prigioniero era il fantomatico leone bruno di Narubia che il re aveva comprato appositamente per l'occasione.
    Seripaz, infatti, era famosa per i suoi svaghi piuttosto cruenti, primo tra tutti proprio la lotta con il leone. Era chiaro che Halmutaj voleva far sentire a casa il suo illustre ospite, offrendogli uno spettacolo tipico della sua terra natia.
    Il ragazzo decise che quel leone era l'occasione che stava aspettando.
    Era arrivato il momento di fuggire.
    Ciò stabilito, non c'era motivo di attardarsi o esitare: si avvicinò alle sbarre della cella e iniziò a fischiettare, dapprima sottovoce, poi sempre più forte. Non era una canzone in particolare, ma solo l'accozzaglia di note cacofoniche che gli venivano in mente.
    Sentì Taliban imprecare, alla fine del corridoio.
    Decise di osare ancore un po' ed iniziò ad agitare la catena che chiudeva la porta della cella, producendo un forte rumore metallico ogni volta che questa cozzava contro le sbarre.
    A quel punto il soldato, non avendo intenzione di sopportare oltre, si avvicinò con passo pesante, fino a pararsi di fronte al prigioniero.
    -Stai zitto, Sfregiato!- gli urlò in faccia -Per il Grande Padre, ti ho detto di stare zitto!-
    Un altro degli innumerevoli pregi di Taliban: era un uomo terribilmente prevedibile.
    Sferrò un calcio, diretto allo stomaco del ragazzo, ma quello si scostò quel tanto che bastava per non essere colpito e fu molto, molto veloce; afferrò il piede del suo carceriere e le tirò verso di sé, così che l'uomo venne trascinato in avanti e sbattè il volto contro le sbarre rimanendo, per un istante, parecchio stordito.
    Il giovane ne approfittò per derubarlo della sua scimitarra, estraendola svelto dal fodero che l'altro portava alla cintola; afferrò la guardia per il collo e gli premette la punta della spada sul basso ventre, lì dove finiva la cotta di maglia, ma senza affondarla nella carne.
    -Cosa stai facendo?- balbettò l'altro. La voce spaventata di un cucciolo era semplicemente ridicola mentre usciva dalla sua grande gola.
    -Scusa, Taliban, ma adesso devo proprio andare.- mormorò il prigioniero al suo orecchio -Aprimi la porta.-
    Quello esitò un momento, allora il ragazzo premette la lama con più convinzione -Adesso, Taliban.- insistette -Lo farei io stesso, ma al momento ho le mani occupate.-
    L'uomo, allora, raggiunse lentamente il mazzo di grosse chiavi che teneva appeso accanto al fodero della scimitarra; abbassò lo sguardo, per cercare la chiave giusta, e implallidì vedendo la propria spada, nella penombra, puntata contro di lui. Sentì il freddo del ferro tagliargli la pelle, ma forse fu solo una sensazione dettata dal panico.
    Le sue mani si muovevano lente ed impacciate, infatti impiegarono un po' ad aprire il vecchio lucchetto che chiudeva la cella.
    Il ragazzo provò un po' di pena per quell'uomo, che probabilmente aveva sempre servito a palazzo, senza mai vedere una vera battaglia; non aveva mai visto la sabbia mescolarsi al sangue, creando grandi striature sulle dune del deserto, facendolo somigliare al dorso di una tigre. Tuttavia, non era il momento di preoccuparsi di una simile sottigliezza.
    -Inflila la catena nella tua fusciacca.- ordinò stavolta il giovane -Poi falla passare tra le sbarre.-
    Questo non avrebbe fermato il soldato, ma lo avrebbe trattenuto abbastanza a lungo perchè lui potesse lasciare la segrete.
    -Adesso chiudi il lucchetto e getta la chiave a terra.-
    Taliban obbedì, ma ormai aveva capito che l'altro non aveva intenzione di fargli del male, e si era riavuto dallo stupore e della paura.
    -Stai giocando con il fuoco.- disse, mentre un audace sorriso piegava gli angoli della sua bocca -Sei ancora in tempo per rendermi la spada e tornartene mansuetamente nella tua cella.-
    Il ragazzo ricambiò il suo sorriso: se avesse avuto paura di cose comuni come il dolore e la morte, probabilmente avrebbe dato ascolto a quel gentile suggerimento.
    Prese un respiro profondo e, ancora una volta, valutò la situazione: nel momento in cui lui fosse uscito dalla cella, il soldato avrebbe impiegato una ventina di secondi a liberarsi, sciogliendo la propria cinta; in quel lasso di tempo, il giovane sarebbe dovuto uscire dalle segrete. Sapeva perfettamente da quale parte si trovasse l'uscita, ma non aveva idea di quello che avrebbe trovato una volta fuori. Il suo piano, pensato solo a grandi linee, era quello di nascondersi da qualche parte, mentre aspettava che lo spettacolo avesse avuto inizio. Doveva raggiungere il leone, ma doveva farlo davanti a un pubblico. Davanti al re, quantomeno.
    Aprì con un colpo secco la porta della cella, colpendo con forza la guardia; i cardini arrugginiti avevano scriocchiolato rumorosamente, amettendo un suono così acuto da sovrastare il grido strozzato dell'uomo.



