Scrittori della Notte: liberi di scrivere

Votes taken by « Soldier of Fortune »

  1. .
    Pronti via, arriva la rocambolesca conclusione.




    ************** Puntata 5/5 **************





    Adorata Leona,

    il tempo trascorso dal nostro primo incontro è volato come possono volare le ore nei giorni migliori.
    Permettimi innanzitutto di lodare la tua costanza e la tua determinazione nel perseguire ogni obiettivo che ci siamo prefissati: saresti guida e modello per qualsiasi altra donna che insegua un personale miraggio.
    Come ti dissi quindici anni orsono, dedizione e fede incondizionata aprono le porte al coronamento dei sogni, anche i più remoti. Hai fatto la tua parte, ora io farò la mia. Ci sono voluti anni, e notevoli sacrifici, ma infine, con mia somma soddisfazione, sono riuscito a strappare un angelo dal cielo e piegarlo alla mia volontà.
    Per quanto alto sia il valore di una simile conquista, a nessuno dei miei figli eccetto te assegnerei le ali e il potere di quella creatura: credo meriti di esaudire il sogno che hai inseguito per così tanto tempo e al prezzo di buona parte della tua esistenza.

    Come ti dissi durante la mia ultima visita, farò tutto ciò che è in mio potere per presiedere alla tua metamorfosi nonostante, come sai, la mia salute stia peggiorando. Sarò reduce dall’operazione, e questo mi impedirà di restarti vicino quando entrerai nella cella di contenimento, tuttavia ti potrò guardare dalla sala di controllo: niente in questo mondo, neppure se l’operazione dovesse finire tragicamente, m’impedirà di alzare il braccio in tuo saluto quando otterrai quelle ali e diventerai tu stessa un magnifico angelo vendicatore.
    Hai la mia totale e incondizionata fiducia: trascendi i limiti dell’umanità e diventa ciò che hai sempre desiderato; questo è l’unico ringraziamento che chiedo per quanto ho fatto per te da quel lontano giorno, tra le macerie di una chiesa distrutta.

    La nostra ora solenne deve ancora arrivare, ma la tua è ormai imminente. Non deludermi.

    C.B.


    ***



    Passi nel corridoio.
    Elaborati stivali a percorrere il camminamento, lenti, metro dopo metro, silhouette di donna disegnata a chiaroscuri nel passaggio poco illuminato.
    Si fermò: davanti a sé l’ultima doppia porta di sicurezza. Prese un respiro.
    Il colore del cielo?
    Azzurro.

    Frugò nella tasca con dita guantate, ne trasse un piccolo origami a forma d’angelo con mani che iniziavano a tremare, come più volte da quella mattina. Lo fece muovere lentamente avanti a sé, come volasse in un riquadro di cielo che esisteva solo nella sua mente.
    Respiro.
    Poggiò l’indice sul pulsante d’apertura della doppia porta: esitò.
    Se fosse tutto un inganno?
    Un pensiero troppe volte accarezzato per poterlo ignorare, una paura segreta, inammissibile, gli anni spesi inseguendo qualcosa che avrebbe anche potuto non raggiungere mai.
    Tolse il dito dall’interruttore e lo sguardo le indugiò sulla propria immagine riflessa, distorta, nel metallo pesante della porta; un corpo di donna atletica, slanciata, avvolto nella tuta protettiva nera, stivali neri anch’essi, il vermiglio cupo, artificiale, dei folti capelli pettinati indietro, raccolti in svariate treccine come rossi serpenti: una candida, silenziosa gorgone.
    L’azzurro intenso, crudele, degli occhi.
    Leona ascoltò per un momento il flusso del sangue sulle tempie, il vecchio ritornello dei dubbi, le paure, l’orrore recondito che tutto quanto fosse una montatura.
    Strappare un angelo dal cielo.
    Brivido.
    Prendere le sue ali e cantare con lui, librandosi sulle correnti del mondo.
    Altro brivido.
    Se tutto, tutto quanto fosse un sontuoso inganno?
    Strinse l’origami piegandone involontariamente la delicata forma. Con la destra andò alla cintura dove languiva, freddo, il coltello extrema ratio: il respiro le si fece affannoso.
    Se sarà una menzogna, prenderai la vita dell’uomo che chiami padre e poi la tua, ti taglierai la gola davanti a tutti: quindici anni spesi ad aspettare un qualcosa che forse non vedrai mai.
    Prese fiato, un respiro a calmare i nervi, quella sottile vena schizofrenica che di tanto in tanto riempiva i suoi momenti introversi: eredità di due morti sfiorate per mano degli angeli, la diagnosi ufficiale.
    Leona ravviò i capelli in un gesto distensivo, batté un paio di volte il tacco a scacciare la tensione.
    Sei pronta.
    Nessuna domanda, solo piena affermazione di sé.
    Lo sei sempre stata.
    Premette il pulsante: le doppie porte si aprirono con un ronzio.
    Un refolo d’aria calda la investì agitandole per un momento le trecce serpentine e gli abiti, poi la luce dei neon, solo per un attimo intensa, sullo sfondo del campo visivo. Davanti a lei un’anticamera che era il preludio alla grande sala aperta appena dietro. Camminò al passo cadenzato dei propri stivali, a suo modo maestosa e assieme inquieta, contrita, lunghe ombre sul volto dai tratti incisi, dalle labbra marcate da sobria chirurgia estetica, dagli occhi di un azzurro selvaggio. Camminò fino alla soglia opposta, vi trovò i suoi quattro fratelli in attesa, fermi, i volti segnati sui cui albergava una qualche sorta di empatia: il muto invito, assieme beffardo e intenso, ad andare fino in fondo. Leona li superò con solo quell’increspare della bocca che era una personale forma di sorriso.
    Camminò, gli ultimi metri.
    Varcò la cella di contenimento.
    Si sorprese di essere in un buio quasi completo, interrotto solo dai piccoli lumi direzionali sul pavimento; si fermò, l’eco degli ultimi passi esaltata dall’enorme struttura.
    La tua ora solenne.
    Il senso di nulla, di vuoto.
    Tutto un immenso, gigantesco inganno.
    Lente, in sequenza, le luci al neon sul soffitto si accesero una dopo l’altra ad illuminare l’ampiezza intera della grande sala, l’estensione della cella, fin verso il fondo, il grande portone serrato sul mondo di fuori.
    Gli occhi azzurri di Leona iniziarono a dilatarsi, istante dopo istante, il cuore a battere a passo doppio.
    Signore dei Cieli.
    Brivido caldo.
    Lui era lì.
    Grande, molto più di lei, l’angelo attendeva immobile nel mezzo della sua sontuosa prigione.
    È tutto vero.
    Ampie ali cineree, distese, la testa oblunga, il corpo nodoso: guardava di rimando, muto, come cercasse in lei un qualsiasi segno che i rispettivi destini fossero pronti ad incrociarsi lì e quel giorno.
    È tutto vero.
    Gli si avvicinò con le gambe che a malapena trovavano la forza di muoversi: si fermò ad un passo da lui, tremante, gli occhi vitrei. Aprì le braccia, lenta, in un gesto che aveva compiuto centinaia di volte e che solo lì ed in quel preciso momento trovava il suo significato ultimo; raccolse la gamba sinistra e chinò il capo: l’airone umano stagliato contro il bianco dei neon e la figura oscura, meravigliosa, che aveva popolato i suoi sogni e i suoi incubi.
    È tutto vero.
    Abbassò le braccia, riportò a terra la gamba, rialzò il capo.
    Il cuore un martello nel petto, il respiro furioso. Dischiuse le labbra tremanti come per parlare ma le uscì solo un gemito.
    Leona pianse.
    Cadde sulle ginocchia, le mani in grembo: pianse. Gli occhi serrati, un grido liberatorio, un urlo innamorato della vita e del mondo, la testa reclinata indietro e lo sguardo inebriato della creatura con la quale era pronta a diventare un tutt’uno.
    La più alta e pura forma d’amore.
    Aprì ancora le braccia come a librarsi, come già avesse quelle ali che l’attendevano lì, a un passo, il corpo scosso dai singhiozzi e il volto contratto in una maschera di meraviglia e smodata passione.
    Si rialzò in piedi con le guance rigate di lacrime, si voltò furiosa verso le vetrate che, in alto, schermavano la sala di controllo.
    Lui era lì.
    Dall’altra parte del vetro, l’uomo che aveva chiamato padre per quindici anni guardava, lontano e fiero, dietro la barriera di un respiratore. Quegli occhi chiari, profondi, nonostante la distanza, le dissero quanto intensamente fosse orgoglioso di lei.
    Lui alzò un braccio, il saluto di un padre che aveva le sue battaglie da combattere ma che non si era mai dimenticato dell’unica figlia. Lei alzò il braccio in risposta, furiosa, il viso contratto e le labbra morsicate in una selvaggia forma di gratitudine: la promessa, incisa nella carne, di dare la sua stessa vita per quelle medesime battaglie e tutte le altre che sarebbero venute dopo.
    Grazie.
    Un bacio impresso a fuoco sul palmo della mano e liberato verso di lui, perché lo raggiungesse anche attraverso mille barriere di cemento.
    Grazie di tutto.
    Si voltò per tornare a guardare l’essere perfetto che attendeva, immobile e magnifico. Si alzò sulle punte dei piedi a sfiorarne il volto, lo avvertì levigato, lucido, vivo; sentì il fremere crudele della creatura e dentro di sé agitarsi forme di piacere che non ricordò d’aver mai provato prima. Baciò la sua pelle dura come l’acciaio e chiuse gli occhi perdendosi per un istante nella sensazione infinita, potente, che andava crescendole dentro.
    Adesso saremo una cosa sola.
    Passi in avvicinamento. “Vogliamo iniziare?”, scandì l’addestratore uscito da una delle stanze di servizio, un uomo sui cinquanta, dal volto forte, “Che il ragazzo qui vuole tornare a volare”.
    “Sì”, Leona asciugò le lacrime con due manate rabbiose, “Sì…!”.
    È tutto vero.
    Tolse di tasca l’origami dell’angelo, lo baciò un’ultima volta.
    È tutto vero.
    Lo lasciò cadere sul pavimento: non ne aveva più bisogno.
    Si mosse, suole di stivali sul pavimento lucido. Salì a passo agile la scaletta e sedette nella carlinga, un movimento alla volta, le mani poggiate, tremanti, sulla cloche di comando.
    È tutto vero.
    Allacciò la doppia cintura e indossò il casco ad interfaccia, poi il respiratore integrale.
    Il canale radio nell’auricolare iniziò a crepitare e prese vita al suono della voce del suo flight partner.
    È tutto vero.
    Leona dominò gli ultimi residui della paura, dell’emozione, lasciandoli rimpiazzare dalla più profonda e tetra determinazione.
    Io sono un angelo.
    Si adagiò sul sedile e lasciò che la cupola dell’aereo si chiudesse sigillandola nell’abitacolo.
    Divenne un tutt’uno con la macchina da guerra.

