MAGUS

by The Aster

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    Buongiorno a tutti. So che è da molto che manco dal forum e me ne scuso. Adesso, approfitto di ogni momento libero per cercare di recuperare il tempo perso e rimettermi in pari con tutto.

    Quella che andrò a postare da oggi in poi sarà una nuova storia, che spero vi potrà piacere.

    Come sempre, ogni aiuto o suggerimento è sempre gradito, anche critiche negative.

    Darà retta ad ognuno di voi.

    Adesso, si comincia.


    MAGUS


    CAPITOLO 1


    MONTE CONO



    Monte Cono non può essere definito un posto come tutti gli altri.

    Ad essere onesti, dubito rientri nella categoria dei “Luoghi migliore in cui vivere”.

    Però, tutto sommato, a me non dispiace.

    Com’è Monte Conto?

    Be’, provate ad immaginare una montagna altissima, tipo quelle dei cartoni animati, in parte coperte da nuvole bianche, come zucchero filato. Adesso, fate in modo che nella vostra testa esploda un grosso petardo e si porti via la cima della montagna.

    BUM!

    È stato un bel botto, non è vero? E avete visto la grande buca che si è lasciato dietro?

    Bene, adesso fate scoppiare altri due petardi immaginari.

    Il primo, vediamo…

    Uhm…

    Lungo la parete destra della montagna, direi.

    Il secondo, invece…

    Sulla parte sinistra, più o meno alla base.

    BUM!

    BUM!

    Perfetto, ora abbiamo una montagna con tre buchi.

    Capito il perché questo posto si chiami Monte Cono?





    Come sarebbe, no???

    Oh, andiamo, ma se sembra proprio che ci sia passato sopra un enorme cucchiaio da gelato e abbia scavato quei solchi.

    Okay, ammetto che, da un certo punto di vista, avrebbe avuto più senso chiamarlo Monte Emmental. Però sarebbe stato da stupidi, almeno secondo me. Monte Cono si trova nel nord Italia, non in Svizzera. Quindi è…





    Oh, cipicchia, è imbarazzante!

    Lo confesso. Ora come ora, trovo anch’io questa cosa alquanto strana.

    Chissà se Celeste ne sa qualcosa…

    Be’, prometto di discuterne col Sindaco Leo alla prima occasione. Dopotutto, è stato il suo bis-bis-nonno ad aver battezzato così la montagna. Dovrà pur saperne qualcosa, no?

    Ma torniamo all’inizio.

    Monte Cono non può essere definito un posto come tutti gli altri.

    In effetti, se mi trovassi in fin di vita, e per salvarmi dovessi per forza attribuire un aggettivo a questo posto, io credo, dopo averci riflettuto per tanto, tanto, tanto tempo - ossia un centesimo di secondo - che userei esattamente questa parola: unico.

    Il perché?

    È presto detto.

    C’è un lago a Monte Cono, l’avreste mai pensato?

    No?

    Be’, invece c’è. Si chiama Lacrima d’Angelo, e si trova - indovinate un po’ - sulla cima della montagna.

    Esatto, proprio dove avete fatto esplodere il primo petardo.

    Ma raggiungerlo è davvero un’impresa. Bisogna, innanzitutto, salire a Città Vecchia e mettere in moto la funivia. Da lì, poi, se si è riusciti a non svenire per via dell’altezza, si è costretti a salire ancora, percorrendo una lunga e spossante scalinata rocciosa. Ma dopo essersi fatti i quattrocentoquarantasei gradini di cui è composta, si è infine arrivati alla pianura dove ha casa il lago, circondata da tre colossali alberi dai tronchi tozzi.

    Cipicchia, mi sono stancato solo a spiegarlo, però non esiste altra maniera per visitare Lacrima d’Angelo. Solo con la funivia e le proprie gambe. Probabilmente, perfino gli elicotteri e i razzi della NASA faticherebbero a spingersi fin lassù, a causa dei forti venti.

    Lassù, inoltre, c’è una pioggia perenne.

    Anno dopo anno, mese dopo mese, giorno dopo giorno.

    Insomma, piove sempre.

    Eppure, stando a quanto mi hanno raccontato i nonni, una sera che tutti e tre eravamo intenti a scaldarci attorno al camino, accade che solamente per un’ora a settimana, il sabato notte, puntuale come le tasse, l’acqua smetta di scendere.

    Fatto curioso, non trovate?

    Celeste muore dalla voglia di andarci, su Lacrima d’Angelo intendo.

    Io, francamente, no.

    Tra l’altro, è anche proibito farlo.

    Non so il perché.

    Da che mi ricordo, è sempre stato così.

    Prima ho nominato Città Vecchia.

    Non fraintendete, non è una vera città. Anche perché la più vicina – si fa per dire - è a circa sei ore di macchina da Monte Cono.

    No. Più che altro, Città Vecchia è quello che rimane del primo tentativo d’insediamento fatto negli anni ’40, progetto abbandonato a causa dello scoppio della seconda guerra mondiale.

    Ad oggi, là ci sono soltanto ruderi di vecchie case popolari abbandonate; palazzi dalla costruzione inconclusa o mai cominciata; fabbriche industriali derubate della rispettiva attrezzatura.

    Ma non per colpa di Ciccio il Ladruncolo.

    Però, detto fra noi, non ci metterei la mano sul fuoco. Per lui ogni occasione è ghiotta.

    Be’, ad essere precisi, ci sarebbe un posto tuttora frequentato a Città Vecchia, ed ha a che fare col solo motivo che spinge gli abitanti di Passo della Cavalletta a farsi i cinque tornanti in salita con la navetta elettrica messa a disposizione dal comune.

    Il Cimitero.

    Non so voi, ma a me i cimiteri fanno venire tanta paura. E quello di Monte Cono, a mia opinione, è davvero spaventoso: quasi 730 ettari di terreno, in cui crescono esclusivamente lapidi ingrigite dal tempo; alcune delle quali, le più vecchie, vestite di muschio selvatico, e coi nomi lasciati dimenticare.

    Non parliamo poi delle statue.

    Mi vergogno a confessarlo, ma la prima volta che le ho viste, a sei anni, me la sono fatta addosso, ed eravamo pure a un funerale.

    Che figura…

    Celeste continua a prendermi in giro per quello.

    Al tempo lei ancora non c’era, tra l’altro.

    Mannaia a me che gliel’ho raccontato!

    Come possono degli angeli di marmo emanare tanta inquietudine, mi chiedo? E come può lo stagionato Sputa S. Willy viverci accanto, giorno e notte, come se per lui il cimitero fosse un normale luogo di villeggiatura?

    Forse centra il fatto che è un ubriacone.

    Forse centra il fatto che gli manca più di una rotella.

    Forse è per questo che il Sindaco Leo, anima pia e gentile, l’ha nominato custode ufficiale ed onorario – chissà poi cosa vorrà dire - del cimitero e messo a sorveglianza del pozzo lì presente, il quale, in passato, è stato protagonista di un’orribile disgrazia – la piccola Rosa Colombo ci è caduta dentro e non ne è più uscita -, e per tale motivo sigillato con delle assi di legno.

    Arrivati a questo punto, vi starete domandando cosa sia Passo della Cavalletta.

    Nel caso non ve lo stiate chiedendo affatto resterete delusi, perché stasera sono in vena di chiacchiere: è il secondo tentativo d’insediamento di Monte Cono, messo in atto nel dopoguerra e pienamente riuscito.

    Sul serio, le persone che c’hanno lavorato sono state davvero in gamba e scrupolose.

    Agricoltori, operai, muratori, geometri, architetti, ingegneri…

    Proprio un mucchio di gente!

    Una volta, Celeste se ne è uscita dicendo che Passo della Cavalletta esiste solo grazie a un miscuglio di muscoli e cervelli, che hanno lavorato sodo e con perizia allo scopo di dare una gran bella casa in cui vivere a una popolazione che conta la bellezza di 568 anime.

    Riflettendoci adesso, sospetto che quella di Celeste sia stata più un’affermazione sarcastica, piuttosto che un complimento rivolto ai progettisti…

    Tipico.

    Scontato.

    Ma torniamo a noi.

    Finora ho citato un lago, un cimitero, un complesso di edifici abbandonato, e una comunità - Passo della Cavalletta - dove vivo io.

    Non sono mai stato in una vera città – ma spero davvero un giorno di andarci -, però basandomi sulle riviste che leggo, i film che guardo alla tele, e quello che mi racconta Celeste, mi sono fatto una vaga idea di com’è.

    Ovvero, l’esatto contrario di Passo della Cavalletta.

    A Passo della Cavalletta abbiamo un solo palazzo che può essere definito… palazzo: il Municipio, orgoglio della comunità e fiore all’occhiello del Sindaco Leo.

    Poi c’è il piccolo Ambulatorio, dove lavorano e stanno di casa il Dottor Matto e sua cugina, l’Infermiera Salasso.