    C'erano due guardie, appena fuori dall'ingresso delle prigioni.
    Il ragazzo le vide con la coda dell'occhio quando passò, correndo, proprio in mezzo a loro. Fece l'unica cosa che poteva fare in quel momento: iniziò a correre ancora più veloce.
    Dopo un istante di smarrito stupore, i soldati si lanciarono al suo inseguimento; in lontananza sentiva delle grida, insulti e minacce, la voce era quella di Taliban.
    La situazione stava precipitando troppo in fretta, ma non tutto era perduto: da quello che il giovane aveva potuto vedere, l'interno del palazzo somigliava ad un labirinto, infiniti corridoi che s'intrecciavano tra loro.
    Finalmente arrivò alla prima diramazione e, senza starci a pensare, svoltò a destra. La direzione che prendeva non era importante, poiché il suo unico scopo era quello di seminare le guardie.
    La confusione che regnava nel palazzo, sicuramente, gli fu di grande aiuto: i servitori invadevano i corridoi trasportando ogni sorta di oggetto, dai tappeti, ai candelabri, alle sedie. Presi com'erano dai preparativi per il grande ricevimento, non fecero caso al piccolo fuggiasco che si muoveva furtivo in mezzo a loro, né fecero caso alla scimitarra che portava con sè.
    Tuttavia, il ragazzo ancora non poteva rilassarsi. Doveva trovare un luogo sicuro per nascondersi ed escogitare la sua prossima mossa. Avrebbe anche dovuto scoprire dove si sarebbe tenuta la lotta con il leone, e riuscire a non lasciarsi catturare sino ad allora.
    Riuscì a raggiungere uno dei cortili interni, anzi, praticamente si ritrovò lì, come se la folla ce lo avesse trasportato.
    Era un giardino piccolo e tranquillo, al cui centro si ergeva una fontana; era interamente rivestita di mattonelle colorate e la sua vasca aveva la forma di una stella a otto cuspidi.
    Tutto attorno si avvolgevano le siepi, creando complicati disegni geometrici. Non erano molto alte, ma sarebbero state un buon nascondiglio. Il giovane vi strisciò in mezzo, assicurandosi di non essere visto. Per prima cosa, scostò una manciata di terra e lasciò scivolare lì la sua spada, in mezzo alle radici; poi chiuse gli occhi, cercando di calmarsi, mentre combatteva contro una forte emicrania.
    Il caos era la condizione migliore nella quale spostarsi e inoltre, da quando era fuggito, non era ancora stato dato l'allarme. Era probabile che i soldati non volessero scatenare il panico, non in un'occasione come quella. Stava andando tutto stranamente bene, in maniera quasi inquietante e assai surreale.
    Il ragazzo si alzò in piedi, scacciando quel brutto presentimento, mosse un passo tra le siepi, ma subito s'immobilizzò; sentì un brivido risalirgli la schiena, sino alla nuca: aveva la sensazione di essere osservato.
    Si voltò lentamente e lì, ai margini del cortile, vide un uomo che lo guardava. Era un uomo alto, dalla pelle scura come il mogano, lunghi capelli neri, legati in una treccia che gli arrivava fino quasi alle ginocchia. Stava chiaramente guardando lui, con le sopracciglia sollevate in un'espressione di genuino stupore.
    Dapprima, il ragazzo pensò di ignorarlo, ma dopo un istante trasalì, poiché si rese conto di chi avesse di fronte.
    L'uomo indossava un'armatura riccamente decorata, molto diversa da quella di un semplice soldato; portava anche un grande mantello, che gli copriva una spalla. Su quel mantello, nero come la notte, spiccava uno splendido ricamo dorato che rappresentava la crocespada, il simbolo del re.
    Il primo cavaliere: Kveri, la pantera di Pathbahea.
    Così era conosciuto l'uomo che il giovane aveva davanti a sé.
    Il fuggitivo, però, mentenne la calma: un'armatura tanto sfarzosa non era pensata per la battaglia, tantomeno per un semplice giro di ronda. No, quello era un abbigliamento da parata, il primo cavaliere si trovava a palazzo per prendere parte al banchetto.
    Era probabile che nessuno lo avesse avvertito della sua fuga. Era probabile che si fosse semplicemente stupito nel vedere qualcuno spuntare da in mezzo alle siepi. Era probabile che fosse questo, il motivo per cui continuava a guardarlo.
    Il ragazzo deglutì, riflettè un momento e stabilì che la cosa migliore da fare era allontanarsi in fretta, prima che lo stupore di Kveri si trasformasse in sospetto, prima che decidesse di rivolgergli la parola.
    -Sfregiato!- chiamò qualcuno in quel momento.
    Ah, c'era una sola persona che usava quel soprannome.
    Il ragazzo si voltò e vide Taliban all'altro capo del giardino. Era talmente furioso che la sua faccia si era tinta di rosso e le sue narici si dilatavano al ritmo del suo affannoso respiro. Pareva un toro davanti ad un grande stendardo scarlatto.
    Dall'altra parte, Kveri aveva portato la mano all'elsa della propria spada e si avvicinava lentamente, l'espressione stupita si era fatta dura e severa. Il giovane si guardò attorno, in cerca di un'altra via di fuga, ma altri soldati dei quali non conosceva i nomi avevano circondato il cortile.
    Con il senno di poi, il ragazzo avrebbe sicuramente elaborato un piano migliore; sospirò, mentre sollevava le braccia in segno di resa. Si augurò che Taliban si sarebbe accontentato di picchiarlo, per pareggiare i conti.
     