    ***



    Notte del 26 maggio 1999: bombardamento NATO su Dazar, Jugoslavia.
    Colpito per errore umano l’orfanotrofio del Sacro Cuore.
    54 morti.
    Nessun superstite.

    ***



    “Come dicevo”, la voce quieta, mesta, di Suor Jovanka seduta alla scrivania dell'ufficio, “È instabile. Non è una cosa innata, è solo frutto di ciò che ha dovuto passare”.
    La donna, il marito dietro le spalle, incupì. “E i suoi genitori?”.
    Jovanka prese un lungo respiro. “La loro casa è stata distrutta durante un bombardamento, qualche mese fa. I suoi genitori sono morti quella notte. I soccorritori l’hanno trovata tra le macerie, imbrattata di sangue e sotto shock. Pare che”, pausa, un magone, “Che suo padre e sua madre le siano morti addosso, nel tentativo di proteggerla. I corpi erano sfigurati, irriconoscibili. Per questo”, altra pausa mesta, “Dice quelle cose orribili. Non voglio neanche immaginare cosa deve aver vissuto. Ma io credo, e lo credo fermamente, che se trovasse famiglia potrebbe guarire dal suo male”.
    Gli sguardi vacui, assenti, della coppia.
    Un sospiro.
    “Guardi, siamo molto rammaricati, ma…”.

    “Non conviene darla in affidamento, non subito perlomeno”, il medico in giacca e cravatta, volto magro, “È meglio portarla in una struttura qualificata, almeno per un po’. Deve smaltire il trauma. Portatela in un posto dove sia seguita e assistita: da quel che ho potuto constatare, sta manifestando aggressività e tendenza alla sopraffazione; ha già picchiato due ragazzine al pediatrico”.
    Il funzionario annuì distrattamente, intento a timbrare le carte. “Sindrome di Stoccolma?”, lesse su uno dei fogli.
    “Qualcosa del genere. Sembra aver sviluppato”, sensazione sgradevole, “Una specie di attaccamento morboso verso gli aerei. Quelli da guerra in particolare”.
    “Gli stessi che hanno distrutto la sua casa e la sua famiglia?”, scuotere del capo, “Che assurdità”.
    “Non sottovalutate la cosa. Li accomuna alla nozione di angeli, li personifica, e prova il desiderio di vederli, persino di possederne uno. Può degenerare in malattia mentale”.
    “Sì, certo, capisco”. Ultimo timbro incurante.
    Le carte collocate in una cartellina, la cartellina in un fascicolo, il fascicolo su un ripiano.
    Può degenerare in malattia mentale.
    Il ripiano in una stanza tra le tante dell’archivio.