    Non lasciatevi ingannare dai cognomi. In realtà, questi due sono tipi molto in gamba. Finora io non mi sono mai dovuto far curare da loro; ma so che, in caso, sarei in buone mani.

    Abbiamo anche una caserma dei Carabinieri - e già, son pure qui -. Ci lavorano due brigadieri, di cui non riesco mai a ricordarmi il nome, quasi in età da pensione, e un maresciallo sulla trentina.

    Quest’ultimo, ogni volta che m’incrocia per strada, mi guarda storto.

    E dire che non do l’impressione di essere un porta guai.

    Se poi a qualche turista eccentrico venisse voglia di visitare Monte Cono, potrà contare sulla sola locanda/pensione/bar/caffetteria/pasticceria/paninoteca/pizzeria di Passo della Cavalletta.

    Per facilità, tutti noi la chiamiamo semplicemente Locanda. È un posto molto famoso – tra di noi, ovviamente -, comodo e accogliente, e non centra niente che la gestiscono i miei nonni e io do loro una mano, quando posso, per guadagnarmi delle mance.

    O forse sì?

    Ovviamente abbiamo anche una prigione… Scusate, una Scuola. È un istituto che fa da asilo, da elementari, da medie, e vale anche per i primi tre anni delle superiori. È frequentato, comprensivamente, da 16 ragazzi, gli unici presenti in tutta la comunità.

    Me compreso.

    C’è un geniaccio di professore – il Prof, lo chiamiamo affettuosamente - che ci insegna tutto. Sul serio, ogni materia è di sua competenza. È un gran cervellone, ed è molto paziente con noi. Mi stupisco che sia finito qui, quando potrebbe benissimo stare ad insegnare in qualche università straniera.

    Parliamo del supermercato?

    Impossibile.

    Non c’è.

    La roba mangereccia, come pure tutti gli altri beni di prima necessità, ci vengono regolarmente portati, a giorni alterni, da un camion della ditta “Vandozza&Co., Alimentari e Non Solo dal 1983”. Basta fare un elenco di ciò che serve, e la merce viene consegnata la volta successiva.

    È comodo… tranne quando mi brontola lo stomaco e ho voglia di patatine, perché non me le posso andare a comprare da nessuna parte…

    Potrei dilungarmi ore e ore - probabilmente pure giorni -, a parlare di Passo della Cavalletta e di Monte Cono, delle loro peculiarità e dei loro misteri; ma non voglio essere petulante, né spoilerare altro. Anche perché domattina ho scuola e preferisco andare a mettermi sotto le coperte.

    Buonanotte.
     
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    Capitolo 2

    Celeste.



    «Pensavo alle prostitute».

    Ecco, già da qui potreste iniziare a farvi un’idea sulla mia amica Celeste. Consideratelo come una specie di suo – strambo - biglietto da visita.

    Ma, in fondo, è colpa mia. Entrato in classe, l’ho vista talmente concentrata sullo schermo spento del suo iPad, che la curiosità ha preso il sopravvento e mi ha spinto a domandarle il perché.

    «E da quando in qua chi fa il mestiere più antico del mondo occupa i tuoi pensieri?»

    «Guarda che la prostituzione non è mica il mestiere più antico del mondo».

    «A no?»

    «No. È l’assassinio».

    «Ti riferisci alla storia di Caino e Abele? Don Paolo ce ne ha parlato al catechismo».

    «No, idiota riccioluto» sarei io. «Parlavo degli animali preistorici. Uccidevano per nutrirsi, difendersi, e a volte anche solo per il gusto di farlo. Usalo ogni tanto quel tuo cervello di gallina, o finirà per ammuffire».

    «Inizi di buon’ora con le offese, vedo».

    «Al contrario. Ho ammesso che tu hai un cervello». Celeste sposta lo sguardo dall’iPad a me e si mette una mano sul cuore. Poi, con gli occhi, fa un’espressione di accondiscendenza. «Non c’è di che».

    Ah… tante grazie.

    «Comunque, non hai risposto alla mia domanda. Dì, hai forse cambiato sponda?»

    «Noi ragazze siamo 100.000 Google di volte meglio di voi piscia sotto, sappilo».

    Che vi dicevo? Rieccoci con la storia di quando me la sono fatta addosso al cimitero. Celeste non è contenta a meno che non la si menzioni almeno una volta a settimana.

    Inoltre, sbaglio o ha appena usato una cifra esageratamente grande?

    Maledetta!

    Sa benissimo che non sono in grado nemmeno di immaginarla.

    Sono scarso in matematica…

    «Sarebbe un sì, allora?» chiedo.

    «Mettiamola in questo modo: il giorno in cui accadrà, sarà lo stesso in cui mi classificherò prima alla maratona di New York».

    «Cos’è una maratona?»

    «Un modo snob di chiamare una lunga e puzzolente corsa».

    Si mette a ridere a crepapelle. Io le faccio da pappagallo. Visti da fuori, dovremmo sembrare due stupidi. Ma, fortunatamente, nessuno può giudicarci. Non sono nemmeno le sette e mezzo, e in aula ci siamo soltanto noi.

    «Per rispondere alla tua domanda» continua Celeste, «riflettevo sull’impatto che suscitano le prostitute nella società di oggi. Anzi, a dirla tutta, è da parecchio che sto lavorando a questa tesi».

    «Che tipo di impatto?»

    «Benefico. Un maschio arrapato, di norma, spreca un mucchio di tempo nel rimorchiare. Senza parlare dei soldi scuciti tra uscite, regali, e per farsi belli agli occhi della bambolotta di turno. Grazie alla prostituta, invece, bastano un tot di euro sull’unghia ed ogni sfizio è levato».

    «E che mi dici di quelle che ci stanno sin da subito?»

    Celeste fa una piccola smorfia.

    «Che sono delle puttane!»

    «Scusa, ma non ti seguo. Non sono la stessa cosa?»

    «Per niente. Le prime sono un bene, le seconde un male. La merda del mondo!»

    «Capisco…»

    O, almeno, fingo di farlo.

    Preferisco troncare discorsi del genere con lei, finché ne ho la possibilità.

    Meglio non sentiate cosa la mia amica sia capace di dire, quando supera i limiti della decenza.

    Ah, per la cronaca, sia io sia Celeste abbiamo la stessa età, tredici anni.

    Non so…

    Mi sentivo in dovere di dirlo.

    «Passando ad altro, avrei qualcosina da proporti per la LS».

    Celeste solleva leggermente il fine sopracciglio sinistro.

    Mi sembra davvero sorpresa.

    Troppo sorpresa.

    «Oh, ma quale raro evento. Scommetto che se getto un’occhiata fuori dalla finestra, ci vedo degli asini volanti che soccorrono un maiale a cui si sono slogate le ali».

    Che spiritosona.

    «La cosa ti stupisce così tanto?»

    Annuisce.

    «Sì, visto che, di solito, spetta a me il sacro compito di trovare - e aggiungere - ulteriori numeri al mio capolavoro».

    «E perciò la mia proposta ti infastidisce».

    «Parecchio».

    Metto il broncio.

    «Allora non ti dico nulla. Tanto, son sicuro che non mi crederesti».

    «Tu mettimi alla prova, chissà che non accada il miracolo. In fondo, sono una persona di larghe vedute, io. Come ho accettato l’esistenza di un luogo nel mondo in cui i cellulari non hanno campo, posso anche accettare una seconda singolarità. Sebbene quest’ultima potrebbe danneggiare, se non scomporre del tutto, la tessitura del continuum tempo-spazio, distruggendo l’intero universo».

    Lancio uno sbuffo d’aria e abbozzo un sorriso.

    Ebbene sì, Celeste ha appena citato Ritorno al Futuro. Lei va matta per i film di fantascienza e del sovrannaturale.

    Io no.

    Sono più per i thriller e quelli d’avventura.

    «Ora ti metti a parlare come Pippo?» uno dei nostri compagni di classe, tipo eccentrico ma spassoso. «Non è da te».

    «Non me ne frega un cazzo se lo è o no! Faccio e dico quello che mi pare e piace. Dovresti averlo imparato, ormai. E poi Filippo è, probabilmente, l’unico alunno interessante di questa classe. Oltre a me, ovviamente».

    «Ed io?»

    «Tu sei soltanto un idiota riccioluto».

    C’è talmente tanta gentilezza nelle sue parole, che quasi quasi mi commuovo.

    Il mio era un commento sarcastico, per chi non lo avesse capito.

    «Perciò, coraggio» continua Celeste, fissandomi a braccia conserte, «dì ciò che hai da dire. Ascolterò con attenzione ogni tua singola parola, senza interromperti, ed esprimerò un giudizio soltanto quando avrai finito».

    «Perché ho come la netta sensazione che tu mi stia concedendo un grosso favore?»

    «Forse perché è così?»

    Sospiro.

