Anime di metallo

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  1. Milly Sunshine
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    A grande richiesta ecco la prima parte del capitolo 2.



    Capitolo 2.
    Yuma pedalava alla maggiore velocità possibile, nonostante la scivolosità dell’asfalto. Quando era uscita dal bar pioveva moderatamente, mentre adesso diluviava. Fortunatamente non c’era la titolare, ma soltanto suo marito, che non era tedioso quanto lei e, quando gli aveva cortesemente chiesto se poteva andare a casa prima che il temporale si intensificasse, non aveva avuto nulla da ridire.
    Aveva già percorso buona parte dei tre chilometri che separavano il bar dalla fatiscente palazzina in cui abitava insieme a suo padre e alla sua sorellina, ma le sembrava di essere ancora lontana anni luce da casa.
    “Dovrei prendere in considerazione l’idea di imparare ad andare in bicicletta con l’ombrello” si disse Yuma, anche se non era convinta che sarebbe stato molto d’aiuto: il forte vento faceva sì che l’acqua cadesse in diagonale, avrei finito per bagnarmi ugualmente.
    Più si allontanavo dal centro e più scopriva come lungo la strada non ci fosse nessuno.
    “Beh, certo, non sono così idioti da rimanersene qui a inzupparsi d’acqua” pensò, realizzando di colpo che non gliene importava niente. Non appena vide una cabina telefonica, frenò nel bel mezzo di un’enorme pozzanghera, riuscendo – grazie a un’immensa fortuna, a un aiuto divino o semplicemente alla legge del caso – a mantenere l’equilibrio. Appoggiò la bicicletta contro il muro imbrattato di volgarità di un edificio vecchio e malandato, gettò indietro il cappuccio dell’orribile giubbotto rosa che le aveva regalato suo padre e lasciò che la pioggia cadesse direttamente sui suoi lunghi capelli neri. Sentirli bagnati, sentirsi bagnata, non la disturbava affatto. Anzi, risvegliava in lei ricordi positivi, che immancabilmente le mettevano tristezza perché sapeva che nulla di tutto ciò sarebbe tornato mai più.
    Si avvicinai alla cabina telefonica, mettendosi a cercare monete dentro le tasche dei jeans. Non guardò nemmeno quanto valessero, ne infilò tre o quattro nella gettoniera e compose il numero di Michel. Preferiva chiamarlo da lì, piuttosto che da casa, non le piaceva che qualcuno ascoltasse quello che aveva da dirgli.
    Fu costretta ad aspettare parecchi squilli, poi finalmente udii la sua voce.
    «Pronto?»
    La linea era disturbata. Sperò che la sentisse.
    «Ehi, sono io.»
    «Chi parla?» chiese Michel, e le sue parole le sembrarono lontane come non mai.
    «Sono io, Yuma.»
    Michel parve sorpreso.
    «Non dovresti essere al lavoro, a quest’ora?»
    «Sono uscita da poco» gli spiegò Yuma. «Senti, Michel, non è che possiamo vederci stasera?»
    Aveva paura di sembrare invadente, accusa che, per esempio, suo padre aveva rivolto alla donna che aveva frequentato per qualche mese un anno prima, e che poi se n’era andata senza farsi più sentire – del resto, come darle torto? – con sua grande sorpresa.
    «Non posso» rispose Michel, gelido. «Senti, Yuma, ho qualche problema da risolvere, non posso spiegarti adesso. Ti richiamerò io, non appena le cose si saranno sistemate.»
    Le sembrava preoccupato, e la cosa mi sorprese parecchio: di solito Michel era allegro e spensierato, perciò il suo stato d’animo la allarmò.
    «È capitato qualcosa di grave?» gli chiese.
    La sua risposta la angosciò: «Non ancora.»
    Michel riattaccò, dopo averla salutata frettolosamente.
    Yuma si appoggiò contro la parete della cabina, con il ricevitore ancora in mano. Si perse a contemplare le gocce che ostacolavano la visuale.
    “Cazzo, le cose si stanno mettendo male.”