    ***



    Caccia F-35 Lightning solitario, in volo, velocità di crociera.
    Azzurro terso del cielo, bianco delle nuvole, dei cirri, il sole un globo candido.
    Il volto del pilota celato dietro l’ampia visiera a specchio, il respiratore integrale.
    “Terzo quadrante. Ce l’hai su schermo”, voce nell’auricolare, “Hai via libera. Passo”.
    Una mano spostata al monitor principale touch-screen, due dita ad allargare l’area inquadrata dalle potenti telecamere satellitari a largo spettro: l’immagine di un caseggiato ignaro, non lontano dalle prime propaggini dei monti, migliaia di metri lontano. Un tocco per scorrere i folder sulla visiera computerizzata dell’elmetto e un altro ad impostare il target lock.
    Agganciò l’area edificata al sistema d’arma primario.
    “Operativa”.
    “Quando vuoi”. Pausa. “È il tuo battesimo di sangue”.
    Mani serrate, dolcemente, alla cloche.
    “Chi sono queste persone che sto per”, tocco rovente d’adrenalina, “Distruggere?”.
    Il canto degli angeli.
    Visioni confuse dal passato, di fuoco e macerie. Il sangue addosso: sulle mani, sul volto.
    Il rumore, assordante, di una casa che crolla e si piega su se stessa spingendo nell’oblio ogni altra emozione. Il caos dei sensi.
    “Fa differenza? Devono morire, è questo il volere di tuo padre”.
    Sorriso tetro, labbra rilassate sotto la visiera dell’elmetto.
    “Non fa differenza, no”.
    Del tutto irrilevante.
    Premette il pulsante di fuoco assieme ad un battito più forte del cuore: il missile Scalp EG lasciò l’ala destra e si avviò nell’azzurro del cielo, svanendo in pochi istanti alla vista, diretto verso il suo destino.
    Immagine mentale rovente di un edificio sventrato, mutilato, fatto implodere dalla potenza di un dio.
    Il canto degli angeli.
    I corpi umani bruciati vivi, carbonizzati, schiacciati sotto i blocchi di cemento o spazzati via in tripudi di sangue dall’onda d’urto.
    Energia primordiale.
    Leona chiuse per un momento gli occhi e lasciò che il pensiero d’onnipotenza la cullasse, le voci immaginarie delle vite che stava per annichilire le echeggiassero, tutte assieme, fin nell’angolo più remoto dell’anima.
    Gusto cruento di libertà.
    Il corpo contratto, la schiena leggermente inarcata, la presa sulla cloche: provò lo stesso infinito piacere dell’amplesso.
    Si guardò le mani e le parve di vederle rosseggiare, coperte dal sangue degli uccisi: come aveva sempre immaginato, non sentiva alcun dolore. C’era solo la sinfonia distruttiva che continuava a suonarle nella testa, sulle correnti ascensionali, nell’azzurro infinito del cielo.
    Sorrise.
    Una canzone, di libertà e vessazione.


    *********************** FINE ***********************






    Edited by « Soldier of Fortune » - 12/6/2016, 17:37
  2. .
    Davvero bello e profondo, a tratti mette anche angoscia.
    Io però l'immagine l'avrei messa a fondo racconto: mi ha fatto partire prevenuto sul fatto che il ladro del titolo potesse essere fittizio (ho pensato proprio al Tempo).
    Ottima scrittura, comunque, hai uno stile molto personale. :)
  3. .
    Vi ringrazio davvero tantissimo dei commenti. Mi danno energia.


    Sotto con la terza puntata!




    ************** Puntata 3/5 **************





    Aprire di porta sullo stanzone poco illuminato: vecchi recipienti per i panni e assi da lavatoio.
    Maja tenuta per un braccio, trascinata verso il fondo della stanza, poi messa al muro senza cerimonie.
    “Io non ci voglio stare qui con te…!”.
    Leona un sorriso enigmatico. “Tanto non decidi tu”.
    “Lo dico a Suor Matea…!”.
    Schiaffo, forte, la più assoluta crudeltà: gli occhi di Maja si riempirono di lacrime, ambo le mani al viso.
    “Se piangi te ne do un altro molto più forte”.
    Occhi serrati, le dita sulla bocca per non lasciarsi sfuggire un singhiozzo, lacrimone fuggitivo lungo la guancia.
    “Piangi?!”.
    Scuotere patetico del capo, i capelli lisci e neri.
    Un bacio deposto sulla fronte.
    “Vieni. Mettiti giù”. Leona l’accompagnò a sedersi a terra, sul pavimento di pietra, poi la fece stendere di schiena.
    “Mi sporco il vestito...!”.
    “E chissenefrega? Sdraiati”.
    Moto d’insofferenza, quella voglia di piangere che dovette seppellire dentro. Guardarla, lei, dall’alto in basso, gli occhi di un azzurro violento.
    “Non possiamo tornare in cortile…?!”.
    “No. Tu giochi solo con me”.
    Leona alzò un piede e glielo poggiò sul ventre, premette fino a farla contrarre.
    “Io non voglio…”, lo stesso lacrimone sulla guancia.
    “Tu sei mia”.
    Le spostò il piede tra le costole, poi sul petto, con soddisfazione, premere forte fino a farla gemere di sofferenza e vergogna.
    “Sei mia”.
    Spostò ancora il piede e andò a metterglielo sul viso, la suola della scarpetta premuta contro la guancia, l’inutile resistenza delle mani di lei, a cercare di spostarla, piagnucolando.
    “STA’ FERMA!”.
    Sentirla piangere, sommessa, stesa a terra. Leona tolse di tasca il piccolo angelo di carta, guardò il cielo disegnato nel finestrone che aveva innanzi: io andrò nei cieli, mi cresceranno le ali, io sarò come loro, come loro.
    Lasciò correre libero l’origami nella cornice azzurra del mondo di fuori.
    Come loro.
    Guardò Maja dall’alto in basso, sorriso crudele, l’azzurro degli occhi.
    Sarò un angelo e canterò come i tuoni.
    Persa in una canzone di libertà e vessazione.