    A volte mi dimentico che con Celeste è impossibile averla vinta. Lei è più intelligente di me. È la più intelligente della classe, in verità. Seconda a lei, c’è soltanto Martina, un’altra nostra compagna, dal carattere gentile e pacato.

    Tutto il contrario di Celeste.

    Eppure, nonostante il suo cervello sia fuori dal comune, Celeste stava per commettere una sciocchezza bella grossa, nel giorno in cui l’ho conosciuta.

    Quello fu anche il giorno in cui la vidi piangere per la prima - e probabilmente unica - volta.

    Quello fu anche il giorno in cui decisi di assumere il ruolo di sua ombra.

    A ripensarci, credo che quello sia stato pure il giorno in cui Celeste ha cominciato a darmi dell’idiota riccioluto.

    «È accaduto ieri sera» inizio a raccontare. «Mi pare fossero le otto e qualcosa, un quarto/venti. Vagabondavo per il Viale del Mercato, senza una meta precisa, tanto per ammazzare il tempo prima di cena. Quando, a un tratto, mi è venuta una voglia incontenibile di farmi un giro sull’altalena».

    “Ti pareva che le sue non fossero che delle stron****!”

    Così è come traduco la fronte corrugata e le occhiate di fuoco che mi sta lanciando Celeste.

    «Sul serio, non è che ero uscito di casa proprio per andare alle giostre. A dirla tutta, in quel momento la mia fantasia era rivolta unicamente alla cena della nonna. Poi… Puff, quell’idea è spuntata all’improvviso, come se fosse stata buttata lì, nella mia testa, a forza. E non so come ho fatto, Celeste, ma ti giuro che di punto in bianco, mi son ritrovato al parco ».

    Faccio una breve pausa, in modo da interpretare gli effetti delle mie parole su Celeste.

    Leggo taaanta impazienza sul suo volto.

    «Dov’ero rimasto? Ah, sì, al mio arrivo al parco. Considera che, una volta lì, mi tormentavo sul perché avessi quel forte desiderio di dondolarmi sull’altalena. Perciò rimango sorpreso, nel vederci qualcuno già seduto sopra».

    «Aspetta un momento!» mi blocca Celeste. «Di quale delle due altalene stiamo parlando?»

    «Tranquilla, quella di destra».

    Lei annuisce soddisfatta e ritorna al suo silenzio.

    Vi spiego: la mia amica ha decretato, un pomeriggio di febbraio di due anni fa, che l’altalena di sinistra del parco è di sua esclusiva proprietà, arrivando ad inciderci addirittura un avvertimento sul sedile con un coltello da cucina.

    “Territorio di Celeste, vita natural durante. Maledizione delle puzzole ai trasgressori”

    È ciò che ha scritto.

    Martina, la nostra compagna di classe, un pomeriggio ci è salita sopra ignorando - o forse non vedendolo perché è miope – le parole di Celeste.

    Ancora mi domando come cipicchia la mia amica abbia fatto a creare delle fialette puzzolenti con all’interno quel disgustoso odore.

    Per la puzza, la povera Martina dovette restarsene a casa per un’intera settimana.

    È da allora che le due non si rivolgono la parola.

    Credetemi, meglio stare alla larga da quell’altalena.

    «Dicevo, c’era già qualcuno seduto là sopra: un uomo, piuttosto giovane, sulla ventina. Almeno, credo. Forse poteva avere un paio d’anni in più. Era vestito con uno di quei completi eleganti, pantalone, camicia, e cravatta. La giacca c’era pure, ma se la teneva sulle gambe come fosse uno scialle, e nel frattempo dondolava, lentamente, ad occhi chiusi. Era davvero buffo a vederlo. Specie con quell’accozzaglia di capelli biondi e unti che si ritrovava».

    Infatti sorrido ripensandoci. Non si ha a che fare tutti i giorni con tipi del genere.

    «Era un forestiero» e qui, finalmente, scorgo un luccichio d’interessamento negli occhi di Celeste.
    Gli ultimi considerati tali dalla comunità sono stati proprio Celeste e i suoi genitori, trasferitisi qui dalla città vicina - anche se dire vicina è un eufemismo -. È vero, poi, che i visitatori sono rari a Passo della Cavalletta, ma questo non vuol dire che non ce ne siano affatto. Ad esempio, ne vengono a centinaia in occasione della festa patronale che teniamo ogni due anni. Anche se credo lo facciano più per le bancarelle e per i fuochi d’artificio, che per religiosità.

    «Ovviamente, data la sporadicità della situazione, mi sono avvicinato a lui, anche solo per domandargli se si sentiva bene. E lo faccio, glielo chiedo. “Ehi, signore, tutto bene?”, gli ho detto, e sai il forestiero cosa ha fatto?»

    Alzata di spalle da parte di Celeste.

    «Innanzitutto, ha sollevato le palpebre, e lì rimango colpito. Aveva degli occhi verdissimi, dello stesso colore di come sono adesso le foglie di Bitorzoluto. Quando il forestiero me li ha puntati contro, confesso che mi hanno messa addosso molta soggezione. “Ragazzo”, ha aperto bocca, sorridendomi, “ho da porti un quesito. Saresti così gentile da trovarmi una risposta plausibile?”. Ero spiazzato. Giuro, Celeste, non sapevo come replicare. Però poi ho annuito, anche se non del tutto convinto. Così il forestiero ha alzato la testa ed ha rivolto lo sguardo al cielo, che era quasi notturno. In quell’istante ho notato come un movimento all’interno del taschino della camicia, e all’improvviso da lì è spuntato…»





    Mmmh, come posso spiegarglielo?

    «Credo di aver pensato, in un primo momento, che si trattasse di una palla di pelo. Letteralmente. Ma poco prima che il forestiero ricominci a parlare, ho visto due occhietti da pesce lesso che mi fissavano, e là comprendo di aver sbagliato. Ho quindi immaginato che lui aveva con sé un qualche animaletto da compagnia di piccola taglia, tipo un topo o un criceto. Un animale a cui non guastava una bella tosatura, a mio parere. Era più peloso del piumino che usa nonna quando deve togliere la polvere».

    Anche se ha cercato di nasconderlo con la mano, simulando uno sbadiglio, sono riuscito comunque ad intravedere il sorriso sfuggito a Celeste.

    Mi fa piacere. Come mi fa piacere che non mi abbia ancora interrotto. Può significare che quello che le sto dicendo susciti davvero il suo interesse?

    «“Dì, come si fa a ricordare qualcosa che si è dimenticato?” mi ha chiesto il forestiero. Sarai d’accordo con me che è una domanda strana, e sono stato sul punto di rinfacciarglielo. Ma non volevo essere offensivo. Così ho alzato, invece, a mia volta la testa al cielo, dove già incominciavano a spuntare le prime stelle, e ho risposto: “Boh, la si legge da qualche parte?”»

    Celeste annuisce. Suppongo perché, probabilmente, anche lei gli avrebbe dato una risposta più o meno simile, decorandola – logicamente - con qualche parola sconcia delle sue.

    «“Interessante. Davvero interessante”, ha detto il forestiero, ridacchiando. Poi si è alzato dall’altalena, giacca in mano, e se n’è andato per la sua strada, lasciandomi da solo e con le idee più confuse di quando l’ho incontrato».

    «Un uomo bizzarro» ammette Celeste, fissando per tre secondi il soffitto, prima di tornare a guardarmi, «ma non tanto da meritare di finire sulla LS. Non che mi aspettassi qualcosa di grandioso dalla mia ombra».

    «Ah, grazie della fiducia. Ma non è lui che, secondo me, dovrebbe andarci».

    «E chi o cosa, allora?»

    «I suoi piedi».

    Celeste sorride beffarda.

    «Non sapevo avessi feticismi del genere».

    «Non ce li ho, infatti. Non sono un pervertito. Posso concludere la mia storia?»

    «Okay, scusa» sbuffa lei. «Va pure avanti».

    «Devi sapere che il forestiero era scalzo. Né scarpe né calzini».

    «Non mi dire. Eppure è strano, avrei dovuto capirlo da me quando hai detto che era scalzo».

    «Ehi, che ne è del tuo proposito di non interrompermi?»

    «È andato a farsi fottere perché mi sto annoiando. Mi appello al diritto di ribattere. Da adesso parlerò quando, come, e se mi pare».

    «Aaah, va bene! Fa come credi. Basta che mi lasci finire».

    «Sei tu l’unico che può e deve muoversi, mi pare».

    Mi arrendo e sospiro.

    «Andandosene, il forestiero mi dà le spalle».

    «A meno che non cammini all’indietro come i gamberi, mi sembra corretto».

    «E per fortuna che non è un gambero. Altrimenti, dubito che avrei notato come la pianta dei suoi piedi, passo dopo passo, restava pulita».

    «Nel senso che i suoi piedi non si sporcavano?»

    «Esattamente».

    «Non ci credo».

