Scrittori della Notte: liberi di scrivere

Posts written by « Soldier of Fortune »

  1. .
    Grazie mille a entrambi. :)
  2. .
    Ti ringrazio molto del bel commento. :)

    A presto
  3. .
    @Milly: anche a me quel film aveva disturbato abbastanza. :ph34r:

    @Pavone: ti ringrazio molto del commento e dell'apprezzamento.
    Mi piacerebbe sapere anche da parte tua se si intuisce che i due personaggi femminili sono in realtà il medesimo o l'effetto sorpresa finale è riuscito.

    Grazie!
  4. .
    Ciao Milly,

    la pronuncia corretta è Samàra.

    Vorrei chiederti: si intuisce che i due personaggi femminili sono in realtà il medesimo o l'effetto sorpresa finale è riuscito?
  5. .
    Ricompaio dopo discreta assenza dispiegando il mantellone nero. Surprise!

    Racconto un po' lunghetto, ma è scritto molto staccato.

    Un saluto.
    Soldier


    *********************


    La Vergogna





    Sussurro metallico, stridore, attivazione dell’impianto umano per il risveglio controllato: un sottile ronzio che diventa rumore vivo in timpani augmentati.
    Occhi aperti.
    Verde di iridi fisse, nessun residuo dello stato di sonno appena concluso: si alzò dopo un lungo attimo di attesa.
    Lasciò il letto, un pianale rigido senza lenzuola né cuscino; rimase ferma davanti a uno specchio che non c’era, vestigia d’una abitudine passata, pure la parve di riuscire a scorgersi nella parete bianca, ruvida, del loculo. Un corpo che doveva essere magnifico, perfezionato e curato al dettaglio con una decisa chirurgia muscolare, cutanea e ossea.
    Le sfuggì un sorriso, un tocco di vanità sopravvissuto al cambiamento.
    Alzò un braccio, la carne bronzea, depilata artificialmente, sembrò brillare nello spiraglio di luce che era la sola finestra del minuscolo locale: piccoli led azzurri baluginarono sotto la pelle del polso, le rune del risveglio, quelle di mansione. Camminò, scalza, verso il piccolo scomparto a colonna che era l’unico arredamento. Lo aprì.
    La tuta nera integrale e i pochi altri accessori parvero guardarla di rimando, perfetti come lei stessa.
    Ricordi di abiti femminili, qualche parure di bigiotteria per le serate migliori, acconciature improvvisate col poco che la vita di paese poteva offrire: tutto scomparso senza sentirne alcuna mancanza.
    Si inginocchiò, lenta, rese grazie al dio benevolo che l’aveva scelta come strumento, come ingranaggio, del suo orologio.
    Tornò eretta.
    Iniziò la vestizione recitando in un soffio i Salmi della Catarsi.

    “Samara”.
    Occhi verdi alzati, l’attesa immobile nell’abside del Golgotha: il Monitore la raggiunse al passo quasi impercettibile di stivali insonorizzati.
    Lei chinò il capo. “Ascolto”.
    Un monile di rame offerto, marchio di missione, lo accolse nella mano guantata.
    “Distretto di Contera, Secondo Quadrante. L’uomo risponde al nome di Azequia Trivalde, mercante di schiavi: individualo, accerta l’identità, terminalo. Nessun vincolo esecutivo”.
    Altro chinare del capo. “Obbedisco”.
    “Non è tutto”. L’uomo, calvo, sfregiato, aprì una mano sul cui palmo meccanico apparve un giovane volto femminile. “Il tuo complemento di missione: famiglia facoltosa, rapita per rivalsa, venduta a Trivalde cosciente della sua identità, tradotta verso Contera. Deve essere portata al punto d’incontro che ti sarà trasmesso, viva, integra, libera: la sua famiglia chiede vendetta per l’affronto”.
    “Obbedisco”.
    “Risponde al nome di Ondine Agrellia”.
    Silenzio.
    Brivido.
    Labbra piene dischiuse, battito di ciglia su occhi verde intenso. “Ondine?”.
    Lo sguardo del Monitore incupì, così le sue cicatrici. “Esiti?”.
    Chinare frettoloso del capo. “No. Eseguo”.
    “Termina una vita, salva l’altra: vai, Samara Ezrahel, l’Imperatore ti sia propizio”.

