Anime di metallo

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    Il titolo può darsi che l'abbiate già visto, e in effetti avevo già provato due volte a iniziare questo aspirante romanzo... Questa volta, però, dovrebbe essere quella definitiva! :D



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    INDICE
    Thread esterno: backstage
    Pagina 1: Prologo + Cap. 1-2
    Pagina 2: Cap. 3
    Pagina 3: Cap. 4-5
    Pagina 4: Cap. 6-7
    Pagina 5: Cap. 8
    Pagina 6: Cap. 9-10
    Pagina 7: Cap. 11-12
    Pagina 8: Cap. 13-14
    Pagina 9: Cap. 15-16
    Pagina 10: Cap. 17
    Pagina 11: Cap. 18-19
    Pagina 12: Cap. 20
    Pagina 13: Cap. 21-22
    Pagina 14: Cap. 23 + inizio del cap. 24
    Pagina 15: fine del cap. 24 + Cap. 25
    Pagina 16: Cap. 26-28
    Pagina 17: Cap. 29-30
    Pagina 18: Cap. 31-32
    Pagina 19: Cap. 33 + inizio del cap. 34
    Pagina 20: fine del cap. 34 + Cap. 35
    Pagina 21: Cap. 36-38
    Pagina 22: Cap. 39-40
    Pagina 23: Cap. 41
    Pagina 24: Cap. 42-44
    Pagina 25: Cap. 45-48
    Pagina 26: Cap. 49
    Pagina 27: Cap. 50-51
    Pagina 28: Cap. 52-53
    Pagina 29: Cap. 54-55
    Pagina 30: Cap. 56-57
    Pagina 31: Cap. 59
    Pagina 32: Cap. 60
    Pagina 33: Cap. 61
    Pagina 34: Cap. 62-64
    Pagina 35: Cap. 65-66
    Pagina 36: Cap. 67 + Epilogo



    ANIME DI METALLO



    PROLOGO

    Marzo 1997

    Suo padre sussultò nel sentirla arrivare alle sue spalle, evidentemente non si era accorto di lei se non quando gli era ormai vicina.
    «Esco un attimo» lo avvertì Yuma.
    Lui la fissò con i suoi occhi sempre troppo penetranti, anche se non sapeva più essere convincente come un tempo. O forse Yuma si era rassegnata... o magari, in fondo al cuore, sperava davvero che un giorno la situazione potesse cambiare.
    «Dove vai?»
    «Vado a comprare un po’ di frutta al negozio in fondo alla strada.»
    Suo padre annuì.
    Yuma si affrettò a infilarsi un vecchio giubbotto, controllò di avere delle monete con sé e, quando ne fu sicura, senza indugiare corse verso la porta e uscì. Se avesse fatto in fretta, non avrebbe destato sospetti.
    «C’era molta gente» avrebbe detto a suo padre, «E il fruttivendolo ha passato cinque minuti buoni a chiacchierare con un cliente, nonostante il negozio fosse pieno di gente che aspettava.»
    Lui le avrebbe creduto, non sapeva che lei e Naive erano in contatto.
    Di solito era sempre lei a contattare Naive, e sempre da telefoni pubblici, in genere di sera, quando suo padre usciva per andare a giocare a biliardo. Quel giorno, però, aveva ricevuto una chiamata e, per evitare che suo padre potesse udire qualcosa, aveva fatto capire a Naive che non poteva parlare, ma che si sarebbero sentite molto presto.
    Yuma camminò quindi fino al negozio nel quale avrebbe dovuto fermarsi in seguito, poi proseguì, diretta verso la cabina telefonica poco lontana.
    Entrò, inserì le monete e compose il numero di Naive, sperando che le rispondesse subito.
    Le sue aspettative non furono deluse.
    «Yuma, sei tu?» le chiese Naive. «Sapevo che mi avresti richiamata.»
    «Scusa se ci ho messo un po’ di tempo, ma dovevo inventarmi una scusa credibile. Come mai mi hai cercata? Ci saremmo sentite domani...»
    Naive la interruppe: «Non potevo aspettare domani sera! Non ora, almeno! Heaven ha scoperto certe cose che non avrebbe dovuto venire a sapere...»
    Yuma si sentì come se il mondo le fosse crollato addosso.
    «Vuoi dire che sa dell’accordo?»
    «No, non è questo il problema» rispose Naive. «Non sa come stiano le cose tra te e vostro padre, non della parte che coinvolge anche lei almeno, ma credo che...» Si fermò di colpo. «Senti, Yuma, non possiamo parlarne per telefono.»
    «Non penso che ci siano alternative» replicò Yuma. «Dobbiamo accontentarci di quello che abbiamo.»
    «No» insisté Naive. «Dobbiamo vederci.»
    «Vederci?! Non è possibile! Heaven non può...»
    Naive la interruppe ancora una volta: «La situazione è più complicata di quanto tu possa pensare, dobbiamo trovare una soluzione... e dobbiamo trovarla prima che sia troppo tardi!»
    «Ma se io venissi da te, violerei l’accordo e Heaven potrebbe essere in pericolo. Lui potrebbe trovarla.»
    «No, non può farlo: Heaven se n’è andata, non so nemmeno io dove sia.»
    Per un attimo Yuma si sentì spiazzata.
    «Mi stai dicendo che è scomparsa? Che non hai idea di dove sia?»
    «Heaven non è scomparsa, è semplicemente andata via... e non credo che abbia tutti i torti!»
    «Ma è soltanto una ragazzina» ribatté Yuma. «Dobbiamo trovarla!»
    «È lei che sta cercando qualcosa» l’avvertì Naive. «C’entra tua madre.»
    Ancora una volta Yuma sentì il mondo crollarle addosso.
    «M-mia madre?» balbettò. «Com’è possibile?»
    «Ci sono cose che tu non hai mai saputo, Yuma. È per questo che dobbiamo vederci al più presto.»
    “È la fine.”
    Seguirono interminabili attimi di silenzio, finché Naive non si decise a parlare di nuovo: «Sei ancora in linea?»
    «Sì» mormorò Yuma. «Ci sono ancora.»
    «Devi trovare un modo per venire da me.»
    «Mio padre potrebbe trovarmi.»
    «Lui vuole te o Heaven» precisò Naive. «Finché non sappiamo dove si trova tua sorella, non potrà farle niente nemmeno lui. Per quanto sia assurdo, forse è più al sicuro lontana da me che con me.»
    Yuma sospirò.
    «Hai ragione» ammise. «È che quando mi hai detto che se n’è andata mi è sembrato tutto così complicato...»
    Si chiese se dovesse rivelare la verità a Naive.
    No, non poteva, non poteva correre il rischio che qualcuno venisse a sapere che avrebbe comunque dovuto andarsene. Stavolta la sua vita era davvero in pericolo, e si trovava nelle condizioni di non potere più prendere decisioni soltanto per se stessa.
    «Io e te, però, dovremmo vederci comunque.»
    La voce di Naive la fece tornare alla realtà.
    «Sì, forse.»
    «Potrei venire io a Black Hill» suggerì Naive.
    Quella era una soluzione, ma forse non era quella che Yuma cercava.
    «Quando?»
    «Non saprei. Il prima possibile. Per te va bene?»
    «Dipende da quand’è il prima possibile.»
    Quella risposta sembrò insospettire Naive.
    «C’è qualcosa che dovrei sapere, Yuma? Sembra che ti abbia trovata nel bel mezzo di una corsa contro il tempo.»
    Era proprio così. Certe cose non si potevano nascondere per sempre.
    «In effetti c’è un problema.»
    «Che genere di problema?»
    Si era aspettata una domanda e sapeva anche di non poter rispondere. Stavolta aveva un segreto di cui nemmeno Naive doveva essere messa a conoscenza.