    «Però è vero».

    «Impossibile. No, fammi capire bene. Questo forestiero camminava a piedi nudi dove ci sono le altalene, cioè nell’unico punto, in tutto il parco giochi, in cui ci sono terra e sabbia, e non si sporcava?»

    «No».

    «Nemmeno un dito?»

    «No. E ti dirò di più, ma puoi anche non badarci, perché credo sia stata semplicemente un’impressione».

    «Sarebbe?»

    «Ogni istante prima che i piedi del forestiero toccassero il suolo, mi è sembrato di sentire… no, di percepire uno strano movimento d’aria, come di un leggero vento. So che può sembrare assurdo, ma era come se quel vento impedisse alla sporcizia di… di insudiciargli i piedi».

    «E tu affermi, quindi, che i piedi di questo forestiero, che solo tu hai visto, rimanevano illibati al contatto con la terra?»

    «Così ho detto. Esatto».

    «Bianchi?»

    «Tu ce li hai bianchi, quando sono puliti?

    «Allora color pelle?»

    Annuisco.

    «Non te lo sarai sognato?»

    Scuoto la testa.

    «Lo sai almeno cosa significa insudiciare?»

    Annuisco una seconda volta.

    «Certamente…»

    Per lo meno, credo di saperlo.

    Celeste abbassa lo sguardo e si morde il labbro inferiore. Incrocia quindi le braccia e chiude gli occhi, facendo dondolare la testa da destra a sinistra e viceversa.

    Quando fa in questo modo, per un tempo che varia dai cinque ai dodici secondi, lei si dimentica totalmente del mondo circostante, in modo da concentrarsi esclusivamente su di una specifica questione o dilemma e, in caso, trovarne una soluzione.

    Ricordo, ad esempio, quando la mia amica compì dodici anni ed io, strasicuro che non ci sarebbe riuscita, la sfidai ad indovinare il tipo di regalo che le avevo fatto.

    Ero stato un illuso.

    Quella volta, Celeste ci mise un attimo. Non chiuse nemmeno gli occhi. Mi disse subito che le avevo regalato un libro per la sua collezione.

    Non stavo tenendo il conto, ma credo circa nove secondi dopo, Celeste ritorna nel mondo reale e si avvicina alla finestra. Ci si affaccia, volgendo lo sguardo in alto.

    «Che cosa fai?» domando curioso.

    «Controllo a che punto sono gli asini. Non voglio ritrovarmi sotto una pioggia di merda quando usciremo da scuola. Uhm… Mi sa che ne avranno per parecchio. Quel maiale non sembra intenzionato a collaborare».

    Moolto divertente.

    «Mi credi, dunque?»

    «Sei la mia ombra. Ti concedo il beneficio del dubbio, nient’altro. A meno che, io stessa non veda il tuo forestiero coi miei occhi» Celeste torna al suo posto, prende in mano l’iPad e lo avvia. «Ad ogni modo, le tue parole hanno suscitato il mio interesse. Costui si è guadagnato di diritto un posto nella LS» mi guarda e sorride. «Congratulazioni a entrambi».

    «Grazie, sono commosso» rispondo allegro, avvicinandomi a lei.

    A questo punto, mi sembra doveroso dare qualche spiegazione: LS è, naturalmente, un acronimo, e sta per Lista delle Stramberie. In pratica, è un elenco di misteri, dei misteri che avvolgono tutto Monte Cono, per la precisione, e che Celeste si è autoimposta di risolvere, dato che, a suo dire, nessun’altro si prende la briga di farlo.

    La LS è nata per caso, da una domanda fattami da Celeste in un pomeriggio d’autunno mentre la spingevo sulla sua altalena.

    “Ma che ca*** ci sta di tanto importante su Lacrima d’Angelo, da essere proibito andarci?”

    Difatti questo è anche il Caso - così preferisce chiamare Celeste i misteri - in cima alla lista. Via via se ne sono aggiunti sempre di più, alcuni dei quali li abbiamo svelati facilmente. Tipo il Caso n.15, tanto per citarne uno, Il Leone di Montagna. Riguardava l’inquietante ruggito che certe notti, a tarda ora, si sentiva provenire da Città Vecchia. Alla fine, scoprimmo che era solo una lamina di ferro che strusciava col pavimento.

    Ai topi piaceva zampettarci sopra.

    Tolta quella, sparito il ruggito.

    E pure i topi.

    Altri, al contrario, sono stati davvero tosti e impegnativi. Il Caso n.39, ad esempio, La Poltrona Fantasma. C’era una poltrona, a scuola, che di notte appariva in una delle due classi vuote accanto alla nostra. A turno e a caso, ma sempre in una delle due. Nessuno sapeva chi fosse a portarcela, né il perché. Così, per molte sere, io e Celeste ci siamo appostati all’esterno dell’edificio, sbirciando dalle finestre delle aule in questione.

    Ho detto che fu tosto e impegnativo, perché di una noia mortale: ore ed ore sprecate nell’attesa che accadesse qualcosa, qualunque cosa, con Celeste che era sul punto di rompere i vetri a forza di tamburellarci contro le dita dall’impazienza.

    L’indagine ci portò via, complessivamente, quasi un mese di tempo libero; ma alla fine, proprio quando stavamo per arrenderci, trovammo una spiegazione.

    Be’… in verità, va ammesso che fu proprio il colpevole a svelarsi da solo e chiarirci tutto, perché si era accorto da giorni di noi due, che ficcavamo il naso fuori dalla scuola a tarde ore. E per quanto riguarda la motivazione dataci, fu deludente e stupida.

    Molto stupida.

    Talmente stupida, che Celeste non vuole più parlare di quel Caso.

    «Ehi! Ehi! Ehi! Ma che cipicchia hai scritto?» le chiedo inorridito.

    «Perché? Non si legge?»

    «Non è questo il punto! “Caso n.75, Il Feticista di Lucio”???»

    «Mi sembra adatto. L’argomento principale sono i piedi, no?»

    «Okay, ma spiegami che bisogna c’è d’infilarci pure il mio nome. Così pare che io centri qualcosa con un pervertito!»

    «Se fosse vero, acquisteresti più interesse».

    «Se fosse vero. Ma non lo è!» ribatto.

    «Uffa, e che sarà mai?»

    «Non puoi chiamarlo semplicemente “Il Forestiero”?»

    «Che scassa palle!» Celeste picchietta l’indice sull’iPad, poi mi fa vedere il display. «Ecco, il signorino è soddisfatto?»

    Osservo il nuovo titolo e annuisco.

    «Parecchio, grazie».

    Però niente mi garantisce che Celeste non lo rimetta di nuovo, tanto per farmi dispetto.

    Ah, e per chi non lo avesse ancora capito, Lucio è il mio nome.

    Molto piacere.

    «E adesso dove te ne vai?» le chiedo mentre si allontana dal suo banco.

    «In bagno. Mi scappa».

    «Posso usare il tuo iPad nel frattempo? Per curiosare in rete».

    «Divertiti, è tutto tuo. Il Pin lo conosci» Celeste esce dall’aula, ma è ancora a portata d’orecchio. «Ma non t’azzardare ad andare su siti porno, o ti caverò gli occhi!».

    «I-Io non ci vado su quei siti!» le urlo dietro, con un certo imbarazzo.

    «Come no! Ed io non sono su di una cazzo di sedia a rotelle!» controbatte lei.

    Poi non sento più né la sua voce né il sibilo delle ruote di gomma che strusciano contro il pavimento del corridoio.

    Lo so, lo so. Avrei dovuto dirlo subito che a Celeste non funzionano le gambe, ma non volevo si pensasse che quel suo caratteraccio fosse dovuto alla disabilità.

    A quanto ho saputo, la mia amica si è sempre comportata così, ancor prima di trasferirsi a Passo della Cavalletta: lo ha raccontato sua madre ad Elena, la Fioraia, nel giorno di mercato; lei lo ha poi detto, in confidenza, a Giuseppe, il Guardiano dell’Acqua; lui, a sua volta, lo ha bisbigliato al cugino Giorgio, il Vice Sindaco, che in seguito…

    Oh, insomma, si è capito.

    Più è piccolo il paese, più le voci girano come trottole.

    Morale della favola, dopo aver fatto il giro di mezza comunità, la notizia è giunta alle orecchie di mia nonna, e lei lo ha raccontato a me. Praticamente, sono stato io a interrompere la catena dei pettegoli.

    Non che la nonna lo sia, per carità. Me lo aveva detto soltanto perché io e Celeste eravamo diventati amici da poco.

    Vabbe’…





    Il codice Pin per avere accesso all’iPad di Celeste è 968896. A suo dire, questa è una cifra affascinante, perché resta uguale anche se la si capovolge.

    Per me, invece, non sono altro che numeri.

    Troppi numeri.

    Stupidi numeri.





    Detesto la matematica!