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    Ho appena finito di leggere il secondo capitolo e l'ho trovato molto coinvolgente, la fuga mi è sembrata molto ben descritta, anche se non penso proprio che andrà a buon fine!
    Il dettaglio del leone mi ha molto incuriosita, anche se per il momento ho le idee molto confuse in proposito. Quindi attendo assolutamente il seguito.

    CITAZIONE
    Si augurò che Taliban si sarebbe accontentato di picchiarlo, per pareggiare i conti.

    Metterei "si accontentasse", secondo me suonerebbe meglio.
     
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    Grazie mille! Sono felice che tu abbia trovato interessante il secondo capitolo! La questione del leone si capirà più avanti.
     
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    l ragazzo si sedette, appoggiando la schiena alle sbarre di ferro, e sospirò: con Hadal era inutile parlare, faceva semplicemente finta di non vederli, i prigionieri.

    Questa la farei: " Il ragazzo si sedette di schiena alle sbarre di ferro, sospirando: con Hadal era inutile parlare, fingeva di non vederli, i prigionieri.

    CITAZIONE
    Ah, gli piaceva Taliban.

    "Ah, quanto gli piaceva Taliban", così, secondo me, viene meglio.

    CITAZIONE
    Non andava bene. Doveva cercare di protrarre la conversazione.

    Mettici il soggetto: Il ragazzo doveva cercare... ecc..."

    CITAZIONE
    la sua prigionia si stava protraendo troppo a lungo

    Fai " la sua prigionia stava durando troppo", il verbo protrarre l'avevi usato già prima.

    CITAZIONE
    Ah, gli piaceva Taliban, ma quando era nervoso faceva subito ricorso alle mani.

    Visto che si è sfogato con un calcio, mettici "faceva subito ricorso alla violenza fisica"

    CITAZIONE
    La voce spaventata di un cucciolo era semplicemente ridicola mentre usciva dalla sua grande gola.

    Meglio: la voce rassomigliante al lamento di un cucciolo, ridicola mentre ecc..."

    CITAZIONE
    Riuscì a raggiungere uno dei cortili interni,

    Usa solo "Raggiunse" nella frase, la alleggerisci.