    Edited by »Milù Sunshine» - 1/8/2013, 14:10
     
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  2. Ðave
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    Qualosa di grosso bolle in pentola :D

    partendo con le congetture direi che Yuma e la sua amica stanno nascondendo Heaven al padre di Yuma ma sembra sia coinvolta anche sua madre..... saranno forse sorelle ?? :huh:
     
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  3. GÆBRIEL
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    Wow! Questo primo pezzo è molto intrigante.
    La mia risposta rapida è continua e subito.
     
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    CITAZIONE (Ðave @ 18/5/2013, 23:01) 
    Qualosa di grosso bolle in pentola :D

    partendo con le congetture direi che Yuma e la sua amica stanno nascondendo Heaven al padre di Yuma ma sembra sia coinvolta anche sua madre..... saranno forse sorelle ?? :huh:

    Esatto, qualcosa di grosso bolle in pentola! :D Comunque non dico niente, anche se tra Yuma, Heaven e Naive, lo dico fin da subito, c'è un legame di parentela.

    CITAZIONE (GÆBRIEL @ 19/5/2013, 10:56) 
    Wow! Questo primo pezzo è molto intrigante.
    La mia risposta rapida è continua e subito.

    Sono felice che ti sia piaciuto.
    Oggi stesso dovrebbe arrivare il primo capitolo, che in realtà è già scritto da un bel po' di tempo, ma che devo finire di ritoccare. ^^


    Grazie a entrambi per i commenti. *-*
     
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    Iniziamo con la prima parte del romanzo e in particolare con il primo capitolo (anche se al momento non è intero).
    Mi raccomando, se trovate delle eresie avvertitemi! :woot:



    PARTE PRIMA: FIAMME NEL BUIO

    19 Settembre - 2 Ottobre 1989

    Capitolo 1.
    L’orologio che Ronnie portava al polso segnava le sedici e trentacinque. Questo gli dava un’indicazione univoca e tangibile di cosa sarebbe accaduto nel suo prossimo futuro: avrebbe trascorso altri cinquantacinque minuti alla scrivania, un tempo sufficientemente breve per non provocargli attacchi di panico ma allo stesso tempo abbastanza lungo per portare a termine il lavoro che stava svolgendo.
    Oltre a quella semplice realtà non c’era null’altro che importasse: Ronnie abitava a Black Hill, una cittadina triste e spenta lontana dalla città in cui era cresciuto e in cui aveva vissuto fino all’età di ventitré anni; lontana, ma non abbastanza da permettergli di dimenticare anche per un solo istante tutto il suo passato. Era ormai convinto che un luogo valesse l’altro, i fatti spiacevoli dai quali aveva cercato, forse invano, di allontanarsi avrebbero continuato a seguirlo come un’ombra per tutto il resto della sua vita.
    Lanciò un’occhiata fugace alla finestra: la luce del sole si era affievolita e, dal momento che era ancora presto per il tramonto, gli parve un chiaro segnale che il bel tempo che sembrava indiscutibile fino a un paio d’ore prima non era più così tanto assicurato.
    Proprio in quel momento dal corridoio udì l’inconfondibile passo di chi indossava tacchi alti. Con sua sorpresa, invece di passare oltre, la segretaria del titolare si affacciò alla porta del suo ufficio, con un sorriso smagliante sul volto.
    «Signorina Spencer!» esclamò, fingendo una certa sorpresa, come se non avesse sentito la sua camminata da bisonte su un paio di trampoli in avvicinamento. «Signorina Spencer, che cosa posso fare per lei?»
    «Il capo se n’è già andato a casa» lo informò, senza che Ronnie glielo avesse chiesto e senza preoccuparsi di rispondere alla sua semplice e banale domanda. «Mi ha spiegato che aveva qualcosa di importante da fare.»
    «E quindi?»
    La segretaria si avvicinò sorridendo.
    «Credo che sia il caso di fare quattro chiacchiere.»
    Ronnie si accorse che Patricia Spencer lo stava mangiando con gli occhi. Possibile che quello che tutti ripetevano da un paio d’anni fosse vero? Quando Ronnie l’aveva conosciuta, Patricia era un’estrosa trentasettenne piena di vita, con il sogno non troppo segreto di infilarsi un anello al dito entro il momento in cui avrebbe completato il suo quarto decennio di vita. Adesso, ventitré mesi più tardi, quando alla data fatidica mancava appena un anno, le sue intenzioni iniziavano a farsi più chiare: nonostante i loro quattordici anni di differenza, Ronnie era diventato il suo obiettivo.
    «Sto lavorando» si affrettò a rispondere, cercando di non sembrarle troppo brusco. Non aveva certo intenzione di farle pensare che, se continuava a sfuggirle, fosse per ipotetiche arie di superiorità.
    «Anch’io stavo lavorando» obiettò Patricia. «Il problema è che stavo iniziando a sentirmi sola e ho pensato che sarebbe stato carino venire a salutarti...»
    La donna si sedette sul bordo della scrivania, mentre Ronnie cercava una via di fuga. Sapeva che Patricia Spencer era una donna che lo desiderava, ma non gli sembrava una motivazione soddisfacente per sbottonare la candida camicia di seta che indossava.
    Si alzò in piedi e si avviò lentamente verso la finestra.
    Scrutò il cielo e, notando un evidente strato di grigio, osservò: «Sembra che stia per venire a piovere.»
    Patricia sbuffò.
    «È possibile che tu non abbia niente di meglio a cui pensare?»
    Ronnie udì i tacchi della segretaria ticchettare, segno che si stava avvicinando. Un attimo più tardi gli fu accanto.
    «Soltanto le vecchie zitelle trascorrono il loro tempo a parlare di sole e di pioggia.»
    “Se avremo la fortuna di conservare questo lavoro per altri trent’anni, allora” non poté fare a meno di pensare Ronnie, “Allora mi parlerà di questo.»
    «Ehi» lo esortò Patricia, probabilmente infastidita dal suo silenzio, «Perché non dici più nulla, Ron?»
    Ron.
    Ronnie sentì il sangue che gli si gelava nelle vene. Patricia Spencer l’aveva chiamato Ron... ed era la seconda persona che si rivolgeva a lui chiamandolo a quel modo.
    Non poté fare a meno di tremare quando sentì la mano sinistra di Patricia posarsi sulla sua spalla destra e in un istante si ritrovò a contemplare le iridi azzurre della donna che lo guardavano fisso. Fino a quel momento non si era mai accorto di quanto fossero belli gli occhi di Patricia – che seppure un po’ troppo bassa e un po’ troppo in carne era una donna piuttosto piacente – e quanto questi potessero rivelarsi ipnotici.
    «Sei teso, Ron» mormorò la donna.
    «Credo che sia un’impressone» mentì Ronnie.
    Patricia scosse la testa.
    «No, Ron, non è solo un’impressione.»
    Ronnie sospirò. Patricia Spencer era convinta di conoscere perfettamente il suo stato d’animo, e già questo bastava a infastidirlo, ma quanto tempo sarebbe passato prima che tentasse addirittura a ricostruire la storia della sua vita, per determinare che cosa l’avesse portato a Black Hill?
    «Sarà come dice lei» concesse Ronnie, con poca convinzione. «Ora, però, signorina Spencer, le sarei grato se mi lasciasse terminare quello che ho iniziato e che conto di finire prima delle diciassette e trenta.»
    Patricia annuì.
    «Come vuoi, Ronald.»
    Si allontanò, con i suoi trampoli di dieci centimetri che rimbombavano sul parquet. Finalmente era di nuovo solo.
    Prima di tornare alla scrivania si trattenne qualche istante alla finestra. Stavano iniziando a cadere le prime gocce e, lungo la strada, persone senza ombrello acceleravano il passo, in vista del temporale in arrivo, preannunciato da un lampo che squarciò il cielo e lo abbagliò al punto tale che non poté fare a meno di chiudere gli occhi.
    Quando li riaprì notò una bicicletta che passava a velocità piuttosto elevata. A bordo vi era una ragazza, Ronnie fece in tempo a vedere jeans attillati e un giubbotto rosa: teneva il cappuccio in testa, ma da esso sporgevano lunghi capelli neri. Sparì dopo pochi secondi svoltando in un incrocio, lasciandogli addosso una sensazione di familiarità.
    Ronnie tornò a sedersi e cercò di concentrarsi sul lavoro che doveva portare a termine. Fu più complicato del previsto, ma alle diciassette e venticinque realizzò di avere finalmente raggiunto il proprio obiettivo. Si alzò in piedi e tornò alla finestra. Come lasciavano intuire i tuoi che facevano tremare i vetri il temporale non si era calmato ma, anzi, si era fatto più intenso.
    “Come sarebbe se oggi la mia vita cambiasse definitivamente?” si chiese a quel punto, realizzando immediatamente quanto quel dubbio fosse assurdo. “Sono un idiota, è una domanda senza senso.”
    Raccattò le proprie cose: la sua giornata di lavoro era terminata. Non gli restava che andare a salutare Patricia Spencer, sperando che non si rivolgesse a lui chiamandolo Ron. Era sicuro che, se l’avesse fatto, gli si sarebbe gelato il sangue nelle vene ancora una volta.

    Edited by »Milù Sunshine» - 6/7/2013, 22:36
     
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    Parte conclusiva del capitolo 1.