    Oltre alle solite App della Mela Morsicata - e di qualche gioco rompicapo con cui Celeste si diverte quando si annoia a lezione -, dentro l’iPad ci sta pure quella di un foglio strappato con sopra tre righe orizzontali.

    La Lista delle Stramberie.

    Ci pigio sopra l’indice per aprirla. Son curioso di sapere cosa ha scritto Celeste sul forestiero di cui le ho parlato.

    Prima di continuare, però, c’è un ulteriore dettaglio sulla LS da aggiungere: Celeste ha suddiviso i Casi con tre colori, il verde, il giallo, ed il rosso; come un semaforo, ed infatti hanno più o meno lo stesso significato.

    I Casi in verde - in pratica la maggior parte della LS - sono quelli che noi due abbiamo già risolto. C’è un’ulteriore sezione al loro interno, dentro la quale Celeste illustra in modo dettagliato quando e come questi misteri sono stati chiariti.

    Per la mia amica è quello ciò che più conta, alla fine.

    I Casi in giallo, invece, sono quelli su cui stiamo, o ancora dobbiamo, indagare. Di solito sono pieni delle informazioni raccolte al riguardo. O delle voci che ci aleggiano attorno.

    I Casi in rosso, al contrario, sono quelli su cui non possiamo investigare. Vuoi per scarsità di fonti, per la troppa difficoltà, o perché ci è proibito – Lacrima d’Angelo è uno di loro -. Sono pochi, una dozzina, almeno credo. Ora non ricordo con precisione. A Celeste prende un nervoso quando pensa di non poter fare luce su questi misteri.

    Ci sarebbe un altro colore, grigio, e un solo Caso attinente. Ma preferisco sorvolare su quest’ultimo, giacché per Celeste è un nervo scoperto.

    E in fin dei conti, pure per il sottoscritto.

    Ma bando alle ciance, vediamo cosa ha memorizzato Celeste su quel tipo bizzarro. Lei è molto precisa, quando si tratta della LS. In fondo, è il suo capolavoro, il suo lascito ai posteri, la sua ered-





    Caso n.75. Il Forestiero

    Un uomo, probabilmente un feticista/pedofilo che ha tentato di rimorchiare Lucio.

    (Che gusti strani!)

    Raccogliere altre informazioni.






    La odio.

    Sì, okay, è mia amica. Ma la odio!

    Sbuffo di rabbia, quasi tentato di cancellare tutta l’App della LS. Ma evito. So che se soltanto provo a metterci le mani sopra, anche solo per cambiare una virgola, poi Celeste userebbe la mia schiena per lucidare le ruote della sedia a rotelle. Non prima di avermi massacrato di botte, ovviamente. Lei sarà anche esile come una foglia, ma è molto agguerrita.

    Martina e i gemelli Pacini ne sanno qualcosa.

    Lascio perdere, almeno per adesso. Più in là troverò il momento giusto per lamentarmi.

    Sto per chiudere la LS per andare in rete, quando l’occhio mi casca su di un Caso verde a cui, finora, non avevo mai prestato particolare attenzione.

    Caso n.44. Monte Cono. Perché si chiama così?



    Bene, bene. A quanto pare, pure la mia amica si è posta la stessa domanda che mi sono fatto io ieri, e visto il colore, ne ha trovato la soluzione.

    Tanto meglio. Non farò perdere tempo al Sindaco Leo con la mia curiosità. Potrebbe non sembrare, ma è un uomo parecchio impegnato. Però trova sempre modo di venire alla Locanda a bersi un buon caffè e a scambiare qualche chiacchiera col nonno. Loro due sono amici di vecchia data.

    Be’, soddisfiamo il mio interesse.





    Uhm…

    Una premessa: al contrario di Celeste, io non sono tipo da parolacce. Alla nonna non sono mai piaciute. Riflettendoci, non credo di averla mai sentita imprecare in qualche modo, come invece fa il nonno quando non gli riesce di arrotolare la cartina della sigaretta. Perciò quello che sto per leggere sarà sì censurato, tuttavia son sicuro che il significato sarà comunque comprensibile.

    Caso n. 44.Monte Cono. Perché si chiama così?

    Non me ne frega un c****!

     
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    Ho letto il primo capitolo e mi è sembrato abbastanza fiabesco. Mi sono immaginata la situazione e credo che tu abbia descritto bene il posto.
    Appena avrò letto il secondo capitolo ti dirò quali sono state le mie impressioni anche su quello.
     
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    Mi fa sempre piacere leggere qualcosa di tuo, Aster :D

    Ho ritrovato il tuo vecchio metodo di narrare, evocativo, intenso, interessante, con cura nei dettagli e con grande capacità di dosare bene gli elementi della storia. Per il momento posso solo dare valutazioni sommarie e sono tutte positive, sei molto migliorato, questo è da dire. Sulla storia non mi esprimo ancora, sembra interessante, però aspetto che entri nel vivo per davvero e in quel momento dirò cosa penso. I presupposti per una bella avventura ci sono tutti :)

    Piccola nota: ottimo lavoro sui dialoghi, mi riferisco al secondo capitolo ;)
     
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    Dopo avere letto il capitolo 2 confermo la mia ipotesi sull'atmosfera fiabesca e, in realtà, non mi ero aspettata che fosse ambientato ai giorni nostri finché non è spuntato fuori l'I-pad di Celeste.

    CITAZIONE
    Ho quindi immaginato che lui aveva con sé un qualche animaletto da compagnia di piccola taglia, tipo un topo o un criceto.

    Standing ovation.

    CITAZIONE
    «A meno che non cammini all’indietro come i gamberi, mi sembra corretto».

    Altra standing ovation.

    In generale mi sembra molto interessante e il caso in grigio mi intriga. Spero che si parlerà anche di quello! <3
     
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    Ho letto il primo capitolo e mi è sembrato abbastanza fiabesco. Mi sono immaginata la situazione e credo che tu abbia descritto bene il posto.

    Thanks :D

    CITAZIONE
    Ho ritrovato il tuo vecchio metodo di narrare, evocativo, intenso, interessante, con cura nei dettagli e con grande capacità di dosare bene gli elementi della storia. Per il momento posso solo dare valutazioni sommarie e sono tutte positive, sei molto migliorato, questo è da dire. Sulla storia non mi esprimo ancora, sembra interessante, però aspetto che entri nel vivo per davvero e in quel momento dirò cosa penso. I presupposti per una bella avventura ci sono tutti :)

    Grazie dei complimenti. Vedrò di non deludere con la storia :D

    CITAZIONE
    Piccola nota: ottimo lavoro sui dialoghi, mi riferisco al secondo capitolo ;)

    È piaciuto pure a me quando l'ho scritto :D

    CITAZIONE
    Dopo avere letto il capitolo 2 confermo la mia ipotesi sull'atmosfera fiabesca e, in realtà, non mi ero aspettata che fosse ambientato ai giorni nostri finché non è spuntato fuori l'I-pad di Celeste.

    Non esattamente ai giorni nostri, ma ci avviciniamo. Considera che ho cominciato questa storia una seina d'anni fa.

    CITAZIONE
    il caso in grigio mi intriga. Spero che si parlerà anche di quello!

    Sì, ne parlerò. Ma molto, molto, molto, molto più in là.
     
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    Capitolo 3

    Corsetta quotidiana.



    Che ci crediate o no, al mondo esistono individui che alle espressioni come tagliare la corda, squagliarsela, levare le tende, portare le chiappe via da qui, ecc…, se la ridono. O, fanno una smorfia, che sarebbe l’accenno di una risata, perché son parole con cui hanno già avuto a che fare.

    Io, però, non ci scherzo sopra.

    Tutt’altro. Le prendo molto sul serio.

    «Fermati, Terrone

    «Ma anche no!»

    Preferisco di gran lunga proseguire la corsa. O macinare terreno, per citare una di quelle espressioni di prima; ignorando, con mio falso rammarico, il gentile invito che mi viene rivolto dai ragazzi che ho alle calcagna.

    Facciamo le dovute presentazioni: questi due che si ostinano ad inseguirmi da quando è suonata la campanella sono i fratelli Pacini, e fanno parte del gruppetto dei 16 ragazzi che attualmente vivono a Passo della Cavalletta.

    Sono gemelli, Berto e Giacco Pacini. Almeno, così dichiarano l’anagrafe e i loro genitori. Perché taglio e colore di capelli a parte, di uguale non c’hanno proprio niente.

    Berto - diminutivo di Umberto - è alto e snello. Forse troppo alto, per la sua età. Infatti, quando lo si incontra per la strada, si nota subito che tende a camminare un po’ ingobbito.

    Giacco – Giacomo sulla carta d’identità - è invece bassotto e ciccione. Ha la pancia sproporzionata rispetto a braccia e gambe. Scommetto che se mai un giorno dovesse cadere di schiena, Giacco non riuscirebbe mai più a rialzarsi.