    Doppio portone richiuso: il Tempio del Golgotha dietro le spalle.
    Samara avvolse la figura nella mantella grigia, svanì nell’indumento dei viaggiatori, calò il cappuccio sulla testa a coprire il biondo ramato dei capelli tagliati corti, sollevati in una morbida onda.
    S’incamminò, stivali nella polvere.
    Marciare lento, un bastone di legno grezzo nella mano, indifferente alla calura del primo mattino.
    Nessun sentiero, solo la pista tra i sassi e le rocce, i canyon grigi, il cielo incolore.
    Camminare.
    Il Tempio celato tra le rocce, indietro, presto scomparso alla vista.
    Camminare.

    ***



    “Ondine”.
    Sguardo spostato dallo specchio alla porta, un sorriso presto svanito dai tratti fluidi e curati. Fedor Murabica, dalla soglia della camera, appoggiato allo stipite, guardava nel suo modo profondo e inquietante.
    “Ti fai bella, Ondine?”.
    Lei abbassò lo sguardo, inspirò, cercò di distrarsi con una spazzola, un pettine, qualsiasi cosa che la distraesse da lui, le sue attenzioni morbose. “Mi preparo”.
    “E per cosa, Ondine? Solo per andare al mercato, giù in paese?”.
    Lei tornò a fissare lo specchio, deglutì. Lo sentì avvicinarsi, quieto, fermarsi accanto a lei. Inspirare a fondo.
    “Mi piace il tuo odore”.
    “Perdonami, sono di fretta”.
    Fece per alzarsi dalla modesta seggiola, lui la trattenne. Le annusò i capelli di un castano chiarissimo. “Perché vai di fretta, Ondine? Voglio stendermi con te. Con te sul letto”.
    “Non possiamo”, voce affannata, inquieta, “Lo sai che non possiamo…”.
    “Perché no?”, sussurro, “Per via di tua madre?”.
    “È anche la tua, di madre”.
    Un bacio sul collo, forzato. “Non è mia madre… non lo è… lei mi condiziona, mi opprime…”.
    Ondine si mosse, cauta, ogni gesto mirato a non farlo arrabbiare, non provocarlo; “Devo andare al mercato”, si scostò, “Sono già in ritardo”. Fece per avviarsi, si trovò di nuovo trattenuta.
    “Fammele toccare, Ondine, le hai così grosse e sode… Lo sai che le amo…”. Svicolò ancora, la maglietta tirata in un gesto protettivo.
    “Mi fanno ancora male, non voglio”.
    “Non ti fanno male, non è vero… Io sono delicato, lo sai… Ti prego…”.
    Lei non rispose; s’avviò fuori dalla stanza e all’aperto, in strada, il magro viavai di contadini, viandanti, pastori con capre sporche di fango. Andò sul retro, dove la vecchia madre sedeva, all’ombra d’un telone, conciando le pelli. Il volto rugoso le s’illuminò guardandola.
    “Vado al mercato, ma’”, scandì Ondine ritrovando il sorriso, “Ti prendo i batayutas”.
    “Vai, muchachita, che sei bella come il sole”.
    La baciò in fronte, forte, prima di scostarsi e avviarsi in strada con un ultimo, ridente commiato.
    Il sole opaco e caldo del pomeriggio, la gerla in spalle. Ondine si guardò dietro una sola volta che lui non la seguisse, poi s’incamminò a passo spedito sul sentiero battuto, intorno l’erba ingiallita dal sole, le persone, gli animali. Il mondo che amava, eccetto lui, il grande punto nero sul telo della sua vita.

    Solo nell’alloggio: Fedor a fissare il vuoto, il letto, le sue cose.
    “Bastarda”. Umettare di labbra, fastidio. Collera. “Bastarda maledetta. Puttana. Puttana tu e tua madre”.
    Silenzio.
    “Non mi rispetti”. L’immagine riflessa nello specchio. “Tu non mi rispetti!”.
    Moto d’ira.
    Sdegno.
    “Io t’insegnerò!, IO!”.
    Un pugno cacciato contro il vetro riflettente, incrinarlo, ferirsi le nocche.
    Singhiozzare. Di rabbia, di angoscia.
    Sfregarsi i capelli in un moto schizofrenico.
    Un pensiero selvaggio, crudele. Un pensiero malato.