    Il parcheggio in cui ogni giorno lasciava la macchina era vicino, non più di cento metri. Si affrettò, non avendo l’ombrello, a raggiungere l’auto, sulla quale immediatamente salì.
    Dopo la fine dell’orario lavorativo Patricia Spencer aveva cercato di farsi avanti più esplicitamente, ma Ronnie aveva abilmente sviato l’argomento, inventandomi un fantomatico impegno che gli impediva di rimanere a parlare con lei anche soltanto per qualche minuto. Gli dispiaceva per Patricia, ma non avendo alcuna intenzione di impegnarsi in una relazione con una donna ormai sulla soglia dei quarant’anni, preferiva evitare che questa si facesse illusioni. Non era prevenuto nei confronti di chi aveva diversi anni in più di lui, ma il desiderio che animava l’esistenza di Patricia era quello di sposarsi e di avere un figlio, e lui non progettavo nulla di tutto ciò nell’immediato. Si sentiva a malapena in grado di badare a me stesso, figurarsi se si sentiva pronto per mettere su famiglia.
    Guardò il parabrezza sul quale la pioggia si riversava, ripensando alla ragazza dal giubbotto rosa che aveva intravisto dalla finestra. Gli era sembrata una figura familiare, ma probabilmente si trattava soltanto di suggestione: anche Kelly, di tanto in tanto, portava indumenti di quel colore. “E non le stavano nemmeno tanto bene, nonostante lei ne fosse convinta.”
    Ronnie si sforzò di lasciare da parte quel pensiero: il ricordo di Kelly gli faceva tutt’altro che bene. Cercò quindi di convincere la sua mente a dedicarsi ad altro. Avviò il motore della sua Ford Escort, si allacciò la cintura di sicurezza, attivò il tergicristallo e si allontanò dal parcheggio: era molto meglio andare subito a casa, piuttosto che rimanere lì, potenzialmente esposto allo sguardo di Patricia Spencer, che presto sarebbe uscita e si sarebbe accorta che le aveva mentito. Mortificare una donna che si era fatta per qualche ragione delle fantasie su un loro futuro insieme non era certo suo più grande desiderio.
    Dopo un quarto d’ora trascorso alle prese con il traffico urbano, imboccò il vicolo che conduceva al palazzo in cui abitava. Mentre scendevo dall’auto notò una tenda che si scostava, nel soggiorno. Evidentemente Michel era a casa e questo lo sorprendeva: il suo coinquilino non aveva orari.
    Michel Sallivan aveva ventiquattro anni e non era esattamente il genere di ragazzo che la madre di Ronnie madre avrebbe approvato. Figlio di genitori ricchi e all’antica era predestinato fin dalla nascita a divenire l’erede dell’impero imprenditoriale del padre, che naturalmente l’aveva presa malissimo quando aveva scoperto che Michel aveva altri progetti per il futuro. L’aveva messo alle strette e, convinto della sua decisione, Michel se n’era andato di casa, cosa di cui forse si sarebbe pentito di lì a un paio di decenni. Il signor Sallivan, allora, aveva optato per il male minore: ingaggiare come sua principale collaboratrice Marlene, la sorella maggiore di Michel, nonostante avesse passato anni a ripetere che l’unica ragione per cui esistevano le donne era quella di essere brave mogli e brave madri, che rimanevano al di fuori di un mondo imprenditoriale fatto di soli uomini. Di fatto era stata una buona scelta: Marlene Sallivan al matrimonio non ci pensava nemmeno, ma in quanto a professionalità non la batteva nessuno. Tra i suoi familiari, era l’unica con la quale Michel era ancora in contatto. Da quando si era trasferito a Black Hill i suoi genitori l’avevano praticamente cancellato dalla loro esistenza e l’impressione che Ronnie aveva era che a lui stesse bene così. Condividevano da oltre un anno un appartamento in un palazzo neanche troppo vecchio, alla periferia della cittadina, e Ronnie non sapeva con esattezza che professione svolgesse. Una volta, timidamente, gli aveva chiesto se ciò di cui si occupava era legale e, quando gli aveva assicurato che era così, si ero messo il cuore in pace.
    Ronnie immaginava sua madre mentre commentava: «Un bravo ragazzo come te non dovrebbe abitare in casa insieme a un tipo del genere.»
    Erano le parole che, con tutta probabilità, avrebbe potuto pronunciare se avesse avuto modo di conoscere Michel. Dal momento che Ronnie non sarebbe mai stato in grado di replicare che i bravi ragazzi non andavano a letto con ragazze già fidanzate, che soccorrevano le donne in difficoltà e che non guidavano ubriachi, e che qualsiasi altra risposta gli sarebbe sembrata falsa e ipocrita, si riteneva fortunato: era molto improbabile che sua madre potesse conoscere Michel, prima o poi, quindi quella situazione non si sarebbe mai presentata.
