Anime di metallo

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  1. Milly Sunshine
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    Parte conclusiva del capitolo 1.



    Il parcheggio in cui ogni giorno lasciava la macchina era vicino, non più di cento metri. Si affrettò, non avendo l’ombrello, a raggiungere l’auto, sulla quale immediatamente salì.
    Dopo la fine dell’orario lavorativo Patricia Spencer aveva cercato di farsi avanti più esplicitamente, ma Ronnie aveva abilmente sviato l’argomento, inventandomi un fantomatico impegno che gli impediva di rimanere a parlare con lei anche soltanto per qualche minuto. Gli dispiaceva per Patricia, ma non avendo alcuna intenzione di impegnarsi in una relazione con una donna ormai sulla soglia dei quarant’anni, preferiva evitare che questa si facesse illusioni. Non era prevenuto nei confronti di chi aveva diversi anni in più di lui, ma il desiderio che animava l’esistenza di Patricia era quello di sposarsi e di avere un figlio, e lui non progettavo nulla di tutto ciò nell’immediato. Si sentiva a malapena in grado di badare a me stesso, figurarsi se si sentiva pronto per mettere su famiglia.
    Guardò il parabrezza sul quale la pioggia si riversava, ripensando alla ragazza dal giubbotto rosa che aveva intravisto dalla finestra. Gli era sembrata una figura familiare, ma probabilmente si trattava soltanto di suggestione: anche Kelly, di tanto in tanto, portava indumenti di quel colore. “E non le stavano nemmeno tanto bene, nonostante lei ne fosse convinta.”
    Ronnie si sforzò di lasciare da parte quel pensiero: il ricordo di Kelly gli faceva tutt’altro che bene. Cercò quindi di convincere la sua mente a dedicarsi ad altro. Avviò il motore della sua Ford Escort, si allacciò la cintura di sicurezza, attivò il tergicristallo e si allontanò dal parcheggio: era molto meglio andare subito a casa, piuttosto che rimanere lì, potenzialmente esposto allo sguardo di Patricia Spencer, che presto sarebbe uscita e si sarebbe accorta che le aveva mentito. Mortificare una donna che si era fatta per qualche ragione delle fantasie su un loro futuro insieme non era certo suo più grande desiderio.
    Dopo un quarto d’ora trascorso alle prese con il traffico urbano, imboccò il vicolo che conduceva al palazzo in cui abitava. Mentre scendevo dall’auto notò una tenda che si scostava, nel soggiorno. Evidentemente Michel era a casa e questo lo sorprendeva: il suo coinquilino non aveva orari.
    Michel Sallivan aveva ventiquattro anni e non era esattamente il genere di ragazzo che la madre di Ronnie madre avrebbe approvato. Figlio di genitori ricchi e all’antica era predestinato fin dalla nascita a divenire l’erede dell’impero imprenditoriale del padre, che naturalmente l’aveva presa malissimo quando aveva scoperto che Michel aveva altri progetti per il futuro. L’aveva messo alle strette e, convinto della sua decisione, Michel se n’era andato di casa, cosa di cui forse si sarebbe pentito di lì a un paio di decenni. Il signor Sallivan, allora, aveva optato per il male minore: ingaggiare come sua principale collaboratrice Marlene, la sorella maggiore di Michel, nonostante avesse passato anni a ripetere che l’unica ragione per cui esistevano le donne era quella di essere brave mogli e brave madri, che rimanevano al di fuori di un mondo imprenditoriale fatto di soli uomini. Di fatto era stata una buona scelta: Marlene Sallivan al matrimonio non ci pensava nemmeno, ma in quanto a professionalità non la batteva nessuno. Tra i suoi familiari, era l’unica con la quale Michel era ancora in contatto. Da quando si era trasferito a Black Hill i suoi genitori l’avevano praticamente cancellato dalla loro esistenza e l’impressione che Ronnie aveva era che a lui stesse bene così. Condividevano da oltre un anno un appartamento in un palazzo neanche troppo vecchio, alla periferia della cittadina, e Ronnie non sapeva con esattezza che professione svolgesse. Una volta, timidamente, gli aveva chiesto se ciò di cui si occupava era legale e, quando gli aveva assicurato che era così, si ero messo il cuore in pace.
    Ronnie immaginava sua madre mentre commentava: «Un bravo ragazzo come te non dovrebbe abitare in casa insieme a un tipo del genere.»