    La fuga mi è parsa ben costruita, anche se avrei aggiunto un po' più di difficoltà durante la parte dell'evasione dalla cella, poiché c'erano le sbarre, un grande ostacolo.

    L'incontro col primo cavaliere si prospetta una sorta di via di salvezza. Magari lo farà lottare contro il leone, il che, presumo, era nelle intenzioni iniziali del prigioniero. Magari vorrà dimostrare qualcosa davanti a tutti e sfrutterà l'animale a tal scopo.
     
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    Anche questa volta, ti ringrazio per i suggerimenti. Mi fa molto piacere che tu legga ciò che scrivo con tanta attenzione :D Comunque, complimenti: sei sulla stessa lunghezza d'onda del protagonista :clap:
     
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    CAPITOLO 3
    Taliban si calmò. Non prima di averlo preso a calci fino a spezzargli un paio di costole e rompergli un braccio, certo, ma alla fine si calmò. Si chinò ancora una volta sul ragazzo e gli sputò addosso, prima di lasciarlo lì da solo, nella stessa cella dalla quale era evaso.
    Lui rimase a lungo immobile, come se avesse perso i sensi, ma non era così: semplicemente, stava valutando i danni subiti.
    A causa delle costole frantumate, faceva fatica persino a respirare; il suo braccio sinistro era spezzato in almeno due punti, ma era riuscito a proteggere il braccio destro. Inoltre, questa volta gli era stata risparmiata la faccia.
    In fin dei conti, non andava poi così male.
    Per sua fortuna, Taliban non era particolarmente sveglio e non si era ancora accorto di nulla o, semplicemente, dopo aver sfogato la propria rabbia aveva deciso di non farci caso.
    Tuttavia, la situazione restava critica: chiunque ci fosse di guardia, il giovane non poteva sperare di riuscire ad evadere una seconda volta. Inoltre, quando era stato catturato, era già tardo pomeriggio. Non avrebbe saputo dire per quanto tempo Taliban si fosse divertito con lui, ma ormai doveva essere scesa la sera. La lontana eco dei festeggiamenti giungeva fin lì.
    Sebbene il ragazzo fosse abbastanza sicuro che la lotta con il leone si sarebbe tenuta finito il banchetto, al culmine della festa, non aveva comunque tempo da perdere. Già, così come non aveva modo di lasciare le segrete.
    Nonostante tutto, non voleva ancora arrendersi, non voleva lasciare nulla di intentato. Si tirò su, appoggiandosi al braccio sano, ma gli si offuscò la vista; attese un momento, sino a che le macchie di sangue, sul pavimento, non si fecero più nitide. Il dolore era forte, ma non gli avrebbe impedito di pensare.
    Tornò, con la mente, indietro nel tempo, e ripercorse tutto ciò che aveva visto e vissuto sin da quando era stato trascinato a palazzo. Cercava nei propri ricordi un modo per fuggire; non c'era alcuna garanzia che esistesse, ma lui si rifiutava ostinatamente di credere il contrario. Si stupì egli stesso della propria perseveranza.
    Tutto a un tratto, un ricordo piccolo e insignificante gli attraversò la mente: non era un'immagine, ma un suono. Anzi, sarebbe stato meglio definirlo un rumore. Uno scricchiolio. Lo scricchiolio che aveva udito aprendo la porta della cella, poche ore prima. Lo scricchiolio prodotto dai vecchi cardini, ormai coperti di ruggine.
    Il giovane dovette trattenersi, per non scoppiare a ridere; davvero non sapeva come avesse fatto a non accorgersene prima.
    Eppure, gli schiavi gli avevano fatto visita così tante volte!
    Assurdo che non si fosse mai domandato come facessero ad arrivare sempre così, nel più assoluto silenzio.