    ***


    “IL DIAVOLO, IL DIAVOLO!”.
    Passi furiosi nel corridoio delle camerate scandito da un pianto rotto, disperato.
    L’agitarsi e il fremere di decine di letti, bambine come germogli a spuntare dalle lenzuola, guardare atterrite, alcune piangere per solidarietà o paura.
    “IL DIAVOLO!”.
    Suor Stela a passo furioso, paonazza, trascinava Maja per un braccio nel corridoio, transitò come un bianco fantasma nel vano della porta, le camerate in fermento, in ansia, tremori e singhiozzi.
    Suor Jovanka spuntò da dietro l’angolo, attonita, s’arrestò di fronte alla consorella, “Che accade?!”.
    “È IL DEMONIO, TI DICO, IL DEMONIO! QUELLA, QUELLA!”.
    Jovanka a passare di sguardo l’una e poi l’altra, Matea che appariva al fondo del camminamento, poi Maja in lacrime, rossa, a strillare col visetto tirato in una smorfia di dolore.
    “Ma cosa è successo?!”.
    “Le ha dato un morso! Un morso! È stata QUELLA!”.
    “Un morso? Leona ti ha dato un morso?”.
    Annuire disperato della bambina. Suor Stela la scosse per il braccio, violenta, quasi a staccarglielo d’impeto. “E DIGLIELO, DIGLIELO DOVE TI HA DATO IL MORSO!”.
    Maja a piangere ancora più forte, la manina libera portata tra le gambe, poggiata appena sotto la gonnellina. Jovanka vagò lo sguardo, attonita, una mano, sempre la stessa, a prendere il crocifisso dal collo.
    “È il diavolo QUELLA, ti dico! Ce l’ha dentro, il demonio, è marchiata da Satana! DA SATANA!”.
    Jovanka guardò la consorella passarle oltre trascinando Maja con sé, “L’andiamo a curare, su!, passa tutto, non è niente!”, scambiò un’occhiata vitrea con Matea, con Sonja appena sopraggiunta. L’orrore silenzioso, la notte incipiente, le immagini dei santi e della Vergine su vecchi quadri scrostati, i crocefissi alle pareti: le parve che tutti avessero sinistri occhi azzurri.

    Sibilo: schiocco.
    Grido femmineo.
    La stecca riportata in alto, le mani protese, doloranti e segnate.
    “CONTINUA!”.
    Ansimare lieve. “Ave Maria, piena di grazia, il Signore è con Te…”.
    Sibilo: schiocco.
    Grido femmineo.
    …Tu sei benedetta tra le donne e benedetto è il frutto del seno Tuo Gesù ”.
    Iridi azzurre fisse al pavimento, vitree, le ginocchia poggiate sui ceci sparsi. Poi le candele, il piccolo altare, le stoffe impolverate.
    “CONTINUA”.
    Il volto smagrito, quasi un teschio, di Suor Stela, la verga alzata.
    Santa Maria Madre di Dio, prega per noi peccatori…”.
    Sibilo: schiocco.
    Grido femmineo.
    Occhi azzurri umidi di lacrime.
    “…adesso e nell’ora della nostra morte”.
    Gli sguardi cupi, velati, delle consorelle intorno.
    Sibilo: schiocco.
    Grido femmineo.
    Amen ”.
    Silenzio, solo più il respiro ruvido dell’anziana, l’oscillare delle candele sotto gli spifferi.
    Leona ritrasse lentamente le mani, si contemplò i palmi segnati dalle vergate, poi alzò le iridi, profonde, sulla bianca figura della donna.
    Silenzio osceno.
    “Quando sarò una di loro ”, angeli in bronzo appena dietro l’altare, “Le mie mani sanguineranno, ma non farà più male”.
    “SILENZIO!”.
    Vagare d’iridi, spersa, ferita. Leona aprì lentamente le braccia, l’unico gesto che sapesse infonderle sicurezza, sollevò una gamba.
    L’airone umano.
    Il colpo di verga la prese sul braccio, una staffilata che le cavò fuori un grido, dolore finissimo: tornò eretta, si strinse l’arto al corpo, incredula, occhi negli occhi con l’anziana donna e il suo volto scavato, un teschio coperto di pelle, i piccoli occhi: riflesso d’Averno.
    “Sarò… sarò lassù in cielo a guardarvi tutte…”.
    Una nuova vergata, forte, sull’altro braccio. “TU HAI IL DIAVOLO DENTRO!”.
    Respiro accelerato. Batticuore.
    Suor Jovanka si accostò, qualche parola di clemenza confusa col ronzio nelle orecchie, col suono lontano, ovattato, che sembrava esalare dal fondo della terra e dalle viscere del cielo.
    “Mi cresceranno”, scandì Leona con voce rotta, tremula, “Le ali…”.
    La verga alzata in un nuovo, imperioso atto punitivo: non calò mai. Suor Stela rimase come paralizzata, raggelata, il suono a crescere d’intensità, sempre più forte.
    Sgomento.
    Il pavimento tremò. Polvere cadde dalle vecchie intelaiature del soffitto, cenere, un velo bianco.
    Il suolo ebbe una vibrazione, si spaccò, caddero le suppellettili, le lampade, l’acquasantiera.
    Cominciò come un canto, crebbe come un tuono.
    Cantano.
    Leona dischiuse le labbra, gli occhi colmi di un’emozione immensa, infinita. “Arrivano”, scandì come in estasi, “Arrivano!”.
    Cantano, gli angeli. Cantano come se ti scoppiasse la testa!
    Le religiose, tutte, alzarono occhi lividi di terrore verso il soffitto e il lampadario che oscillava impazzito; un barlume di consapevolezza le raggiunse, qualcosa che le chiamava dall’abisso: il pensiero subitaneo del buio e della luce che l’avrebbe di poco preceduto.
    Gli angeli!
    Una canzone di furia e primordiale rabbia infranse le finestre al suono finissimo dei cristalli spruzzati intorno, tutti insieme, una cascata di frammenti color ghiaccio come i piovaschi estivi, la grandine, il blizzard.
    Sono venuti per me.
    Un rombo, poi ali di fuoco sfondarono le pareti, fendettero i muri come carta, avvolsero ogni cosa in un abbraccio incandescente e luminoso, accecante, perfetto. Chiome e spade raggianti illuminarono la chiesa come fosse mezzogiorno per un lungo, interminabile momento: in mezzo al turbine, l’airone umano dagli occhi celesti.
    Di nuovo.
    Le grida di morte nel Sacro Cuore furono coperte dal canto selvaggio degli angeli, la vampa di fuoco scomparve e fu sostituita dal buio totale, l’abisso: fauci di polvere grandi come un quartiere inghiottirono la chiesa, i dormitori, i giardini deserti e tutto il resto di quel piccolo mondo.



    ***************************
  4. .
    Mah sì penso che volesse dire quello, però io non trovo che sia così frequente questo tipo di descrizione dei personaggi femminili. Anzi, avrei detto il contrario, cioé che sono più spesso gli uomini a essere personaggi "negativi" che vanno contro i propri principi.
  5. .
    Temevo si verificasse qualcosa tipo Fry che è nonno di se stesso. :lol:




    Per il resto l'idea è simpatica, però secondo me è un po' troppo frettoloso, meritava qualche approfondimento, cioé qualche valore in più all'incontro dei due personaggi: avrebbe dato maggiore suspense e "tragicità" al finale, che invece arriva troppo in fretta.

    Per il resto nulla da segnalare. :)
  6. .
    Secondo me, l'unica ricetta possibile per far funzionare un contest è quello di renderlo unico.
    UN contest.
    Non turno 1, turno 2, tema 1, tema 2, tema 3, ecc.
    No.
    Un contest. Un tema.

    Se se ne vogliono lanciare altri si farà più avanti, a distanza di tempo, e sempre una cosa ex novo. La gente partecipa poco se sa che tanto c'è un secondo turno, poi un terzo, ecc.
    Il contest è uno, l'occasione è una: questo stimola di più la partecipazione.