    Forse una volta erano gemelli per davvero, i due. Da bambini. Non so… Non me lo ricordo più. E dire che Giacco e Berto hanno sempre fatto parte della mia vita, specie dal giorno in cui hanno iniziato a prendermi a botte, soltanto perché mia nonna è originaria della Calabria – da qui quel Terrone -. Il nostro è stato per anni un appuntamento fisso, dopo la scuola.

    Poi a Passo della Cavalletta è arrivata Celeste, e per loro son stati dolori. Al suo primo giorno di scuola, i gemelli hanno provato a fare i soliti bulletti.

    Che errore.

    Celeste quella mattina gliele ha suonate di brutto. Oserei dire che si è pure divertita nel farlo.

    Da quel giorno in cui hanno visto le stelle, Giacco e Berto non si sognano più di alzare le mani su qualcuno. Soprattutto su di me, perché sono suo amico.

    Ah…





    L’essere stato difeso da una ragazza, tra l’altro disabile, mi colloca, forse, al livello più basso nella scala sociale?

    Dovrei vergognarmene?





    Bah, in ogni caso, adesso i due ex-bulli si limitano soltanto ad inseguirmi per tutta la comunità, come fossi un leprotto indifeso e loro i segugi che devono acchiapparmi.

    Non che mi lamenti.

    Al contrario, gli sono grato. In fondo, è merito loro sono così in forma. Sapete, digerire le cose buone della nonna è facile. Il problema è che quando lei cucina, lo fa in abbondanza.

    Ma non mi lamento nemmeno di questo.

    Comunque, la nostra corsetta quotidiana ci ha infine condotti al Viale del Mercato, e il nome dice tutto. Qui si riuniscono due tipologie di venditori: quei pochi che fanno affari solo con i turisti e gli abitanti di Passo della Cavalletta, attraverso il commercio di oggettini particolari e cibo fatto in casa; e gli altri che esportano le proprie merci fuori da Monte Cono appoggiandosi alla ditta “Vandozza&Co.”.

    In questo momento, le botteghe son quasi tutte chiuse, eccetto quella di Elena la Fioraia. Ma è ora di pranzo, quindi direi, da come sbuffa stanchezza, che è sul punto di andarsene.

    «Sempre di fretta, voi tre!» ci sorride agitando la mano per salutarci, mentre le passiamo accanto ansimando di fatica.

    «Ciao, Elena!» le rispondiamo noi all’unisono, senza fermarci.

    Credetemi, Elena è davvero una brava persona. E molto forte, anche. Malgrado sia rimasta vedova dopo soli due anni di matrimonio, non ha perso la voglia di sorridere. Da poco ha superato la cinquantina, ma ha ancora un bell’aspetto e una movenza attraente, tali da far voltare e ammiccare gli adulti scapoli verso di lei quando passeggia.

    Alcune volte lo fanno pure quelli sposati. E quando lo vengono a sapere le rispettive mogli, per loro son guai grossi!

    Più avanti mi sembra di scorgere altri ancora indaffarati in qualcosa. Dapprima sono semplici figure indistinguibili, ma poi si trasformano in tre uomini che ben conosco.

    Mi arresto – è proprio il caso di dirlo – di colpo. Berto, però, non riesce a fermarsi in tempo e mi colpisce la schiena, facendomi avanzare di qualche centimetro. Giacco, che stava dietro di noi, va così a sbattere contro il fratello. Di conseguenza, io mi avvicino ulteriormente a uno dei due uomini in divisa.

    Lo sguardo torvo che mi lancia contro il Maresciallo è inequivocabile.

    Ce l’ha proprio con me!

    «Bene, bene. Cosa vai tramando oggi, ragazzo?» domanda con tono autoritario.

    Deglutisco. Il Maresciallo è tipo da incutere tanta, ma proprio tanta soggezione. Alto, arcigno, e tutto muscoli. Ora indossa il berretto e non si vedono, ma ha i capelli color grano, corti.

    Mentre cerco di elaborare una risposta decente, mi casca l’occhio sui due là con lui.

    L’altro in divisa è Brigadiere2, un anziano ometto che a mio parere farebbe la sua bella figura come nano da giardino, se non si facesse la barba tutti i giorni. Io lo chiamo così perché non riesco mai a ricordarmi il suo nome. Né quello di Brigadiere1, il suo collega.

    Ma mi sembra di aver già anticipato questo.

    Brigadiere2 ha la presa salda sul braccio del terzo uomo. Quest’ultimo ha il viso sporco di fuliggine, i capelli increspati, ed è magrissimo. Indossa vestiti come minimo di due taglie più grandi, lerci e logori.

    È Ciccio il Ladruncolo, ed è ammanettato.

    «Nulla. Sono innocente. Lo giuro» dico infine, dandomi dello stupido tra me e me.

    Non potevo trovare una risposta migliore di quella?

    «Innociente? Allora io pure» ridacchia Ciccio. «Lucio, bello vederti. Avrebbi del Pecorino da dare a me? Ok pure se ci ha la muffa».

    Come se io me ne andassi in giro con del formaggio in tasca.

    Ciccio il Ladruncolo ne va matto. Lo si potrebbe definire il suo tallone d’Achille, e ciò che l’ha condotto sulla cattiva strada. Da quando lo conosco, ha sempre commesso dei furtarelli – roba da poco -, per poi barattare la refurtiva con del formaggio, nella maggior parte dei casi con gli stessi derubati.

    Una volta, ad esempio, Ciccio ha preso in ostaggio Dea, la gattina di Letta, nipote del Sindaco Leo, e si è barricato dentro la sua stamberga minacciandola che non ne sarebbe mai più uscito, a meno che non gli avesse portato almeno un pezzetto di Parmigiano.

    Non che lui avrebbe fatto qualcosa di brutto all’animale. Ciccio sarà pure un ladruncolo, ma non si azzarderebbe mai a far del male a un altro essere vivente. È solo un…





    Cipicchia, qual è quella parola che usa il nonno quando parla di lui? Ce l’ho sulla punta della lingua…





    Ah, sì, un disadattato!

    Arrivare a tanto per del formaggio, neanche fosse un topo.

    Ciccio non ha tutte le rotelle a posto, come Sputa S. Willy.

    Poco ma sicuro.

    Questa volta, però, gli è andata male. Deve essere stato colto in flagrante durante il solito giro di pattuglia del Maresciallo.

    «No, mi spiace» gli rispondo.

    «E amici tuoi già squagliata? Neppure?».

    «Ah?»

    Mi volto indietro e osservo Giacco e Berto, che se la danno a gambe levate.

    To’, ho appena citato un’altra di quelle espressioni!

    Certo che i gemelli, quando si tratta di avere a che fare con gli adulti, si comportano proprio da codardi.

    «Mangerai formaggio in cella, Francesco» afferma il Maresciallo, facendo poi un cenno a Brigadiere2, penso perché lo porti in caserma. «Quanto a te, ragazzo, prendi esempio da quei due. Tornatene a casa».

    Annuisco.

    «Sissignore!»

    Faccio quindi dietrofront e me ne scappo via più in fretta che posso. Non ne ho la sicurezza assoluta, ma sento che il Maresciallo mi sta scoccando un’occhiataccia che so – presumo – di non meritare.

    Okay, lo confesso. Sotto sotto, una dose di vigliaccheria la tengo pure io.

    Edited by The Aster - 19/9/2018, 16:13
     
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    Capitolo 4

    La Locanda.



    Non c’è posto migliore di casa.

    Prendiamo la mia, ad esempio: la Locanda, in origine, non era che un vecchio casolare in disuso e dall’aria spettrale. Figuratevi che cedeva pezzi ad ogni folata di vento. Poi è accaduto che i miei nonni, sposi novelli, l’hanno comprato ad un prezzo ridicolmente basso – secondo l’affidabile opinione di Franco il Muratore – e restaurato, facendo però attenzione a lasciarle un aspetto rustico e accogliente.

    Ai turisti casa mia piace tanto, perché sembra uscita fuori da una delle fiabe di quei due fratelli famosi - ora mi sfugge il nome -, e la usano come sfondo per farci miliardi di foto. Adorano, soprattutto, il torrente dietro il nostro giardino, il quale scende direttamente giù da Lacrima d’Angelo.

    La sua acqua è potabile e sempre fresca.

    Ciò nonostante, io ho convinto i nonni ad evitare di berla. In verità, da quando ci ho visto un cane farci la pipì, ho sconsigliato di farlo a tutta Passo della Cavalletta. Però nessuno degli altri, fatta eccezione per Celeste e la sua mamma, mi dà ancora retta.

    Che schifo…

    Be’, fortuna che il cane ha lasciato stare il Nespolo.