    Presto. Fate presto. Prima che i festeggiamenti finiscano, prima che il leone entri in scena. Era questo che pensava il ragazzo mentre se ne stava disteso, perfettamente immobile, fingendosi addormentato. Non c'era un solo muscolo, osso o legamento che non gli facesse male, e rimanere fermo era un supplizio. Tuttavia, in quel momento, non poteva fare altro: rimanere fermo e aspettare, tendendo l'orecchio ai suoni che lo circondavano.
    Dopo un paio d'ore di straziante attesa, quando cominciava ad essere veramente nervoso, finalmente udì un leggero rumore, simile al suono prodotto da una cote che affila una lama.
    Fu questione di un attimo e gli schiavi erano già entrati; anche se teneva gli occhi chiusi, sapeva che erano già dentro la cella. Li sentiva muoversi silenziosi attorno a lui.
    Proprio come aveva immaginato: gli schiavi non avevano bisogno di aprire la porta, per entrare. Conoscevano un'altro modo.
    Il ragazzo socchiuse gli occhi e distinse, nella penombra, due sagome che già gli erano note: si trattava della schiava dai lunghi capelli e del suo piccolo compagno.
    Avevano qualcosa di pittoresco, quei due. Come se fossero appena usciti da una vecchia fiaba.
    Il giovane continuò a fingere di dormire, mentre pensava al modo migliore per approcciare gli schiavi, senza correre il rischio di spaventarli. Avrebbe potuto iniziare con un sorriso, per metterli a loro agio. No, non era una grande idea: non si lavava la faccia da settimane e ormai era ridotta un macello, sporca com'era di lerciume e sangue rappreso. Inoltre il suo naso, o ciò che ne rimaneva, non avrebbe certo aiutato. Vedere un sorriso sopra un simile volto li avrebbe messi in fuga, anzichè a loro agio.
    Ah, per poco non si mise a ridere di se stesso: quelle con cui aveva a che fare erano pur sempre persone, non animali selvatici. Forse stava pensando troppo.
    Così, decise di alzarsi semplicemente in piedi.
    Gli altri due si voltarono subito a guardarlo, sorpresi, e per la prima volta potè osservarli davvero, ad occhi aperti.
    Notò, per prima cosa, il viso della ragazza, poiché esso pareva una splandida accozaglia di elementi: le labbra delicate dei pathbaehani, il naso dritto e sottile di chi arriva da Seripaz, gli zigomi alti della gente del nord. Era impossibile dire da dove provenisse, o come facessero tutti quegli elementi a creare una così piacevole armonia. Quella faccia gli piacque subito.
    Essere osservati così attentemente dovette intimorirli, perchè gli schiavi si fecero tra loro più vicini, come dei cuccioli, suscitando nel prigioniero una sorta di caritatevole affetto.
    -Va tutto bene.- disse lui, sottovoce.
    Gli altri due rimasero immobili, mentre lo osservavano con curiosità e sospetto, stupiti da quella strana creatura che rivolgeva loro la parola. Perchè era proprio così, che doveva apparirgli, con il suo corpo pallido e malridotto, con i capelli neri che ricadevano sul viso come se volessero divorarlo. Proprio una strana creatura.
    -Va tutto bene.- ripetè lui, nella lingua di Seripaz, muovendo un cauto passo verso di loro; aveva istintivamente alzato le mani, come per mostrare agli schiavi che non era armato, che non costituiva una minaccia.
    A quel punto la fanciulla si guardò attorno, come per accertarsi che i tre fossero soli; poi portò una mano alla schiena del bambino ed iniziò a tracciarvi sopra delle linee immaginarie. Dei disegni, magari.
    -Mia sorella dice che non dovresti parlare con noi.- disse allora il piccolo, con la voce che gli tremava un poco -A te non porterà alcun beneficio e a noi, invece, tanti problemi.-
    Non si trattava di disegni, concluse il ragazzo, ma di parole.
    -Non vogli mettervi nei guai- rispose, fissando gli occhi neri in quelli della schiava -ma mi serve il vostro aiuto.-
    Era una richiesta egoista, se ne rendeva conto, e mai avrebbe coinvolto gli schiavi se avesse avuto una qualsiasi alternativa.
    -Devo assolutamente lasciare questa cella.- continuò, avvicinandosi di un altro passo -E devo farlo al più presto.-
    Gli altri due sembravano basiti di fronte ad una richiesta tanto sfrontata, così rimasero zitti per un lungo istante, prima di scambiarsi uno sguardo preoccupato.
    La mano della ragazza si mosse di nuovo sulla schiena del bimbo, e ancora una volta fu lui a parlare -Mia sorella vuole sapere cosa otterremmo, aiutandoti.-
    -Non sai parlare, vero?- domandò allora il prigioniero, rivolto alla schiava -Forse posso fare qualcosa per aiutarti.- mentre parlava, si era avvicinato di un passo ancora. Ormai si trovava faccia a faccia con la sua silenziosa interlocutrice.
    Lei allontanò il bambino, con un gesto protettivo, poi avvicinò il viso a quello del ragazzo, quasi intendesse baciarlo; invece spalancò la bocca e gli indicò di guardarvi dentro.
    Lui aggrottò la fronte.
    La schiava gli prese delicatamente una mano e vi tracciò sopra delle lettere.
    “Non credo che tu possa farmi ricrescere la lingua.”
    -Non posso.- confermò lui, scuotendo piano il capo. Aveva parlato a sproposito ed ora si sentiva avvilito, sciocco.
    Riflettè un momento, ma sapeva bene che, al di fuori dei propri poteri, non c'era nient'altro che potesse offrire. In realtà, forse c'era qualcosa, l'unica cosa che potessero desiderare due schiavi, ma quella non era sicuro di potergliela dare.
    -Non posso promettervi la libertà.- disse alla ragazza, sfidando il suo sguardo freddo e severo -Però, se mi aiuterete, prometto di fare tutto ciò che potrò, pur di liberarvi.-
    Doveva sembrare davvero stupido, mentre parlava di libertà da dentro una cella, ma quei due non risero di lui; si scambiarono uno sguardo fugace, un semplice cenno del capo. Avevano già deciso cosa fare. Il bambino si avvicinò alle sbarre e controllò che oltre non ci fosse nessuno ad osservarli.
    -La via è libera, sorella.- mormorò.
    La fanciulla, allora, prese il prigioniero per un polso e lo portò con sé nell'angolo più buio della cella, dove il chiarore delle torce non riusciva ad arrivare.
    Al giovane venne quasi da ridere quando notò, tra le pietre del muro, una fenditura sottile, tanto che un uomo adulto difficilmente sarebbe riuscito a passarci attraverso. Loro tre, invece, riuscirono ad infilarcisi senza problemi; quando furono tutti dentro, la schiava fece scivolare un spessa lastra di pietra davanti all'ingresso, chiudendolo. La roccia si mosse agevolmente, lungo un binario di ferro, e tornò al proprio posto senza quasi fare rumore.