    Mio parere, ovviamente.
  7. .
    Hola!
    Dopo lunga assenza torno su questi lidi, e lo faccio con un racconto a spezzoni che sarebbe la prima messa su carta di un progetto ben più ampio.

    L'idea di fondo è quella di sviluppare un romanzo che sia un collage di storie differenti, con temi e situazioni anche molto diverse, alcune ambientate in Africa e altre in Italia, alcune nel passato altre nel presente, tutte unite da un filo comune e destinate a convergere.

    Questa, che divido in un po' di episodi, sarebbe la prima in assoluto.
    Sarà scontato dirlo, ma ci tengo a sentire impressioni, pareri, quel che vi passa per la testa.
    Per ora lascio il prologo, e intanto continuo a rimaneggiare il materiale che ho.

    Grazie!


    **************************

    MOTO PERPETUO






    Prologo

    Canta.
    La voce sul mare, vicina e lontana, canta sul blu delle onde e il pallore della spuma.
    Braccia aperte col bianco della veste agitata dal vento: il nero della pelle bruciata dal sole.
    Una corona di fiori offerta ai flutti, lasciata andare alla salsedine e le correnti, la brezza, l’arancio del tramonto.
    La voce nel vento viaggia, risuona, attraversa il tempo e la distanza, varca l’immenso e diventa sterna: migra sulle correnti. Le nuvole all’orizzonte sono il preludio alla notte, la notte è il preludio al buio, il buio è il preludio al nuovo giorno.
    Canta.
    Il timbro un dono, la pace un altro dono: wassalam.
    I riverberi del sole sull’acqua.
    La pace sia su di voi.

    Occhi di donna immobili osservano la sabbia e il moto perpetuo delle onde. La grande spiaggia silenziosa, percorsa da pochi uomini e donne a tardivo passeggio, sullo sfondo le prime luci della città.
    Cammina.
    Senza fretta, il passo quasi solenne, cammina sulla sabbia fradicia, la camicia aperta, i calzoni risvoltati sopra il ginocchio, gli stivali in una mano: i piedi nudi lambiti dall’andare e venire dei marosi, la schiuma, le alghe portate dai flutti.
    Pelle del colore della terracotta, gli occhi di quello dell’ossidiana, i capelli una criniera selvatica che incornicia un viso dai tratti fieri e meticci: l’elegante incrocio di due mondi.
    Gabbiani del vespro planano e ascendono, confusi col calare della luce, s’intersecano in danze senza ritmo perdendosi per ritrovarsi pochi respiri più tardi.
    Cammina all’eco lontana di una preghiera di gruppo, una corona di fiori offerta al mare.
    La pace sia su di voi.
    Lunga fila di lampioni della strada costiera, le auto lontane.
    La pace.
    Di qua del mare una terra immobile, ferma, in attesa: di là del mare chissà.
    Il suono sordo della risacca.
    La pace è un dono.
    Ferma, il passo interrotto.
    Un dono.
    Echi di megafono portati dal vento: la città nel nulla del tramonto, nel vacuo silenzio delle cose.
    I doni si smarriscono.
    Un brivido.
    Bandiere verdi scolorite dal sole garriscono sui pennoni del porto: i fumi delle raffinerie lontane evocano presagi sottili, le immagini di un tempo lontano che torna, le vecchie piaghe del mondo conosciuto.
    Qualcosa sta arrivando.
    Pelle scura increspata da un moto profondo di repulsione.
    Qualcosa che sentivamo tutti.
    Le bandiere sui pennoni.
    Sta arrivando.
    Il sole s’abbassa, ingoiato nel ventre torbido della notte, le ombre s’allungano, la brezza è un grado più fredda.
    Occhi di donna si spostano lenti lungo l’orizzonte vermiglio, scorrono alla litoranea: sferragliare distante dei primi carri armati da Sirte e Mitiga.
    Sta arrivando.
    Il mare ora è del colore del buio, la danza dei gabbiani sono i cerchi della fame, i versi nel vento strilli lontani di agonia.
    La fondina appesa al cinturone: mano poggiata al fianco, solo un istante, a cercarne l’illusorio conforto.
    L’acqua che giunge e refluisce, poi ritorna, il tremito della terra.
    Occhi di donna scendono lenti verso il basso, la sabbia, la schiuma dei marosi. Le alghe portate dalla corrente.
    Muovere appena i piedi, il viso increspato da una sottile, profonda venatura d’orrore.
    I passanti s’arrestano, mormorano, donne velate prendono d’istinto la mano ai propri uomini.
    Le onde.
    Sussurri.
    Le paure più vecchie dell’Uomo.
    Alghe portate dalla corrente.
    La preghiera dei fedeli s’interrompe, la corona di fiori ingoiata dal mare: guardano in silenzio stringendosi di più nelle vesti, mormorando, il colore dei panni a sventolare nella brezza.
    È un moto perpetuo.
    I carri armati lontani sulla litoranea, i fumi delle raffinerie. La voce nel megafono che chiama i cittadini a raccolta.
    Inizia così.
    Faridah è una venere eretta sulla spiaggia fredda, la camicia aperta, i calzoni risvoltati al ginocchio, gli scarponi in una mano, il cinturone con la fondina chiusa.
    Un moto perpetuo.
    La chioma una criniera lasciata al vento, le iridi due gemme d’ossidiana.
    Decine di occhi guardano il mare e il continuo fluire delle onde.
    Perpetuo.
    Alghe lucide s’addensano sul bagnasciuga, le forme bizzarre dei cumuli ricordano corpi umani marci portati dall’acqua.
    Una spiaggia di morti.
    Il respiro sa di salsedine e putrefazione.
    Un battito più breve del cuore.

    Sta iniziando.


    ************************




    Moto_Perpetuo_ridim1





    ************************

  8. .
    CITAZIONE (Tulit-Fert-Feret @ 27/9/2013, 19:08) 
    Sapere molte cose non insegna ad avere intelligenza: l'avrebbe altrimenti insegnato ad Esiodo, a Pitagora e poi a Senofane e ad Ecateo.

    Eraclito.

    Esatto.
    In realtà la figura, che non trovo azzeccatissima, non lascia intendere se quelli discriminati siano i "colti" o gli "intelligenti".


    @Nicholas:
    secondo me non consideri un aspetto importante della questione.
    I bulli non se la prendono con gli "intelligenti", o con i "colti".
    I bulli se la prendono con gli "scarsi". Gli scarsi nella vita, gli scarsi nelle relazioni, gli scarsi nel farsi valere, nel trovare un posto in quel microcosmo che è la scuola.

    Che poi questi coincidano spesso e volentieri con i secchioni, i ragazzi più studiosi, i nerd, ecc. è un altro paio di maniche.