    Erano le parole che, con tutta probabilità, avrebbe potuto pronunciare se avesse avuto modo di conoscere Michel. Dal momento che Ronnie non sarebbe mai stato in grado di replicare che i bravi ragazzi non andavano a letto con ragazze già fidanzate, che soccorrevano le donne in difficoltà e che non guidavano ubriachi, e che qualsiasi altra risposta gli sarebbe sembrata falsa e ipocrita, si riteneva fortunato: era molto improbabile che sua madre potesse conoscere Michel, prima o poi, quindi quella situazione non si sarebbe mai presentata.
    Si infilò nell’atrio e salì le scale in fretta, scacciando tutti i pensieri più assurdi. Per qualche oscura ragione gli era tornato in mente quello che si ero chiesto nel corso del pomeriggio, a proposito dell’ipotesi in cui la sua vita potesse cambiare radicalmente quel giorno stesso. Era stata una considerazione insensata, lontana dall’avere anche soltanto un minimo di senso logico.
    Giunse ben presto al terzo piano, dove abitavo. Prese fuori le chiavi, che teneva in tasca, e aprì la porta. Entrò e mi diresse subito in cucina, dove prese un bicchiere e lo riempì sotto al rubinetto del lavello.
    Stava per portarlo alla bocca quando una voce alle sue spalle lo fece sobbalzare.
    «Ehi, Ronnie.»
    Si girò di scatto, rischiando di rovesciare l’acqua.
    «Fai attenzione!» sbottò Michel.
    «Come mai sei a casa?» gli domandò Ronnie. «Pensavo che fossi impegnato per lavoro oggi pomeriggio.»
    «Ci sono stati dei problemi» rispose Michel, senza scendere nel dettaglio – non che Ronnie si aspettasse che lo facesse. «Piuttosto, ha telefonato tua madre.»
    «M-mia madre?» balbettò Ronnie.
    Quella sì che era una sorpresa.
    «Che c’è di strano?» replicò Michel. «A proposito, mi ha detto di farti gli auguri. Non sapevo che oggi fosse il tuo compleanno.»
    Ronnie annuì.
    «Non mi aspettavo che mia madre telefonasse.»
    Dal punto di vista della sua coscienza sarebbe stato molto meglio se non l’avesse fatto: adesso si sarebbe sentito in colpa se non l’avesse richiamata... e dentro di sé era già sicuro che non l’avrebbe fatto.
    «Avresti potuto dirmi che oggi compi venticinque anni» protestò Michel. «Non me lo aspettavo da te.»
    Ronnie spalancò gli occhi. Possibile che si lamentasse per un motivo del genere?
    «Non festeggio il mio compleanno» gli spiegò. «Anzi, proprio non festeggio niente. Nella mia vita non c’è nulla che valga la pena di essere celebrato.»
    Michel gli lanciò un’occhiata carica di ammirazione.
    «Beato te che almeno hai il buon senso di ammetterlo!»
    Ronnie sospirò.
    «Credo che sarebbe molto meglio non rendersene conto.»
    «Tu dici?» Michel scosse la testa. «Mhm... no, io non credo.»
    Ronnie avrebbe voluto chiedergli se si riferisse a se stesso, ma sapeva che Michel non avrebbe mai ammesso un proprio eventuale fallimento.
    Decise quindi di passare a un altro argomento, sperando – senza troppe probabilità di successo, questo lo sapeva – di non ritrovarsi davanti un muro.
    «Dicevi che avevi dei problemi al lavoro?»
    Michel strabuzzò gli occhi.
    «Problemi al lavoro?» ripeté, senza capire.
    Ronnie gli fece notare: «Mi hai detto di essere a casa per questo.»
    «Tutto sommato sono problemi che hanno a che vedere con il lavoro, ma che non riguardano strettamente il lavoro in sé» fu la sibillina risposta di Michel.
    Ronnie si trattenni dal chiedergli che professione svolgesse, anche se il dubbio aveva iniziato a farsi più intenso.
    «A questo proposito, stasera devo partire» gli comunicò Michel, con lo stesso tono indifferente con cui gli avrebbe detto che andava dal tabaccaio in fondo alla strada a comprare le sigarette.
    «Partire?» ripeté Ronnie. «E per dove?»
    «Devo andare a Dark River.»
    Questo era sorprendente.
    «Dark River... cioè la città in cui sei nato?»
    Michel annuì.
    «Conosci altre Dark River?»
    «Beh, no... Ma il fatto che tu vada proprio lì c’entra qualcosa con la tua professione?»
    «Per quanto possa sembrarti strano sì» rispose Michel. «Del resto non torno certo a Dark River per andare a trovare mio padre, no?»
    «No, immagino di no.»
    «Infatti è proprio così.»
    Andò alla finestra e guardò al di fuori.
    «Diluvia ancora» osservò, contrariato.
    Ronnie non rispose e finalmente bevve il bicchiere d’acqua che teneva in mano ormai da qualche minuto.
    All’improvviso Michel si girò verso di lui.
    «Ah, senti, Ronnie, dovresti farmi un piccolo favore.»
    Ronnie lo fissò.
    «Di cosa si tratta?»
    «Di Yuma: se ti chiede dove sono andato, tu dille che non lo sai.»
     
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