    I cunicoli erano stretti, opprimenti, e sembravano diramarsi per tutto il palazzo. Per diversi tratti, il ragazzo era stato costretto a strisciare in mezzo alle pareti, tanto quelle erano vicine tra loro; era davvero difficile muoversi in quelle condizioni, soprattutto considerando com'era ridotto il suo braccio e quanto dolore gli procurava ogni volta che lui, ostacolato dall'oscurità, urtava per errore una parete. I due schiavi, invece, si muovevano più agilmente. Il bambino, soprattutto, trotterellava in testa al trio, avanzando spensierato nelle tenebre, come un folletto notturno; con la sua pelle scura, riusciva perfino a confondersi nel buio. Le uniche fonti luminose erano le tenui luci che filtravano da dietro gli arazzi, disposti lungo i cunicoli come migliaia di porte che davano sui corridoi del palazzo. Un modo davvero ingegnoso, pensò il giovane, per spostarsi nel castello senza mai essere visti. Ogni cosa, infatti, era studiata con cura e dimostrava le grandi abilità degli architetti che vi avevano lavorato. Se avesse immaginato l'esistenza di una simile rete di passaggi segreti, il ragazzo non avrebbe tentato di evadere in modo tanto goffo, quello stesso pomeriggio.
    Si domandò cosa trattenesse gli schiavi in quel posto, perchè non fuggissero, dal momento che potevano scomparire a loro piacimento. Mentre osservava gli altri due avanzare nei cunicoli, come topi, trovò da solo la risposta. Gli schiavi non possedevano nulla, nemmeno un luogo in cui fuggire; quella sensazione gli era familiare e nutrì la simpatia che già provava per quelle persone.
    Ad un certo punto, il bambino si fermò davanti alla sagoma luminosa di un arazzo; lo scostò un poco per guardarvi oltre e fece un cenno all'altra schiava. Lei si voltò verso il ragazzo e gli posò un dito sul petto, appena al di sotto dell'incontro tra le clavicole.
    “Adesso puoi uscire.”
    Lui si avvicinò e scostò il drappo quel tanto che bastava per scivolare silenziosamente nel corridoio; le luci delle torce, per un momento, lo abbagliarono.
    La piccola mano del bimbo, svelta come un serpente, spuntò da dietro l'arazzo e afferrò il giovane per un polso; lui trattenne un gemito e sentì i capelli drizzarsi sulla testa, poiché gli era stato afferrato proprio il polso sinistro.
    -Mia sorella vuole sapere se il posto è giusto.- mormorò il bambino -Se è questo il cortile di cui ci hai parlato.-
    -Sì, è proprio questo.- confermò il ragazzo riconoscendo, nella penombra del giardino, la fontana che aveva visto ore prima.
    Cercò di scostarsi dalla parete, ma la mano del bambino lo trattenne di nuovo.
    -Hai detto di aver nascosto qualcosa tra le siepi.- disse ancora quello -Mia sorella vorrebbe sapere di cosa si tratta.-
    -Tua sorella fa tante domande.- sospirò il giovane; non era sicuro di voler rispondere a quel quesito, ma sentiva di non avere il diritto di mentire a chi lo stava aiutando.
    -Una scimitarra.- rispose.
    La mano che lo tratteneva lasciò la presa e tornò a nascondersi oltre il drappo colorato, che raffigurava un'oasi rigogliosa, ricca di fiori e corsi d'acqua; ci fu un lungo momento di silenzio, ma gli schiavi erano ancora lì. Il ragazzo riusciva a sentire i loro respiri.
    -Sei un sicario?- domandò infine il bambino.
    Il piccolo parlava sempre a bassa voce, ma quelle parole le pronunciò tanto piano che non potevano nemmeno essere definite un sussurro.
    Il giovane si guardò attorno, si voltò verso l'arazzo e ne scostò un lembo, lasciando che la luce delle torce illuminasse i volti dei due schiavi, che si ritrassero, come per cercare rifugio nelle tenebre; lui scambiò uno sguardo con la ragazza, poi si chinò, fino a guardare in faccia il bambino.
    -Guarda il mio viso.- gli disse con calma -Ti sembra il viso di un assassino?-
    Il bimbo rimuginò un attimo -Non lo so.- rispose, corrugando la fronte -Non ne ho ma visto uno.-
    Il ragazzo gli sorrise -Io, invece, ne ho visto qualcuno.- gli raccontò -Avevano tutti una faccia spaventosa, come quelle dei ghoul. La mia faccia ti fa paura?-
    L'altro inclinò il capo, mentre osservava gli occhi piccoli e neri del suo interlocutore, le sue occhiaie scure, il suo naso nalla forma strana, la matassa informe che erano i suoi capelli.
    -No.- rispose -Hai una faccia buffa.-
    -Grazie.- gli disse l'altro, mentre si rimetteva diritto -Credo sia il più bel complimento che mi abbiano mai fatto.-
    Sollevò a fatica la mano sinistra, per salutare i due, mentre risistemava il drappo davanti all'angusto passaggio. Prima che potesse allontanarsi, però, il viso del bimbo spuntò all'improvviso da dietro l'arazzo.
    -Io mi chiamo Eo- gli disse -e mia soralle si chiama Falangar. Tu, invece, come ti chiami?-
    Il ragazzo lo guardò stupito, per un lungo istante. Da quando era arrivato a palazzo, nessuno si era mai preoccupato di chiedere il suo nome, così lui aveva finito col dimenticare che era consuetudine presentarsi, quando si incontrava qualcuno per la prima volta.
    -Il mio nome è Ashya.- rispose, sorridendo, con un mezzo inchino.
    Eo lo osservò ancora un momento poi, timidamente, ricambiò il sorriso -Come il messia?- domandò.
    -Sì.- disse l'altro, un po' sorpreso che uno schiavo conoscesse I Racconti del Grande Padre -Proprio come il messia.-
    Il bambino sentì la mano di Falangar tracciare nuove lettere sulla sua schiena -Mia sorella dice che lo spettacolo del leone si terrà nella piazza d'armi, che si trova nella parte più occidentale del palazzo.- riferì -Mia sorella dice anche “Buona fortuna.”-
    Il volto di Eo, nel giro di un secondo, scomparve di nuovo dietro l'arazzo. Ashya ricordò di avere già pensato che somigliasse ad un folletto, e ridacchiò sottovoce, tutto solo, lì nel cortile.