    Accanto al torrente il nonno ha fatto costruire a Franco il Muratore uno di quei mulini ad acqua che servono a macinare tanto grano e in fretta. La nonna ne aveva un paio nella sua Masseria in Calabria. Quindi, per farle passare la nostalgia della propria terra, che ogni tanto le prendeva, il nonno ha racimolato di nascosto un gruzzoletto, così da poterlo edificare, e gliel’ha regalato giusto in tempo per festeggiare i loro primi 15 anni di matrimonio assieme.

    Perché sapete, mio nonno è un mito!

    La nonna sfrutta il mulino per preparare la sua personale farina fatta in casa. Non che disdegni quelle dei supermercati. È solo un po’ schizzinosa. Da vera padrona di casa, preferisce avere totale sicurezza - e controllo – su ciò che cucina.

    Personalmente, avendo assaggiato piatti cucinati con entrambe le farine, devo dire che un po’ di differenza la si sente.

    Nei dolci, in particolare.

    Nonostante l’età avanzata, la nonna ne fa un sacco, e spesso, per me.

    Sa che ne sono goloso.

    Davvero, sarei capace di riempirmi lo stomaco fino ad ingozzarmi.

    «Ciao, Lulù. Tutto bene a scuola?» mi accoglie nonna, non appena metto piede in casa.

    Entro in cucina, che sa di pomodoro e basilico, e la vedo indaffarata ai fornelli. Ne deduco che il pranzo non è ancora pronto. Cosa molto insolita, visto che da noi si cena sempre all’una e mezzo, imprevisti a parte.

    Logicamente, ce ne deve essere stato uno.

    Ah, quasi dimenticavo: nessuno si azzardi a rivolgersi a me col nomignolo che mi ha affibbiato la nonna, perché lo detesto! Sembra una marca di scarpe per femminucce. Permetto solo a lei di farlo perché le piace ed io le voglio un mondo di bene.

    È come una mamma per me.

    No, mi sono espresso male.

    Nonna è proprio la mia mamma, e nonno è il mio papà.

    I miei veri genitori sono degli Hippy, cioè dei Figli dei Fiori. Viaggiano per il mondo e di conseguenza non possono occuparsi di me.

    Proprio per questo mi hanno affidato ai nonni.

    Di tanto in tanto, ci arrivano loro notizie tramite delle cartoline, inviate da posti sempre più esotici e lontanissimi. Ma il nonno non ha mai voluto che gli rispondessimo, né che gli dessimo mie notizie.

    Lui ce l’ha a morte con la figlia, perché mi ha abbandonato.

    Non c’è bisogno di provare pena per me, anche perché quei due non me li ricordo affatto. In verità, non sono nemmeno sicuro di averli davvero mai incontrati. So che faccia hanno solo per una foto che custodisce la nonna, e che un giorno mi ha fatto vedere all’insaputa del nonno. Nient’altro.

    Quanto a me…

    Non è che non m’importi nulla di loro. Solo, non so se devo provare affetto o odio.

    Ai miei occhi, son due estranei.

    In ogni caso, per me sono i nonni i miei veri genitori, la mia famiglia.

    Punto.

    «Ciao nonna. Nulla di nuovo. Nonno dov’è?

    «Di sopra a preparare una delle stanze. È da stamattina che va e viene. A quanto ho capito, da oggi abbiamo un ospite».

    «Un cliente, eh?» ecco l’imprevisto. «Mica è la stagione dei turisti, questa».

    «Infatti non è venuto qui per visitare, ma per studiare. È un professore universitario, un geologo, mi pare abbia detto il nonno. L’ha incontrato lui mentre non c’ero. Sembra sia interessato alla montagna, per qualche ricerca o tesi, non mi è chiaro quale delle due. Tuo nonno ha detto che se n’è andato in biblioteca non appena firmate le carte, ma non si è ancora fatto vivo. Ora, non so se devo preparargli qualcosa da mangiare, oppure no. Non ha lasciato detto nulla. Mannaia, odio quando fanno così!»

    Sorrido divertito. Delle volte, alla nonna capita che le sfugga qualche termine dialettale, tipico della sua terra. Come quel mannaia, che sta per “mannaggia”.

    «Una ricerca su Monte Cono? Allora ne avrà di roba da scrivere» sostengo.

    La nonna fa spallucce.

    «Che vuoi che ti dica. Ci ha già pagato un mese, e in contanti. Al nonno non importa altro. Quanto a me… Be’, spero che sia una persona a modo».

    «Se è un cervellone come il Prof, lo sarà per forza. Salgo un attimo in camera mia».

    «Non tardare, che è quasi pronto. E già che ci sei, fa scendere nonno. Incomincio a sentire la mancanza del suo panzuni».

    «Okay» sorrido.

    Nonna e il suo dialetto!

    Mentre faccio a due a due i gradini che portano al secondo piano della Locanda, dove ci sono le stanze riservate agli ospiti – quella dei nonni è al pian terreno, mentre la mia ancora più su, al terzo -, rifletto su quanto mi ha detto la nonna.

    Non posso non domandarmi se il nostro attuale inquilino non sia proprio quel bizzarro forestiero dai piedi scalzi incontrato ieri al parco. Ma debbo dire che non aveva affatto l’area da professore universitario.

    Anzi, ora che ci penso, mi è parso pure un po’ stupidotto.

    Ma potrei sbagliarmi.

    D’altronde, i nonni mi hanno insegnato a non fermarmi mai alle apparenze.

    Se no, come avremmo fatto io e Celeste a diventare amici?

    «Aspetta, ti do una mano!» dico al nonno, che si sta affannando a far passare il materasso dall’entrata della porta.

    «Ah, Lucio…» sbuffa lui vedendomi «… meno male che sei arrivato. Sto lottando… contro quest’ammasso di piume e molle… da un pezzo!»

    «Ci credo…! Volevi farlo passare… dal lato lungo!» contro sbuffo io. «Non potevi… rimandare tutto… a pomeriggio?»

    «Ho dovuto… fare le cose… in fretta!»

    «Lo so…! Nonna mi ha… già detto tutto!»

    «Piano… Piano… Okay, giù!»

    Lasciamo cadere il materasso sulla branda, poi entrambi ci asciughiamo il sudore dalla fronte col braccio.

    «Perfetto, non resta che infilarci lenzuola e cuscini e siamo a posto».

    «Lo facciamo dopo. Adesso andiamo a mangiare. Ah, e a nonna manca il tuo panzuni».

    Nonno ridacchia e si accarezza il voluminoso addome.

    «Come dicono dalle sue parti? Uomo di pancia, uomo di sostanza».

    Volendo tradurlo alla buona in italiano, sì…

    Per dovere di cronaca, devo aggiungere che esiste una seconda parte di questo proverbio. Il nonno è convinto che io non la conosca. Peccato che gliel’abbia sentita sussurrare al Sindaco Leo, un giorno che è venuto a prendere il caffè da noi. La rima, che rientra nella descrizione del suo prominente addome, è… oltremodo offensiva.

    «Be’, ho faticato abbastanza per oggi. Scendiamo».

    «Devo dare l’acqua a Bitorzoluto. Arrivo subito».

    «Va bene, ma fa in un lampo. La nonna non metterà mai mano alla forchetta senza di te,» il suo panzuni rumoreggia «ma non garantisco per il sottoscritto».

    No, non lo farà nemmeno lui.

    Perché, come ho già detto, mio nonno è un mito!

    Bitorzoluto è come ho battezzato il bonsai che ho trovato tempo fa a Città Vecchia, mentre con Celeste risolvevamo uno dei Casi della LS. Il poverino aveva messo radici nel ripostiglio di uno dei capannoni abbandonati, un posto brutto e al chiuso, con poca luce, e il suo aspetto ne aveva risentito.

    Era così secco e dall’aria morente…

    Ho provato talmente tanta pena per lui, che non ho potuto fare a meno di prendermene carico, e con l’aiuto di Elena la Fioraia - grazie alla quale ho scoperto che Bitorzoluto è un piccolo olivo - sono riuscito a travasarlo e a portarmelo a casa dove, sempre consigliato da lei, sono stato in grado di curarlo.

    Adesso Bitorzoluto ha dimora fissa sulla scrivania nella mia stanza, esposto ai benefici raggi del sole che filtrano dalla finestra.

    Ha un aspetto stupendo. Le foglie sono verdissime, e il suo tronco si è fatto, col tempo, più robusto, arricciato, e nodoso – da qui il nome Bitorzoluto -.

    Parlucchio un po’ con Bitorzoluto mentre gli faccio passare la sete, come sono solito fare. È un’abitudine trasmessami da Elena la Fioraia. Lei è sicura che le piante crescono meglio, se sanno di essere considerate con amore. Ed io sono molto affezionato al mio bonsai. Mi tiene compagnia.

    KKCCS… KKCCS… KKCCS…

    Questo ronzio proviene dal walkie talkie che mi ha regalato Celeste, l’unico modo con cui possiamo comunicare tra noi a distanza, visto che a Monte Cono i cellulari non hanno campo.