    Si infilò nell’atrio e salì le scale in fretta, scacciando tutti i pensieri più assurdi. Per qualche oscura ragione gli era tornato in mente quello che si ero chiesto nel corso del pomeriggio, a proposito dell’ipotesi in cui la sua vita potesse cambiare radicalmente quel giorno stesso. Era stata una considerazione insensata, lontana dall’avere anche soltanto un minimo di senso logico.
    Giunse ben presto al terzo piano, dove abitavo. Prese fuori le chiavi, che teneva in tasca, e aprì la porta. Entrò e mi diresse subito in cucina, dove prese un bicchiere e lo riempì sotto al rubinetto del lavello.
    Stava per portarlo alla bocca quando una voce alle sue spalle lo fece sobbalzare.
    «Ehi, Ronnie.»
    Si girò di scatto, rischiando di rovesciare l’acqua.
    «Fai attenzione!» sbottò Michel.
    «Come mai sei a casa?» gli domandò Ronnie. «Pensavo che fossi impegnato per lavoro oggi pomeriggio.»
    «Ci sono stati dei problemi» rispose Michel, senza scendere nel dettaglio – non che Ronnie si aspettasse che lo facesse. «Piuttosto, ha telefonato tua madre.»
    «M-mia madre?» balbettò Ronnie.
    Quella sì che era una sorpresa.
    «Che c’è di strano?» replicò Michel. «A proposito, mi ha detto di farti gli auguri. Non sapevo che oggi fosse il tuo compleanno.»
    Ronnie annuì.
    «Non mi aspettavo che mia madre telefonasse.»
    Dal punto di vista della sua coscienza sarebbe stato molto meglio se non l’avesse fatto: adesso si sarebbe sentito in colpa se non l’avesse richiamata... e dentro di sé era già sicuro che non l’avrebbe fatto.
    «Avresti potuto dirmi che oggi compi venticinque anni» protestò Michel. «Non me lo aspettavo da te.»
    Ronnie spalancò gli occhi. Possibile che si lamentasse per un motivo del genere?
    «Non festeggio il mio compleanno» gli spiegò. «Anzi, proprio non festeggio niente. Nella mia vita non c’è nulla che valga la pena di essere celebrato.»
    Michel gli lanciò un’occhiata carica di ammirazione.
    «Beato te che almeno hai il buon senso di ammetterlo!»
    Ronnie sospirò.
    «Credo che sarebbe molto meglio non rendersene conto.»
    «Tu dici?» Michel scosse la testa. «Mhm... no, io non credo.»
    Ronnie avrebbe voluto chiedergli se si riferisse a se stesso, ma sapeva che Michel non avrebbe mai ammesso un proprio eventuale fallimento.
    Decise quindi di passare a un altro argomento, sperando – senza troppe probabilità di successo, questo lo sapeva – di non ritrovarsi davanti un muro.
    «Dicevi che avevi dei problemi al lavoro?»
    Michel strabuzzò gli occhi.
    «Problemi al lavoro?» ripeté, senza capire.
    Ronnie gli fece notare: «Mi hai detto di essere a casa per questo.»
    «Tutto sommato sono problemi che hanno a che vedere con il lavoro, ma che non riguardano strettamente il lavoro in sé» fu la sibillina risposta di Michel.
    Ronnie si trattenni dal chiedergli che professione svolgesse, anche se il dubbio aveva iniziato a farsi più intenso.
    «A questo proposito, stasera devo partire» gli comunicò Michel, con lo stesso tono indifferente con cui gli avrebbe detto che andava dal tabaccaio in fondo alla strada a comprare le sigarette.
    «Partire?» ripeté Ronnie. «E per dove?»
    «Devo andare a Dark River.»
    Questo era sorprendente.
    «Dark River... cioè la città in cui sei nato?»
    Michel annuì.
    «Conosci altre Dark River?»
    «Beh, no... Ma il fatto che tu vada proprio lì c’entra qualcosa con la tua professione?»
    «Per quanto possa sembrarti strano sì» rispose Michel. «Del resto non torno certo a Dark River per andare a trovare mio padre, no?»
    «No, immagino di no.»
    «Infatti è proprio così.»
    Andò alla finestra e guardò al di fuori.
    «Diluvia ancora» osservò, contrariato.
    Ronnie non rispose e finalmente bevve il bicchiere d’acqua che teneva in mano ormai da qualche minuto.
    All’improvviso Michel si girò verso di lui.
    «Ah, senti, Ronnie, dovresti farmi un piccolo favore.»
    Ronnie lo fissò.
    «Di cosa si tratta?»
    «Di Yuma: se ti chiede dove sono andato, tu dille che non lo sai.»
     