    Si può tranquillamente evitare ogni incursione dei bulli nella propria vita pur essendo colti, nerd, lettori accaniti, ecc.
    Come? Semplicemente essendo "intelligenti".
    I bulli se la prendono con gli scarsi. Se sei una persona che sa farsi rispettare, che sa stare al proprio posto ma che non ha paura del confronto, che è a posto con sé stessa, che magari magari non trascura di fare del sano sport... sta tranquillo che i bulli al massimo ti guardaranno in cagnesco, ma non ti renderanno certamente la vita un inferno.

    Il "bullismo" è connaturato all'essere umano. Non esiste oggi, né ieri, né l'altroieri: è sempre esistito ed esisterà sempre. Può essere giusto, o non giusto, può piacere o non piacere, ma è così, e bisogna imparare a sopravvivere.

    Per quanto mi riguarda, una persona che si reputa "intelligente" può e deve far fronte al problema del bullismo con i mezzi a sua disposizione, cioé quelli che ho scritto sopra.
    Altrimenti non c'è intelligenza, perché di quella i bulli hanno paura (anzi, spesso la rispettano!), ma solo cultura, e quella sì, contro i bulli non serve a nulla. :)
  9. .
    CITAZIONE (»Milù Sunshine» @ 19/8/2013, 15:58) 
    Detto così, sembra che tu abbia le sembianze di uno zerbino. XD

    Infatti prima di aprire lo spoiler non avevo ben capito se mi si stesse davvero paragonando a un tappetino. :lol:
  10. .
    CITAZIONE (Chelepo dalle Ande solariane @ 19/8/2013, 10:29) 
    L'isola su cui si ritrova Noble sarebbe un tributo a Lost, ma, ovviamente, nessuno tranne me lo capirebbe.

    Io ho pensato subito a quello in realtà. ^^
    L'idea della giungla immobile contrapposta alla spiaggia mi ha portato in mente le identiche inquadrature dell'inizio (e della fine) di Lost.

    CITAZIONE
    Il nome Noble è anch'esso un tributo, ma quello non mi peserà cambiarlo, se un giorno vorrò fare qualcosa del mio romanzo.

    Ma non c'è alcun bisogno di cambiarlo..

    CITAZIONE
    Questa è la parte del commento che ho capito di meno. Prendendo come esempio il primo capitolo, intendi che devo evitare frasi come:
    "Non poteva permettere che quelle informazioni potessero andare nelle mani sbagliate: le conseguenze sarebbero state catastrofiche."?

    Esattamente, ma non solo.
    Il narratore onniscente si verifica quando il lettore, leggendo, non ha la percezione di seguire una storia "visiva", quantopiù che ci sia una voce narrante che descrive tutto, dalle scene ai pensieri dei protagonisti.
    Ciò a volte può essere voluto dall'autore (ad esempio perché la storia è effettivamente raccontata da un narratore esterno), ma non credo sia questo il caso.
    In genere ciò non è molto gradevole, perché rende appunto la lettura "mediata", fa sentire la presenza intrusiva dell'autore.
    Un po' di onniscenza è sempre inevitabile, ma bisogna cercare di sfruttare di più lo "show, don't tell", lasciare che le informazioni arrivino al lettore tramite intuizione o espedienti.

    Nella frase da te citata, ad esempio, il semplice fatto che Christopher cerchi di nascondere dei documenti, magari in modo febbrile, lascia già subito intuire che sia roba che scotta e che non deve finire in mani sbagliate. Descrivere in modo "accorato" la scena di lui che nasconde i documenti evita senza dubbio l'intrusione del narratore onniscente.

    CITAZIONE
    con il tuo stile di scrittura ti abbiamo consacrato a re dell'azione :D .

    Addirittura! :D


    CITAZIONE
    Cercherò di rivedere la scena, magari prendendo come esempio gli inseguimenti descritti nei libri che mi girano per la casa.

    Per le scene d'azione bisogna solo prenderci la mano, poi vengono da sé.


    CITAZIONE
    Optai quindi per creare una città immaginaria, che decisi di chiamare Columbia.
    Chiaro, possono essere fatte molte critiche a questo, e magari un giorno cercherò di trasferire il romanzo in una città conosciuta sostituendo i nomi delle strade.

    In realtà, per quanto normalmente sarei contrario alle invenzioni di sana pianta (vedi la Moebius :P), appoggio la scelta della città inventata. Mi sono reso conto, avendo fatto lo stesso, che inventare la location, mantenendola plausibile, permette più libertà d'azione.
    Io però ho scelto, per il mio progetto, proprio l'Italia. Conoscere bene qualcosa è fondamentale per rendere realistico l'insieme.



    CITAZIONE
    2)Mi sono dimenticato il nome dell'auto una volta scaricata la foto da internet :D

    Questa è una ottima motivazione. ^_^

    CITAZIONE
    Ti ringrazio per aver letto il mio romanzo, e sono felice che, tutto sommato, un po' ti piaccia.

    E' un buon lavoro, e io ho gusti piuttosto difficili, per cui se non ho smesso dopo la prima pagina è perché vedo del potenziale. ;)
  11. .
    Ho letto fino circa a metà e inizio a esprimere un primo parere.

    Da un punto di vista strutturale, il lavoro è buono. Lo stile è in costruzione e si vede, ma pian piano va delineandosi. Anche le idee sulla trama, nonostante i tuoi cambiamenti in corso d'opera, sembrano comunque indirizzate con un progetto ben preciso in mente, che è un requisito fondamentale.

    Sulla vicenda è forse presto per esprimersi, per ora si sente molto l'influenza di Fringe, se non nel tema trattato almeno nei modi e in alcune scene. :)
    Visto che, intuisco, il tuo lavoro ne è stato certamente ispirato, io avrei cercato di lasciare più spazio alle citazioni (es. il nome Noble) e meno agli aspetti pratici (la vasca, ad esempio...), che rischiano di creare delle sovrapposizioni mentali nel lettore che in genere non giovano al fattore "originalità".
    Specie se intendi tentare la pubblicazione, non sottovalutare questo aspetto!
    Per il resto, mi sembra che tu voglia addentrarti in una commistione tra scienza e religione che può essere molto interessante: il mio consiglio è quello di valorizzare questo aspetto dandoci il giusto alone di mistero. Svela il meno possibile!


    Come osservazioni più generali, sulla forma, ne ho tre:

    - usi tantissimo le formule "disse", "rispose", "replicò", ecc.
    Sfoltiscile, non aver timore di mettere due battute di parlato in sequenza: se sono solo due persone a parlare, il lettore non farà fatica a capire chi dice cosa.

    - fai tanti errori... bizzarri. :P
    Non capisco se siano di battitura o di concetto, ma ogni tanto se ne trovano anche di buffi. Purtroppo non ne ho tenuto nota, però ce ne sono diversi. In particolare, mi è rimasta in testa la penna "stereografica" del primo capitolo... A meno che sia una cosa voluta, ma...
    Rileggi con più cura. Non avere fretta di postare, la fretta è cattiva consigliera.

