[Parole in guerra] - Sergio Brussolo

Memoriale postumo

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    Memoriale postumo


    Le vibrazioni del cassone rendevano il viaggio insopportabile e la mancanza di un telone coprente lasciava che la polvere, sollevata da quattro ruote motrici che mordevano un terreno arido e caldo, si infilasse ovunque, sopra di noi.
    Una di fianco all’altra stavamo, adagiate su assi di legno che erano il nostro pavimento, sotto il sole impietoso e furente del tardo mattino.
    Il rumore, monotono e cupo, del motore del camion era l’unico suono a squarciare il silenzio di quello spazio sempre uguale, dal quale non affiorava segno di vita apparente.
    Ad intervalli di circa mezz’ora il veicolo si fermava e, a motore sempre acceso, alcune di noi venivano fatte scendere.
    Da lì, dentro quelle sponde, non vedavamo nulla e nulla riuscivamo a sapere, noi che eravamo rimaste, sulla sorte delle nostre compagne di viaggio.
    Poi, dopo un po’, la marcia riprendeva, e ancora polvere, cupo rumore, sole squarciante, vibrazioni e vana attesa.
    Ad ogni fermata la intuita ripetitività di gesti mai accompagnati dalla voce di uomini che ci afferravano e ci facevano scendere a forza, riproduceva il suono appena percettibile di tonfi sul terreno, che generavano ancora polvere, in quell’aria immobile, pesante di calore.
    L’autista non scendeva mai e il lavoro toccava a due figuri che gli stavano di fianco in cabina, che non si scambiavano parola.
    Non capimmo mai se quel silenzio celasse grida di pensieri gravi e ribelli o se, contrariamente, tutto appartenesse all’atto unico di una squallida rappresentazione di indifferenza e apatia, figlia di una costrizione alla quale anch’essi, nel loro mimetico vestire, dovevano soggiacere.
    Non c’era sofferenza nei loro sguardi, né rabbia, non c’era emozione, né ansia, non c’era luce.

    Come previsto, accadde che toccò anche a me, e… allora seppi.
    Fuori dal bordo del cassone, scaricata letteralmente a terra con altre compagne di sorte, venimmo, una ad una, prese e poste a forza dentro buche già pronte, appena capaci di contenerci, scavate in quel deserto polveroso e pietroso, quel tanto che bastava per lasciare emergere appena una piccolissima parte di noi , poi ricoperte di sassi e altra polvere, e lì, così, abbandonate.
    Dai nostri terribili luoghi vedemmo l’autocarro allontanarsi, sentimmo attutirsi, poco a poco, il ben noto rumore di quel motore e perdemmo,infine, anche il riferimento di quel filo di polvere sollevata, sempre più da lontano, nel deserto di Kunduz.
    Mentre il sole si abbassava, il calore, attenuandosi rapidamente, lasciava spazio a profondi brividi notturni e scorpioni giganti.

    Da quel momento stetti lì, impotente e immobile, arroventata dal calore di un vento asciutto e radente e di una devastante sfera di fuoco che percorreva lentissima il suo arco di cielo, vibrando in sfumature cromatiche diverse, dal rosso, ancora freddo, mattutino al rosso, soffocante, serotino.
    Nessuna alchimia aveva potere di trasformare in pascoli quei sassi spaccati dal sole, far rivivere quelle secche spine grigie di polvere, far tacere quel silenzio assordante e immanente di giorni e notti sempre uguali a se stessi.
    Nessun filo di speranza poteva muovere la ragione in quell’attesa indefinita, dentro un tempo senza confini.
    Nessuna volontà riusciva più a corrodere lo stato sistemico dell’immobilità delle cose reali, sostanziate dentro quel quadro intimamente surreale.

    Rintanata, ad attendere il mio momento, in quella landa desertica, stavo, non avendo altra possibilità.

    Prima o poi tutto sarebbe accaduto.
    Prima o poi il terribile incanto sarebbe stato vinto.
    Prima o poi, da laggiù, si sarebbe delineato l’inizio della fine.