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  7. GÆBRIEL
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    Ok, senti... non puoi lasciarmi così... quindi vedi di continuare perché è davvero fantastico!
    Mi piace, mi piace e ancora mi piace!

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    Sono felice che ti piaccia. ^^ Comunque aggiornerò prestissimo! :D
     
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  9. GÆBRIEL
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    CITAZIONE (»Milù Sunshine» @ 21/5/2013, 23:15) 
    Sono felice che ti piaccia. ^^ Comunque aggiornerò prestissimo! :D

    Oh bene! Mi fai felice! :D
     
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    A grande richiesta ecco la prima parte del capitolo 2.



    Capitolo 2.
    Yuma pedalava alla maggiore velocità possibile, nonostante la scivolosità dell’asfalto. Quando era uscita dal bar pioveva moderatamente, mentre adesso diluviava. Fortunatamente non c’era la titolare, ma soltanto suo marito, che non era tedioso quanto lei e, quando gli aveva cortesemente chiesto se poteva andare a casa prima che il temporale si intensificasse, non aveva avuto nulla da ridire.
    Aveva già percorso buona parte dei tre chilometri che separavano il bar dalla fatiscente palazzina in cui abitava insieme a suo padre e alla sua sorellina, ma le sembrava di essere ancora lontana anni luce da casa.
    “Dovrei prendere in considerazione l’idea di imparare ad andare in bicicletta con l’ombrello” si disse Yuma, anche se non era convinta che sarebbe stato molto d’aiuto: il forte vento faceva sì che l’acqua cadesse in diagonale, avrei finito per bagnarmi ugualmente.
    Più si allontanavo dal centro e più scopriva come lungo la strada non ci fosse nessuno.
    “Beh, certo, non sono così idioti da rimanersene qui a inzupparsi d’acqua” pensò, realizzando di colpo che non gliene importava niente. Non appena vide una cabina telefonica, frenò nel bel mezzo di un’enorme pozzanghera, riuscendo – grazie a un’immensa fortuna, a un aiuto divino o semplicemente alla legge del caso – a mantenere l’equilibrio. Appoggiò la bicicletta contro il muro imbrattato di volgarità di un edificio vecchio e malandato, gettò indietro il cappuccio dell’orribile giubbotto rosa che le aveva regalato suo padre e lasciò che la pioggia cadesse direttamente sui suoi lunghi capelli neri. Sentirli bagnati, sentirsi bagnata, non la disturbava affatto. Anzi, risvegliava in lei ricordi positivi, che immancabilmente le mettevano tristezza perché sapeva che nulla di tutto ciò sarebbe tornato mai più.
    Si avvicinai alla cabina telefonica, mettendosi a cercare monete dentro le tasche dei jeans. Non guardò nemmeno quanto valessero, ne infilò tre o quattro nella gettoniera e compose il numero di Michel. Preferiva chiamarlo da lì, piuttosto che da casa, non le piaceva che qualcuno ascoltasse quello che aveva da dirgli.
    Fu costretta ad aspettare parecchi squilli, poi finalmente udii la sua voce.
    «Pronto?»
    La linea era disturbata. Sperò che la sentisse.
    «Ehi, sono io.»
    «Chi parla?» chiese Michel, e le sue parole le sembrarono lontane come non mai.
    «Sono io, Yuma.»
    Michel parve sorpreso.
    «Non dovresti essere al lavoro, a quest’ora?»
    «Sono uscita da poco» gli spiegò Yuma. «Senti, Michel, non è che possiamo vederci stasera?»
    Aveva paura di sembrare invadente, accusa che, per esempio, suo padre aveva rivolto alla donna che aveva frequentato per qualche mese un anno prima, e che poi se n’era andata senza farsi più sentire – del resto, come darle torto? – con sua grande sorpresa.
    «Non posso» rispose Michel, gelido. «Senti, Yuma, ho qualche problema da risolvere, non posso spiegarti adesso. Ti richiamerò io, non appena le cose si saranno sistemate.»
    Le sembrava preoccupato, e la cosa mi sorprese parecchio: di solito Michel era allegro e spensierato, perciò il suo stato d’animo la allarmò.
    «È capitato qualcosa di grave?» gli chiese.
    La sua risposta la angosciò: «Non ancora.»
    Michel riattaccò, dopo averla salutata frettolosamente.
    Yuma si appoggiò contro la parete della cabina, con il ricevitore ancora in mano. Si perse a contemplare le gocce che ostacolavano la visuale.
    “Cazzo, le cose si stanno mettendo male.”
    Michel era il suo unico punto di riferimento, l’unico che, ne era certa, ci sarebbe stato nel suo futuro. Sapeva che, se mai avessi trovato il coraggio di raccontargli che cosa accadeva tra le stanze di casa sua, le sarebbe stato accanto... ma del resto questo era un dettaglio di dubbia importanza: mai e poi mai, ne era certa, avrei messo qualcuno al corrente del suo più grande segreto: per il bene di tutti, e in particolare per il bene di Heaven, nessuno doveva sapere.
    All’improvviso comparve una giovane donna – poteva avere trent’anni, ma anche di meno – che entrò nella cabina. Le strappò di mano la cornetta e sbraitò: «Allora, ragazzina? Hai intenzione di stare qui dentro in eterno?»
    Yuma spalancò gli occhi mentre la sconosciuta la afferrava per un braccio e, pochi istanti dopo, la scaraventava fuori.
    «Ehi, ma è impazzita?» sbottò. «Devo ancora recuperare il resto.»
    «Me ne sbatto del tuo resto» replicò l’altra. «Sparisci!»
    Probabilmente, dedusse Yuma, era solo una pazza isterica che era stata lasciata dal fidanzato e che sfogava la propria frustrazione su chiunque passasse per la sua strada.
    Si infilò nuovamente nella cabina.
    «Invece non sparisco. Devo recuperare i miei soldi.»
    La donna le scagliò un paio di monete addosso, e naturalmente Yuma le vide cadere nel bel mezzo di una delle tante pozzanghere che si erano formate sul marciapiede sconnesso.
    «Eccoli qui, ora vattene» urlò colei che si era ormai impossessata della cabina telefonica. «Sparisci e non farti più vedere.»
    Un po’ perplessa, Yuma raccattò la bicicletta e se ne andò, ma non certo perché gliel’aveva ordinato lei. Era il caso di andare a controllare che all’interno del grigio e triste appartamento in cui abitava tutto procedesse per il meglio. Non avevo motivi per credere che non fosse così, ma sapeva che di certe persone non era facile fidarsi.
    Arrivò a casa un quarto d’ora più tardi, fradicia e con un peso sul cuore. Doveva parlare con Ronnie, era l’unico che avrebbe potuto illuminarla su ciò che passava per la testa di Michel: non poteva non fidarsi di Ronnie, era una presenza silenziosa e discreta nella sua vita, così come in quella del suo ragazzo, e avrebbe potuto aiutarla a capire come doveva comportarmi.
    Lasciò la bicicletta in cortile e si diresse alla porta d’ingresso, che era accostata come al solito. Varcando la soglia si sfilò le scarpe, per non lasciare impronte bagnate nell’atrio e lungo due piani di scale. Si precipirò su, come se una voce la stesse chiamando. Prese la chiave, la infilò nella toppa e la girò. Penetrò silenziosamente nell’appartamento e, davanti ai suoi occhi, si presentò la visione più agghiacciante che avesse mai potuto immaginare.
    «No» mormorò. «No, non può essere.»
    Suo padre sobbalzò. Evidentemente non l’aveva sentita arrivare.
    «Yuma...»
    Si guardarono per un tempo che a Yuma parve infinito e comprese che il castello di menzogne che avevano costruito da quando sua madre era morta non era più qualcosa che riguardava soltanto noi due: Melvin Emerson, l’uomo che per una serie di sfortunate coincidenze era suo padre, aveva contravvenuto al loro accordo non scritto. Ne avrebbe pagato le conseguenze, anche se Yuma non aveva ancora idea di quali fossero.
    Accanto a lui, Heaven le sorrise.
    «Yuma, mi sembri... strana.»
    Yuma si sforzò di sorridere a sua volta, anche se era convinta di non esserne più capace.
    “Mi hai distrutto” avrebbe voluto dire a suo padre, “Ma dovrai passare sul mio cadavere per distruggerla come hai distrutto me!”
    Si limitò a puntualizzare, invece: «Io e te dobbiamo parlare... Dobbiamo farlo da soli e dobbiamo farlo il prima possibile.»
    Suo padre sbuffò.
    «E se non avessi tempo?»
    «Vedi di trovarlo.»
     
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  11. GÆBRIEL
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    Questo romanzo si fa moooolto interessante! Quando continuiiiii?

    Ho una cosa da puntualizzare: c'è qualche errore di battitura nel corso della lettura, niente di particolare però... ^^

    ps: Ti dico già che amo Ronnie! Non chiedermi il perchè...