    Michel era il suo unico punto di riferimento, l’unico che, ne era certa, ci sarebbe stato nel suo futuro. Sapeva che, se mai avessi trovato il coraggio di raccontargli che cosa accadeva tra le stanze di casa sua, le sarebbe stato accanto... ma del resto questo era un dettaglio di dubbia importanza: mai e poi mai, ne era certa, avrei messo qualcuno al corrente del suo più grande segreto: per il bene di tutti, e in particolare per il bene di Heaven, nessuno doveva sapere.
    All’improvviso comparve una giovane donna – poteva avere trent’anni, ma anche di meno – che entrò nella cabina. Le strappò di mano la cornetta e sbraitò: «Allora, ragazzina? Hai intenzione di stare qui dentro in eterno?»
    Yuma spalancò gli occhi mentre la sconosciuta la afferrava per un braccio e, pochi istanti dopo, la scaraventava fuori.
    «Ehi, ma è impazzita?» sbottò. «Devo ancora recuperare il resto.»
    «Me ne sbatto del tuo resto» replicò l’altra. «Sparisci!»
    Probabilmente, dedusse Yuma, era solo una pazza isterica che era stata lasciata dal fidanzato e che sfogava la propria frustrazione su chiunque passasse per la sua strada.
    Si infilò nuovamente nella cabina.
    «Invece non sparisco. Devo recuperare i miei soldi.»
    La donna le scagliò un paio di monete addosso, e naturalmente Yuma le vide cadere nel bel mezzo di una delle tante pozzanghere che si erano formate sul marciapiede sconnesso.
    «Eccoli qui, ora vattene» urlò colei che si era ormai impossessata della cabina telefonica. «Sparisci e non farti più vedere.»
    Un po’ perplessa, Yuma raccattò la bicicletta e se ne andò, ma non certo perché gliel’aveva ordinato lei. Era il caso di andare a controllare che all’interno del grigio e triste appartamento in cui abitava tutto procedesse per il meglio. Non avevo motivi per credere che non fosse così, ma sapeva che di certe persone non era facile fidarsi.
    Arrivò a casa un quarto d’ora più tardi, fradicia e con un peso sul cuore. Doveva parlare con Ronnie, era l’unico che avrebbe potuto illuminarla su ciò che passava per la testa di Michel: non poteva non fidarsi di Ronnie, era una presenza silenziosa e discreta nella sua vita, così come in quella del suo ragazzo, e avrebbe potuto aiutarla a capire come doveva comportarmi.
    Lasciò la bicicletta in cortile e si diresse alla porta d’ingresso, che era accostata come al solito. Varcando la soglia si sfilò le scarpe, per non lasciare impronte bagnate nell’atrio e lungo due piani di scale. Si precipirò su, come se una voce la stesse chiamando. Prese la chiave, la infilò nella toppa e la girò. Penetrò silenziosamente nell’appartamento e, davanti ai suoi occhi, si presentò la visione più agghiacciante che avesse mai potuto immaginare.
    «No» mormorò. «No, non può essere.»
    Suo padre sobbalzò. Evidentemente non l’aveva sentita arrivare.
    «Yuma...»
    Si guardarono per un tempo che a Yuma parve infinito e comprese che il castello di menzogne che avevano costruito da quando sua madre era morta non era più qualcosa che riguardava soltanto noi due: Melvin Emerson, l’uomo che per una serie di sfortunate coincidenze era suo padre, aveva contravvenuto al loro accordo non scritto. Ne avrebbe pagato le conseguenze, anche se Yuma non aveva ancora idea di quali fossero.
    Accanto a lui, Heaven le sorrise.
    «Yuma, mi sembri... strana.»
    Yuma si sforzò di sorridere a sua volta, anche se era convinta di non esserne più capace.
    “Mi hai distrutto” avrebbe voluto dire a suo padre, “Ma dovrai passare sul mio cadavere per distruggerla come hai distrutto me!”
    Si limitò a puntualizzare, invece: «Io e te dobbiamo parlare... Dobbiamo farlo da soli e dobbiamo farlo il prima possibile.»
    Suo padre sbuffò.
    «E se non avessi tempo?»
    «Vedi di trovarlo.»
     
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