    - nella storia c'è tanto narratore onniscente, col difetto di appesantire un po' la scorrevolezza del testo e rendere tutto meno fluido. Tenta di limitarlo, lascia più spazio alle descrizioni impersonali: lascia andare la penna, insomma, cerca una maggiore fluidità.
    Parlando della scena dell'inseguimento in auto è un buon esempio di cosa intendo: è ben descritta e si riesce a immaginarla sequenza per sequenza, ma manca secondo me il ritmo incalzante che dovrebbe avere una scena adrenalinica di questo tipo.


    CITAZIONE
    E' per questo che vi chiedo una mano: c'è qualche buontempone che potrebbe leggere la nuova versione del capitolo I, che posto qui sotto spoiler, e dirmi che ne pensa?

    Meglio la versione "nuova". Anche se non risolve, secondo me, i problemi legati al narratore onniscente, aggiunge brodo.
    Per scrivere un racconto e ipotizzarne la pubblicazione, dal basso della mia inesperienza, sono convinto che serva saper creare un'atmosfera. Quindi non aver paura di risultare noioso scrivendo di più. Prenditi il tempo che serve per imbastire tutto quanto: l'attenzione del lettore va catturata con espedienti e ritmo, non con la lunghezza vuota di contenuti né con la frenesia. ;)


    E infine toglimi un paio di curiosità.
    1) Non sono mai stato in America, per cui chiedo: quanta realtà c'è nei tuoi scenari? Voglio dire, strade, luoghi ecc. esistono veramente o sono inventati?
    2) Ma se la Moebius l'hai immaginata simile all'auto di quella foto, perché non dare a Rose proprio quell'auto della foto? :D



    EDIT: avrei anche un altro consiglio, di natura più "tattica", da darti, ma credo che lo farò per PM. :drop:
  12. .
    Mi trovi d'accordo solo in parte.

    Io credo semplicemente che gli uomini non siano (e non debbano essere) tutti uguali. In base a come ognuno di noi è fatto, sarà portato a vivere perseguendo le soddisfazioni materiali o quelle spirituali, facendo qualcosa per gli altri o pensando solo a se stesso.
    E non dimentichiamo che non ci sono regole fisse: si può passare dall'una all'altra categoria in base agli eventi della vita.

    La via giusta, secondo me, sta nel mezzo. Cercare di realizzarsi è importante, ma è altrettanto importante staccare la spina quando serve, concedersi il lusso di essere liberi.
    Perché l'organizzazione, come intuisco che la intendi tu, è una gabbia, una prigione; se entra nel tuo sangue poi non ne esci, rischia di marchiarti nel profondo.
    Anche il sapere, a suo modo, è una prigione. Sapere tanto ti porta a guardare il mondo con occhi diversi, non migliori né peggiori, ma diversi, e l'essere diversi è la prima strada che porta a vivere male, vivere in maniera insufficiente.

    Perché il mondo, purtroppo o per fortuna, non segue i principi che hai esposto in questo interessante post.


    CITAZIONE
    Sarebbe bello rivedere il decollo dell’umanità.

    A cosa ti riferisci con rivedere? :)
  13. .
    La tua è un'età difficile, e questo è un dato di fatto.

    Non conoscendoti non so dire se e quanto la percezione delle cose che hai descritto sia fedelle alla realtà (tendiamo a ingigantire molto quando siamo tristi e/o sfiduciati).

    Per come la vedo, comunque, hai poche possibili soluzioni, ma tutte richiedono una sana dose di maturità.
    La prima e più importante cosa che mi viene in mente, è: hai mai provato a parlare con lei, tua madre, in maniera seria e rilassata, di questo "rapporto" che non funziona?
    Con "parlare" intendo proprio parlare, faccia a faccia, senza rabbia né risentimento né pregiudizi. Perché a volte parlandosi a cuore aperto si possono capire molte cose che le urlatacce dopo un litigio, rimprovero, ecc. di sicuro non lasciano trasparire.

    Altre soluzioni sono più profonde e probabilmente troppo precoci per la tua età.

    Ricordati una cosa importante: le persone, TUTTE, non agiscono mai a caso. Non si comportano bene/male perché gli va di farlo.
    Lo fanno perché hanno un motivo.
    Può darsi che quel motivo ti sia ignoto o incomprensibile, ma esiste. Sta a te cercare di capirlo e scegliere se è qualcosa che puoi accettare o meno.


    Ciao.
  14. .
    Brevissimo.
    Buona lettura!



    +++++++++++++++++++++++




    Io sono Uno.
    Uno non ha sinonimi: è nozione intrinseca di se stesso.
    Uno è materia celeste, perché Dio è Uno e Uno è Dio.
    Nesso logico inattaccabile: io sono Dio.
    In quanto dio non amo ostentarmi, ma pretendo adorazione: totale, incondizionata. Adorare è sinonimo di temere, e temere è solo la voce verbale più prossima alla paura.
    Terrore.
    Vi hanno detto che Dio si nutre di ambrosia: falso. M’ingozzo a pieni sorsi della vostra inquietudine, il tremore che prende le mani, le viscere, talvolta i lineamenti del volto, quel sottile pulsare di vene alla tempia, la goccia madida che scenderà nel collo del vestito.
    Vi hanno detto che Dio è in tutte le cose: vero. Il mio elemento sono gli alberi, i prati, le grandi rocce, le sabbie, persino i fiumi, le nevi.
    Io sono l’unica rossa luce che vi è data nelle tenebre, la notte non ha per me segreti. Vi affannate a stringervi nei vostri ripari, ascoltando il mio soffio gentile accarezzare le ore, lunghe e interminabili, i giorni, l’intero scorrere di una miserabile vita. Latrate un dolore che non mi riguarda maledicendo un’entità celeste che non v’ascolta, senza sapere che sono qui, affatto lontano, a guardarvi spendere il poco tempo che vi concedo in gesti e cure verso coloro che chiamate cari.
    Vi osservo col mio unico occhio affaccendarvi in quotidiane mansioni, speranzosi che io sia solo un brivido nel vento, una voce, un’illusione. Che io esista solo nei vostri pensieri.
    Giurereste che sono muto e astratto, ma la mia circostanziata parola vi induce alla fuga, disordinati armenti, il mio castigo invariabilmente si appropria del vostro respiro, della vostra anima.
    E allora cadete, prostrati.
    Distesi su terra e fango, erba o acqua, col volto fin immerso nella mota per adorarmi, tributarmi eterna e incondizionata devozione: miei per sempre.
    Mi chiamate crudele, ma non è crudeltà quella che vi riservo.
    È Libertà. Compassione. Pietosa forma di rispetto.
    Siete il mio gioco malato e l’unica ragione per cui ritengo di esistere.
    Posso allontanarmi o guardare altrove, ma in fondo sapete che tornerò sempre e comunque, che mi ricorderò di voi. E sperate ogni volta che il mio umore non sia tetro, che limiti il mio arbitrio per definizione sconfinato a una fugace apparizione. Perché sono il vostro dio, e in questa vita non ne avrete un altro al di fuori di me.
    La mia parola è il sibilo, la mia rabbia è tempesta.
    Io sono Uno.
    Un’altra guerra, oggi, e una nuova missione; ogni volta un sapore differente, un’emozione la cui eco nobilita i sensi. Occhi chiusi, occhi aperti, e guarderò bruciare case, campi, strade e corpi, in un solo e fugace momento, prima di cominciare l'opera, suonare la mia canzone, cercandovi tra il fumo e i lamenti, la mia implacabile fame di vita.
    Non importa chi sarete, se uomini, donne, bambini: scriverò ogni nome, quale che sia, con un segno sul mio strumento d’orchestra. Tacche, fino a che ci sarà spazio: 40 corsivi.
    Più di tutto, non avrò rimpianti.
    Io sono il Cecchino.