    A quando il backstage? *-*
     
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    La mia mania di rileggere troppo poco colpisce ancora! :D
    Sono felice che ti stia piacendo, tra poco posterò la conclusione del secondo capitolo... e credo che molto presto arriverà anche il backstage! :woot:

    Ronnie... beh, Ronnie è Ronnie! :wub:
     
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    Parte conclusiva del capitolo 2.



    In circostanze normali non avrebbe nutrito troppe speranze, ma quel giorno le cose sarebbero andate diversamente.
    Un paio d’ore più tardi Melvin Emerson era seduto al tavolo della cucina, stava fumando una sigaretta e fingeva di leggere il giornale, in attesa che arrivasse l’ora in cui sarebbe uscito di casa.
    Yuma entrò nella stanza e lo fissò duramente.
    Suo padre alzò gli occhi, prima di chiederle distrattamente: «Dov’è tua sorella?»
    «Nella sua stanza» rispose Yuma. «Sta finendo i compiti.»
    «Dopo cena?» sbottò lui. «Per quale motivo non glieli hai fatti fare oggi pomeriggio?»
    «Qualora tu te ne sia dimenticato, ero al lavoro. Piuttosto avresti potuto aiutarla tu, quando sei rientrato.»
    Suo padre la guardò schifato.
    «Ma è roba da donne.»
    Yuma prese una sedia e si accomodò davanti a lui.
    «Oh, giusto, per te sarebbe stato troppo infamante.»
    Melvin la squadrò, sbuffando.
    «Mi stai prendendo in giro, Yuma?»
    «Non ho tempo da perdere a prendere in giro qualcuno. Io e te abbiamo un discorso importante da fare.» Allungò una mano verso il pacchetto di sigarette di suo padre, sul tavolo, ne prese una e l’accese con il suo accendino rosso. «Spero che almeno tu abbia la decenza di non chiedermi di che cosa si tratta, dal momento che lo sai benissimo.»
    Suo padre fece il possibile per evitare l’argomento.
    «Hai idea di che cosa direbbe tua madre se ti vedesse in questo momento?» le chiese invece. «Lei detestava il fumo.»
    «E tu hai idea di che cosa direbbe se sapesse tutto quello che hai fatto in questi anni?» urlò Yuma. «Hai idea di che cosa direbbe se potesse vedere quello che stavi facendo oggi, quando sono tornata?»
    «Abbassa la voce» le ordinò suo padre. «Non stavo facendo niente di male, oggi. Io non ho mai fatto niente di male. Voglio solo riavere Margot.»
    Yuma si costrinse a calmarsi, prima di replicare.
    «Cercandola dove non puoi trovarla?»
    «Margot è ovunque» decretò Melvin Emerson, recitando come al solito la parte del marito distrutto, cosa che portava Yuma a disprezzare ancora di più l’idea di essere sua figlia. «Soprattutto dentro di te, soprattutto dentro tua sorella.»
    «Lascia fuori Heaven» lo pregò Yuma. «Avevamo un accordo, se non ricordo male.»
    Lo vide annuire.
    «Ricordi bene» concordò. «Solo che, me ne sono reso conto, non posso più rispettarlo. Ho bisogno anche di Heaven, prima lo accetti e meglio è. Ora però, spegni quella sigaretta. Non sopporto l’idea di avere una figlia che fuma.»
    Yuma detestava il suo modo di sviare dal loro argomento di conversazione. L’unica verità era che a suo padre non importava niente di quello che faceva lei, a condizione che non intaccasse il loro accordo non scritto, che persisteva fin da quando sua madre era morta. Yuma aveva accettato, come una maledizione, e quello che la infastidiva più di ogni altra cosa era che, mentre lei aveva sempre rispettato il loro patto, adesso suo padre stava iniziando a violarne le condizioni.
    Accennò un sorriso falso.
    «Che c’è? Ti stai mettendo in testa l’idea di iniziare a comportarti da padre, con me?»
    Suo padre la guardò.
    «Ti dispiacerebbe?»
    «L’hai sempre fatto solo con Heaven» gli ricordai.
    Melvin Emerson annuì.
    «Appunto.»
    Yuma aspirò una boccata di fumo.
    «Che cosa vuoi dire?»
    Suo padre la fissò con decisione.
    «Ti sto chiedendo uno scambio equo.»
    Yuma spalancò gli occhi.
    «Uno... scambio equo?»
    «Mi sembra la soluzione migliore» puntualizzò lui. «Sai, mi sono giunte certe voci...»
    «Voci di che tipo?»
    «Rachel, la mia amica, quella che gioca a biliardo, mi ha raccontato di averti vista salire in macchina con un tipo dai capelli biondi.»
    «Quella Rachel, chiunque sia, ha mai pensato di farsi un po’ di cavoli suoi?» obiettò Yuma. «Che cosa le importa di quello che faccio?»
    «Vi ha visti mentre vi baciavate» aggiunse suo padre. «Puoi negarlo?»
    «Credo di essere grande abbastanza per baciare un ragazzo.»
    «Certo» convenne suo padre, «Ed è proprio questo il punto: tu sei libera di fare quello che ti pare, puoi anche andarci a vivere insieme... a una condizione.»
    Yuma rabbrividì.
    «Qualcosa mi fa pensare che non mi piacerà quello che stai per propormi.» Appoggiò la sigaretta sul vecchio posacenere di ceramica. «È qualcosa che riguarda mia sorella?»
    Suo padre annuì, mentre le proponeva: «Tu sei libera, ma Heaven resta qui con me e fa quello che hai fatto tu in tutti questi anni.»
    Yuma scattò in piedi.
    «Tu sei pazzo! Heav ha solo undici anni!»
    «Se quanto è morta tua madre tu avessi avuto undici anni anziché quindici, per me sarebbe stato uguale.» Abbassò lo sguardo sul giornale. «Hai visto, Yuma? Per la primavera del 1990 sono previsti...»