    Rimasto solo, Ashya avanzò tra le spiepi, raggiunse il punto esatto in cui ricordava di aver nascosto la scimitarra di Taliban e, sotto radici e terriccio, la trovò ancora lì.
    Si rialzò in piedi e sollevò alta la spada; su di essa la calda luce delle torce e il bagliore freddo della luna s'intrecciarono, regalando alla lama un aspetto meraviglioso, quasi magico.
    Infastidito, il ragazzo distolse lo sguardo dalla scimitarra e lo lasciò vagare tutt'attorno, nel piccolo cortile. Era deserto e silenzioso, eccezion fatta per la musica e le voci che giungevano da un'altra ala del palazzo, dove la festa impazzava.
    Eppure, lì regnava una calma quasi irreale, che il giovane decise di assaporare per un momento, prima di dirigersi verso la piazza d'armi. L'aria fredda della sera gli feriva la pelle, ma era quasi piacevole sentirla accarezzare le sue tante lesioni.
    Attraversando i cunicoli, si era reso conto di quanto gravi fossero le sue ferite: il braccio sinistro era semplicemente inutilizzabile, le gambe lo reggevano a fatica. Un movimento sbagliato e le costole rotte gli avrebbero trafitto un polmone.
    In quelle condizioni, effettivamente, non era convinto di poter avere la meglio su un leone.
    Guardò di nuovo i corridoi deserti, la spada che aveva in mano e l'idea di fuggire, di abbandonare semplicemente il palazzo, sfiorò la sua mente. Socchiuse gli occhi e immaginò di scendere in città, di rubare un cavallo e lanciarsi al galoppo attraverso il deserto, guidato dalle stelle; sarebbe arrivato alla sua tenda diverse ore dopo, sfinito, avrebbe steso un tappeto e ci si sarebbe lasciato cadere. Un sonno profondo, piacevole e privo di sogni, lo avrebbe avvolto inesorabilmente, e lui non avrebbe avuto bisogno di lottare per rimanere sveglio.
    Fu, però, soltanto un momento di debolezza.
    Riaprì gli occhi e strinse le dita attorno all'elsa della scimitarra: aveva fatto una promessa ai due schiavi e l'avrebbe mantenuta. Inoltre, era stato portato lì per guarire la misteriosa malattia del principe leggendario; andarsene senza nemmeno averci provato, gli avrebbe lasciato l'amaro in bocca.
    Prese un respiro profondo, come se stesse per immergersi nell'acqua, e s'incamminò verso la piazza d'armi. Non conosceva la strada, ma gli sarebbe bastato seguire la musica e gli schiamazzi dei cortigiani in festa.
     