    Ma che avrà quella da contattarmi a quest’ora?

    KKCCS… KKCCS… KKCCS…

    Uhm… Meglio che risponda, o finirà che me la ritroverò sotto casa a lanciare sassi alla finestra.

    KKCCS… KKCCS…. TLACK!

    «Alla buon’ora!» esordisce la voce gracchiante della mia amica dal Walkie Talkie.

    «Ciao anche a te».

    «Te lo sei riempito lo stomaco?»

    «Non ancora».

    «Cazzo, allora spicciati! Abbiamo da fare!»

    «Cioè?»

    «Un Caso da risolvere. Ci vediamo tra un’ora davanti alla biblioteca. Portati il walkie talkie. Se tardi, giuro che ti taglio le…»

    TLACK!





    La biblioteca, eh…?

    Sta a vedere che ci sarà anche quel forestiero, il professore universitario.
     
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    Ho il sospetto che che ci sarà anche quel tizio e che avrà una grande importanza nel prossimo futuro.

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    Ne deduco che il pranzo non è ancora pronto. Cosa molto insolita, visto che da noi si cena sempre all’una e mezzo, imprevisti a parte.

    Mhm... forse SI PRANZA all'una e mezza.
     
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    Capitolo di assestamento, che getta nuova carne al fuoco. Vedremo come si evolverà questa storia, che promette molto bene. In particolare sembra una costruzione molto efficace per un imminente plot twist, però aspetto per dare eventuali giudizi :D
     
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    Mhm... forse SI PRANZA all'una e mezza.

    Hai ragione :D

    Grazie della segnalazione.

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    Capitolo di assestamento, che getta nuova carne al fuoco. Vedremo come si evolverà questa storia, che promette molto bene. In particolare sembra una costruzione molto efficace per un imminente plot twist, però aspetto per dare eventuali giudizi :D

    Come hai detto tu, questi primi capitoli sono diassestamente, introducono ambientazione e personaggi. Tra poco, però, le cose inizieranno a farsi interessanti XD
     
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    Capitolo 5

    Il Ristorante della Mente.


    «Detesto a morte i fan di Stephen King!» se ne esce a un tratto Celeste, mentre sale dalla rampa per disabili dopo aver rivolto lo sguardo al nome della biblioteca, preso appunto da uno dei racconti di King. «Dipendesse da me, li avrei già fatti fucilare!»

    È una fortuna che non hai potere di giudizio, allora.

    «Lo ripeti ogni volta che veniamo qua» le faccio presente.

    «E sempre lo dirò. Quel tizio è troppo sopravvalutato».

    «Se la pensi così, perché hai tanti suoi libri nella tua collezione?»

    «Anche a me capita di sbagliare, cosa credi? Sono perfetta fino a un certo punto. Perfino il sole si eclissa delle volte»

    Mi costringo a non ribattere.

    «Però quel racconto che mi hai prestato tempo fa non era poi da buttare. Ricordo che mi sono venuti i brividi mentre lo leggevo».

    «Già, Misery… È stato il primo dei suoi racconti che ho letto. Forse l’unico che ho davvero apprezzato. Invece tutti gli altri sono banali, scritti alla: “Oh, ma tanto lo comprano comunque, indipendentemente dalle stronzate che ci metto. Perché sono famoso. Gnè! Gnè! Gnè!”».

    «Dubito che uno scrittore la penserebbe in questo modo».

    «Sei tu uno scrittore?»

    «Be’… no».

    «Allora tappati la bocca!»

    «Sissignora…»

    Entrati in biblioteca, il penetrante puzzo della carta ammuffita mi fa storcere il naso. Qua dentro ci saranno centinaia, ma che dico, milioni di libri. Mi viene un gran mal di testa solo a pensarci di leggerli tutti.

    E che ci crediate o no, c’è qualcuno che l’ha fatto, ed è proprio di fronte a noi.

    «Buon pomeriggio, ragazzi» ci saluta Letta, la nipote del Sindaco Leo, qui in veste di responsabile della struttura e segretaria addetta all’aiuto, rivolgendoci uno dei suoi dolci sorrisi.

    Letta ha diciannove anni, ed è davvero molto bella: alta, slanciata, con i capelli color caramello e gli occhi verdi. È pure di buon carattere, come lo zio. Sempre così cortese ed educata, pronta ad aiutare il prossimo, se ce n’è bisogno, e che ti ascolta senza giudicare.

    Già, Letta…

    La buona e bella Letta…

    Ho una cotta per lei dalle elementari.

    «Ciao, Letta» dico.

    «Ciao, Letta» mi imita Celeste, ammiccando poi sui tre libroni aperti sulla scrivania dove Letta è seduta. «Ne avrai ancora per molto con quelli?»

    «Eh, mi sa di sì» annuisce Letta. «Digitalizzarli richiede tempo e parecchia concentrazione. Ma penso di finirli prima del prossimo mese».

    «Di cosa parlano?» domando.

    Risatina da parte di Letta.

    «Oh, Lucio, magari i libri parlassero. In compenso, sono degli ottimi cantastorie. Questi tre, in particolare, narrano il tragico epilogo di un’antica dinastia scozzese che…»

    «Bla, bla, bla!» la interrompe Celeste, facendole il verso con la mano. «Allora, hai trovato quello che ti ho chiesto, o no?»

    «Ma certamente» Letta si alza. «Lo vado a prendere. Pazientate un poco qui».

    E ci lascia da soli.

    «Cipicchia, dovevi proprio rivolgerti a lei in quella maniera?» rimprovero a Celeste.

    «Sii grato, invece di rompere le palle. Te ne stavi talmente imbambolato a fissarla come uno stoccafisso, che ho pensato ti fosse venuto un ictus. Cazzo, quando ti ficcherai in quella testaccia di idiota riccioluto che non hai la benché minima possibilità con Letta?! Siete su due pianeti diversi!»

    «Sperare non costa nulla».

    «Tu non speri. Sogni».

    «Ecco a te» dice Letta a Celeste una volta tornata, e le porge una carpetta gialla chiusa da uno stretto elastico. «Sai, Celeste, è stata una richiesta insolita, perfino da parte tua. Posso chiedere a cosa ti serve?»

    «No».

    La mia amica afferra la carpetta e la mette nella borsa - che ho battezzato, a sua insaputa, Borsa di Mary Poppins - infilata allo schienale della sedia a rotelle. Ruota quindi quest’ultima e se ne va dritta verso l’uscita della biblioteca.

    «Lucio, datti una mossa!»

    «Arrivo!»

    Mi rivolgo a Letta.

    «Perdonala, lei è… Be’, fatta così».

    «Lo so, lo so. Non ti preoccupare. Stalle vicino, okay?»

    Sono la sua ombra. Più vicino di così…

    Comunque, annuisco e faccio per andarmene anch’io. Ma poi mi ricordo della faccenda del Forestiero e, dopo aver gettato un’occhiata nei paraggi, mi accorgo che non c’è nessun altro, a parte me e Letta.

    «Senti, Letta, non è che per caso prima di noi è venuto qualcun altro, qua in biblioteca? Magari… un forestiero?»

    Lei annuisce.

    «Sì, in effetti. Una cosa insolita, in questo periodo. Non trovi?»

    «Già…»

    «Come mai me lo chiedi?»

    «Niente, è che abbiamo un cliente alla Locanda e nonna mi ha detto che era venuto qui. Ero solo curioso di vederlo».

    «Mi spiace, se n’è andata una mezz’oretta fa. Probabilmente, adesso sarà alla Locanda. Farete conoscenza lì, tranquillo».

    «Mi sa di sì…»

    Cipicchia! Lo abbiamo mancato davvero per –





    Eh?





    Un momento…

    Sbaglio, o Letta ha proprio detto “andata”?

    «Era una donna?» domando sorpreso.

    Letta annuisce.

    «E pure molto bella».

    «Più di te? Non ci credo».

    Letta ridacchia.

    «Sei molto dolce, Lucio, grazie. Tuttavia, non reggo il confronto. Lei è davvero affascinante, e colta. Me ne sono resa conto chiacchierandoci. Sarai anche tu di quest’opinione quando la incontrerai, fidati».

    Saluto Letta - perché da fuori Celeste mi ha praticamente minacciato di farmi lo scalpo se non mi muovo – e raggiungo la mia amica, con in testa le idee un po’ confuse.

    Qua i casi sono due: o la nonna e Letta si sono sbagliate, oppure a Passo della Cavalletta c’è più di un Forestiero.
     
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    Oppure è lo stesso e cambia sesso da un giorno all'altro.

    Un giorno sì e uno no, come con le targhe XD
     
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    Vedo che il racconto sta premendo sull'acceleratore, ansioso per il prossimo aggiornamento, credo che ci saranno risvolti molto interessanti e che potremo avere a che fare con una situazione poco prevista dai protagonisti
     
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153 replies since 7/10/2017, 09:00   1396 views
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