    +++++++++++++++++++++++



    Edited by « Soldier of Fortune » - 21/7/2013, 23:46
  15. .
    Vi ringrazio moltissimo delle osservazioni e degli apprezzamenti.


    CITAZIONE (Chelepo @ 15/7/2013, 11:33)
    Wow... ho appena finito di leggere.
    E' la prima volta che leggo qualcosa scritto con uno stile così particolare: mi piace molto.
    Per questo sarà molto difficile da commentare.
    Ogni frase porta con sé un immagine diversa, anche se talvolta è difficile correlarle tra di loro, riusciendo a intravedere, nelle frasi, la trama principale che si sviluppa.
    Ecco appunto, il punto debole, credo, di questo stile particolare: riuscire a trovare la perfetta combinazione tra sequenza di immagini evocate, stile utilizzato e struttura dei periodi che riesca a far intravedere con un po' meno di difficoltà la trama seguita.
    Mi piace l'accostamento della prima persona e dei verbi all'infinito, anche se in un paio di occasioni a parer mio sarebbe stato forse meglio il presente indicativo. Ad esempio, nella frase

    CITAZIONE
    Camminiamo. Attraversare la strada, sgombra, poche auto parcheggiate sull’altro lato.

    Sarebbe suonato meglio secondo me

    Camminiamo. Attraverso la strada, sgombra, poche auto parcheggiate sull’altro lato.

    Così come nella frase

    CITAZIONE
    Correre. Prima quieto poi sempre più forte, scendendo un piano, imboccando il primo dei corridoi ancora deserti: non lo resteranno per molto.

    Avrei scritto

    Corro. Prima quieto poi sempre più forte, scendendo un piano, imboccando il primo dei corridoi ancora deserti: non lo resteranno per molto.

    Ti ringrazio dell'osservazione.

    Per quello che era il mio intento, ho fatto questa scelta di massimizzare i verbi all'infinito con lo scopo di spersonalizzare il racconto. Non so come spiegarlo, è un effetto che mi fa il leggere scritti in prima persona: la presenza di verbi come "corro", "faccio", "mangio", ecc. alla prima persona mi suonano sempre male, sanno spesso di infantile: non so davvero come spiegarlo. Mi suonano banali.
    Da qui anche l'idea di pesantezza degli scritti in prima persona di cui accennavo a inizio racconto. E' una idea mia, ovviamente, ma li trovo spesso molto poco musicali, ragion per cui ho cercato di usare il più possibile l'infinito per quelle azioni non primarie o non fondamentali per l'effetto scenico.

    In questo senso sono doppiamente contento di sentire che non è risultato pesante alla lettura.



    CITAZIONE
    E' stato difficile riuscire a carpire la storia principale dal racconto: purtroppo la scelta di uno stile come questo può portare a questi inconveniente.
    Sono però convinto che con l'esercizio questo particolare modo di scrivere possa evolvere e diventare qualcosa di molto bello; peccato scrivi poco in prima persona.

    In realtà, il racconto è la trasposizione di un sogno molto vivido che ho voluto fissare su carta. L'azione stessa del sogno era molto confusa, soprattutto non c'è logica nelle architetture e nelle "mappature" della scuola.
    L'effetto astratto dell'intera narrazione è probabilmente un riflesso di tutto ciò: è veramente difficile capire cosa succeda.

    Da qui, tra l'altro, la "necessità" di usare la prima persona cui non sono abituato.



    CITAZIONE (dany the writer @ 15/7/2013, 18:38)
    Ed ecco che trovo anche qui su SN uno stile già incontrato e saggiato sul Forum Gw Tilea, quello delle immagini per narrare.
    Il mio parare al riguardo è che è uno stile bellissimo per come suggerisce le scene, ma personalmente lo trovo adatto ad un album fotografico o ad un foto-romanzo; in narrativa vera e propria diventa difficile -almeno per me, che do questo parere- da seguire ed apprezzare veramente per le sue potenzialità.

    Impetuoso dopo le prime righe, il testo trascina se stesso come una sorta di torrente; ha una forza, data dagli echi della mitologia che citi, lesta a fare pensare ad uno Young Adult a tema d'amore e lotta...salvo il finale, a prima vista estratto da un articolo di cronaca locale, che licenzia il tutto come una sorta di atto vandalico a scopo dimostrativo.
    Il che fa sfumare ogni cosa come al termine di un sogno non-incubo che qui scoppia al sole.
    Che cosa abbiamo letto?
    Che cosa era vero, pensato, razionale o irrazionale?
    Per restare in tema...solo il fuoco lo sa.

    Carissimo, lieto di ritrovarti qui.
    E lieto che l'effetto sogno abbia in qualche modo suscitato i tuoi interrogativi.


    CITAZIONE (»Milù Sunshine» @ 16/7/2013, 14:51)
    Mi è piaciuto molto questo racconto, con un finale sorprendente che probabilmente vuole lasciare intendere che le immagini che si sono susseguite erano soltanto fantasie dell'imbrattatore.

    Direi azzeccatissima la tua definizione: è un castello mentale del protagonista narratore che vede grandi cose in un mero atto vandalico, seppur fatto per amore.

    CITAZIONE
    Mi è piaciuto il tuo stile, hai costruito un racconto molto scorrevole, e spero di poter leggere qualcos'altro di tuo in futuro. ^^

    Ti ringrazio molto e avrete sicuramente occasione quanto prima.

    CITAZIONE
    Solo un piccolo appunto:
    CITAZIONE
    Alba e crepuscolo assieme, inondazione di riverberi rossi e gialli, ombre lunghe.

    Probabilmente intendevi il tramonto, non il crepuscolo (che per definizione può riferirsi sia a quello del mattino, quando il sole non è ancora sorto ma già si vede la luce, sia a quello della sera, quando il sole è già sceso oltre l'orizzonte ma se ne vede ancora la luce).

    Mia svista: dimenticavo che il crepuscolo è in effetti ambivalente.
    Grazie della segnalazione.
15 replies since 23/5/2013
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