    Yuma lo interruppe, strappandogli di mano il giornale e gettandolo a terra: «Non m’importa nulla di quello che accadrà nella primavera del ’90, di qualunque cosa si tratti. L’unica cosa che conta è che lasci in pace mia sorella!»
    «Lo sapevo» borbottò suo. «Anche tua madre era così altruista.»
    Yuma spalancò gli occhi.
    «Altruista?»
    Melvin ridacchiò.
    «Sì, e tu sei come lei. Ti ho lasciato la possibilità di andartene per la tua strada, finalmente libera dal tuo vincolo, eppure tu fai finta di niente e continui a preoccuparti di tua sorella anziché di se stessa. In quanti, al tuo posto, agirebbero allo stesso modo?»
    «Da quando la mamma ci ha lasciati, ho giurato a me stessa che non avrei mai permesso che Heaven soffrisse.»
    Suo padre sorriso.
    «Chi ha mai detto che voglio farla soffrire? Dopotutto questi anni ti sono piaciuti, no?»
    Si alzò e le si avvicinò. «Ti sono piaciuti, vero, Yuma? Solo che non puoi ammetterlo.»
    Yuma indietreggiò.
    «Non ti permetterò mai di fare a Heaven quello che hai fatto a me.»
    «E se a Heaven piacesse? Se Heaven lo volesse?»
    Per l’ennesima volta Yuma si chiese perché quella sera di tanti anni prima mia madre avesse deciso di uscire per andare a consegnare a chissà chi una busta piena di soldi e avesse finito la propria esistenza terrena in un lago di sangue sull’asfalto grigio e cupo di una via di periferia. Se ci fosse stata lei, si sarebbe accorta dell’evidente stato di pazzia di Melvin. Avrebbe portato via lei e sua sorella già da tanto tempo, avrebbe impedito a quell’uomo malato di fare del male a entrambe.
    «Heaven è una bambina!» puntualizzò Yuma «Se solo provi ad avvicinarti a lei...»
    Suo padre la interruppe: «Non dire cose di cui potresti pentirti, Yuma. Quel ragazzo dai capelli biondi, Rachel lo conosce.»
    Yuma strabuzzai gli occhi.
    «R-Rachel conosce...»
    S’interruppe di scatto.
    «Si chiama Michel Sallivan» riprese suo padre. «Ha genitori ricchi, ma non ha più contatti con loro. Rachel sa quanto spesso vi vedete. Vuoi che gli accada qualcosa di brutto?»
    Yuma fu scossa da un fremito.
    «Che c’entra Michel?»
    «Non c’entra niente» ammise suo padre, «Ma sono certo che preferiresti passare il resto della tua vita con lui, piuttosto che rimanere qui e sapere che se continui a vederlo potrebbe succedergli qualcosa di terribile. Tu non capisci cosa ti sto offrendo: la possibilità di vivere una vita normale, quelle che tutte le ragazze sognano. È chiaro che c’è un prezzo da pagare, ma per te è bassissimo.»
    «Io non voglio che il prezzo della mia vita normale sia pagato da una bambina innocente.»
    Suo padre alzò le spalle.
    «Come vuoi. Ora devo andare, Yuma. Ho molto da fare, non so quanto tornerò. Vai pure a letto senza aspettarmi, ne riparliamo domani.»
    Si infilò il giubbotto, prese le chiavi della macchina e si avviò verso la porta. Yuma udì suoi passi lungo le scale, poi si affacciò alla finestra e lo vide in cortile. Salì sull’auto e se ne andò.
    Yuma sussultò quando udì un rumore indistinto accanto a lei.
    Si girò.
    «He-heaven... mi hai fatta spaventare.»
    Teneva un quaderno in mano.
    «Non ho capito una cosa di geometria» le disse. «Puoi aiutarmi?»
    Yuma la fissò, senza riuscire a distogliere lo sguardo dai suoi occhi a mandorla, come quelli della loro madre, e dai suoi capelli biondo rame, com’erano stati un tempo quelli di Melvin.
    «Yuma? Tutto bene, Yuma?»
    Yuma scosse la testa.
    «No, non va tutto bene.»
    Prese il quaderno, lo chiuse e lo appoggiò sul tavolo.
    «La geometria più aspettare.»
    «Ma sono i compiti per domani.»
    Yuma la guardò dritto negli occhi.
    «Heaven, ce ne dobbiamo andare e dobbiamo farlo prima che papà torni a casa. Non permetterò che accada mai più quello che è accaduto oggi.»
    Heaven non capì.
    «Oggi?»
    Yuma sentì una lacrima che le scorreva sulla guancia sinistra. Heaven aveva soltanto undici anni. Lei era più grande, quando era capitato a lei, ma all’inizio stava rifiutando di crederci. A sua sorella stava succedendo la stessa cosa.
     
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  14. GÆBRIEL
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    CITAZIONE (»Milù Sunshine» @ 22/5/2013, 12:28)
    La mia mania di rileggere troppo poco colpisce ancora! :D
    Sono felice che ti stia piacendo, tra poco posterò la conclusione del secondo capitolo... e credo che molto presto arriverà anche il backstage! :woot:

    Ronnie... beh, Ronnie è Ronnie! :wub:

    :xD: Sei praticamente il mio contrario... io rileggo in continuazione, anche se gli errori li faccio comunque! :muro:

    Non vedo l'ora di vederlo questo backstage! Sarà interessante scoprire il retroscena di questo romanzo promettente!

    Ronnie... già :wub:

    CITAZIONE (»Milù Sunshine» @ 22/5/2013, 12:44) 
    Parte conclusiva del capitolo 2.

    :woot: Leggo!!!!
     
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  15. GÆBRIEL
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    :perplex: Questa faccenda si fa sempre più interessante...

    Ovviamente aspetto il continuo che spero sarà prestissimo! ^_^

    Quando ricompare Ronnie? :wub:
     
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587 replies since 18/5/2013, 16:33   3088 views
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