    Era un mattino, forse, quando il sole, ampliando il raggio del suo percorso, illuminò qualcosa, ancora molto lontana. Qualcosa che prima non c’era. Qualcosa che ancora non riuscivo a definire.
    Passò molto tempo, credo, prima che arrivassi a realizzare, dalla mia condizione di semisepolta nella terra, da dove era difficile distinguere il filo dell’orizzonte, l’avvento dell’evento.
    Passò ancora del tempo prima che quell’immagine, mostrando i suoi contorni sempre un pò più nitidi, si rivelasse quella che era. Quella di un uomo, vivo, vero.

    Incredibilmente solo, sotto un elmetto di metallo ricoperto da una rete, con zaino sulla schiena e borraccia, radio e chissà cos’altro appesi ad una sorta di morbida corazza color deserto.
    In braccio aveva un’arma e teneva il dito indice della mano destra a sfiorarne il grilletto… perché poi…per chi poi, in quell’assenza totale di presenze, dove la sua stessa materializzazione si presentava aliena.
    Ma lui era lì, dietro uno sguardo coperto da occhiali scuri e con la faccia sporca di nero.
    Avanzava lentamente, con movimenti gravi, attenti, costanti, meditati, solenni e circospetti.
    Percepivo, in quel tempo ad entrambi estraneo, il tonfo leggero dei suoi passi, cadenzati, lentissimi e sempre un poco più chiari, più vicini.
    Viveva, vibrante, il dialogo muto tra chi, sapendo dell’altro, non può agire e chi, potendo agire, sospetta, ma non sa dell’altro.
    Lui, che mai avrebbe potuto scorgermi, cercava me, che lo stavo aspettando, e mi temeva, nulla potendo contro le parole scritte sul libro dei destini.

    Una voce, roca e tremula, disperato grido di aiuto, ultimo tentativo per un improbabile ritorno, ruppe il cristallo che proteggeva l’omertà sonora.
    L’avevo udito, quel richiamo radio a chi, troppo lontano, più non rispondeva.
    L’avevo sentito, quel fiato ansante, sotto il peso di militari bardature, trasformarsi terribilmente in infantile, solitario pianto.
    In ginocchio, lasciata l’arma, una testa bionda liberata da un casco ormai inutile, guardava attonito a terra.
    Che l’inevitabile stesse per compiersi era ormai evidente.
    In pochi passi la sua ombra arrivò, fino a sfiorarmi.
    Lo spazio che ci separava, quasi nullo, annunciava che il tempo entro il quale mi avrebbe scorta stava in un battito.
    Ma non fù così.
    Si fermò ancora, lì, accanto a me, senza accorgersi della mia presenza.

    Stentatamente, raccogliendo le residue forze, provò ancora a rialzarsi e quando la disperazione aveva vinto la sofferenza, quando lo sguardo riempiva di infinito vuoto quegli occhi belli di gioventù, quando nessun pensiero più riusciva a dimorare in quell’animo di soldato sperduto su un terreno ignoto, quando da quella borraccia strappata alla cintola più non usciva che polvere, quando il terrore asciugava i pori dal sudore, quando febbre di morte si diffondeva dentro quel corpo inutile…solo allora, lontanissimo, un cenno di crepitìo amico gli gelò il sangue.

    Il giovane soldato sperduto, ora ritto su gambe malferme, ancora impietrito dallo straziante timore di una visione morganatica, seguiva nel cielo quel punto nero che sbatteva l’aria e si faceva, gli pareva, sempre più grande…
    Ed era verità…stava arrivando…un elicottero.

    Il giovane soldato sperduto sollevava le braccia al cielo, saltellava, gridava, rideva, mentre lacrime, ora di gioia, tracciavano il segno del loro passaggio solcando quelle guance scure di trucco mimetico e… in preda ad un fortissimo e assolutamente ignoto sentimento di felicità assoluta che un turbine di spettacolari immagini intrise di vita gli proiettava dentro, non potè evitare di muovere, non più di un soffio, un piede.

    Fatalmente… mi toccò appena e…inesorabilmente…senza un grido, ma con violenza satanicamente devastante … mi saltò addosso…

    A quel punto era davvero tutto finito…per me… e per lui.




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    Edited by Axum - 31/3/2011, 16:10
     
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