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    A quanto pare il protagonista vuole combattere contro il leone e, seppure con qualche osso rotto, intende farlo ugualmente e, seppure non sia certo che possa andare a buon fine, non è certo nemmeno del contrario altrimenti si guarderebbe bene dal portare a termine quell'intento. :D

    Ho trovato molto interessante la sua nuova fuga, decisamente più riflessiva e sensata di quella precedente, e immagino che questa volta abbia molte più probabilità di successo.
     
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    ...oh, è questo che stiamo facendo?

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    Grazie per aver letto il capitolo! Come hai giustamente supposto, Ashya crede di avere una possibilità contro il leone, nonostante le pessime condizioni fisiche. La sua sicurezza non è campata per aria, ma si basa sulle sue passate esperienze, che verranno sicuramente rivelate... prima o poi. ^_^
     
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    il suo braccio sinistro era spezzato in almeno due punti, ma era riuscito a proteggere il braccio destro.

    Falla così: "Il braccio sinistro era spezzato in due punti, come minimo; ma il destro era in salvo, era riuscito a proteggerlo."

    CITAZIONE
    La lontana eco dei festeggiamenti giungeva fin lì

    Inizia con "L'eco". Quelle due parole all'inizio sono inutili.

    CITAZIONE
    -Non vogli mettervi nei guai-

    *Voglio.

    CITAZIONE
    -Io mi chiamo Eo- gli disse -e mia soralle

    *Sorella.

    CITAZIONE
    Rimasto solo, Ashya avanzò tra le spiepi,

    *Siepi.


    La seconda evasioneiè piaciuta, come anche i due schiavi. Ma, è solo una mia opinione, credo abbiano accettato troppo in fretta di aiutarlo. Essendo schiavi, avrebbero dovuto avere maggior timore per quello che stavano facendo.
     
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