    ***



    Camminare.
    Il paesaggio monotono, ripetitivo, delle lande di Saguarna.
    Un bastone nella mano e la mantella grigia: Samara Ezrahel camminava nel nulla fosco, brullo, del suo mondo.
    Distese di roccia e ardesia a perdita d’occhio, interrotte solo dai piccoli massicci dell’Orcal, dai pinnacoli di pietra antica. Non un’anima per miglia, non un trasporto, neppure una bestia, scorpioni e millepiedi a contendersi quel poco in grado d’attirare lo sguardo, tra piante grasse troppo piccole per essere notate.
    Camminare.
    Solitudine e vuoto il teatro per pensieri, spesso molto vecchi, lasciati all’angolo del mainstream della vita, dimenticati ma pronti a riaffiorare, occupare l’intercapedine tra dovere e coscienza, tra razionalità e preghiera.
    Samara e la sua figura scura, un punto nell’immensità selvaggia della natura, del deserto, lo stesso dei sensi, l’autoimposto schema di contenimento, la gabbia delle pulsioni che aveva imparato a domare, controllare, amministrare con la cura di una madre.
    Camminare.
    Stivali neri nella polvere, occhi verdi al nulla, il grigiore radioso del cielo.
    Pensò a Ondine.

    ***



    Sguardo dubbioso, come la proposta celasse un’insidia. “Dici sul serio?”.
    Il ragazzo, sui trenta, ben piantato e dallo sguardo tetro, annuisce. “Sì. Sì, dannazione”.
    Il mercante un ammiccare appena. “E perché dovresti vendermi tua sorella?”.
    “Sono affari miei”, quella goccia di follia negli occhi, “Non è mia sorella, è la figlia bastarda che mio padre ha avuto da un’altra donna. Prendila, ti dico. È bella, ha sedici anni ma gambe lucide e tette da prostituta. La venderai a un buon prezzo. Io ti coprirò, nessuno saprà niente”.
    L’uomo arriccia il naso, un sorriso beffardo. “Sei una carogna, ragazzo, mi piaci. La prenderò, ma se qualcosa va storto”, un tocco del dito contro la gola, “Sei tu che paghi”.
    “Niente andrà storto. Aspettala al rientro dal paese: c’è un punto della strada dove le rocce e gli alberi coprono la vista. Prendila quando passa di lì, nessuno ti vedrà”.
    Sorriso energico, candore di denti curati, una collana di preziosi e la carnagione brunita. “Farò come dici”.
    “E voglio che soffra. Che sia umiliata. Umiliala!”.
    “Non ti preoccupare, giovane”, un battergli deciso sulla spalla, “Commercio schiavi. È il mio lavoro”.

    Ancora un miglio, il borghetto vicino, la strada già adombrata dal calar della sera.
    Un sorriso genuino, Ondine, il pensiero del rancho, del pane caldo, dell’acqua fresca.
    La gerla in spalle.
    Il curvare della strada, quel punto del sentiero dove vecchi alberi e pietre oscurano la vista e rendono il passaggio un po’ più poetico.
    Il movimento colto con la coda dell’occhio.
    Qualcosa che non va.
    Senso di paura.
    Il passo accelerato.
    Sensazioni, forse immaginazione, magari qualche animale. Una capra fuggitiva.
    Uccelli in volo.
    Paura.
    Un laccio d’improvviso chiuso al collo, una rete gettata addosso.
    Gridare di spavento e sorpresa, uomini mascherati che piombano giù dalle pietre, l’atterrano, alzano la rete, le strappano il carico. Strillare e divincolarsi, invano, mani forti e sporche addosso, un bavaglio cacciato in bocca, un cappuccio sulla testa, legata come un animale.
    La maglietta strappata di dosso, tagliata, poi lei alzata di peso e caricata a spalle.
    “Porta il sangue, veloce”.
    Liquido arterioso buttato da una fiasca sulla maglietta e poi intorno, una scia fatta alla buona per simulare un trascinamento fuori dalla pista, l’indumento gettato sul percorso.
    Assalitori si dileguano nel buio incipiente col proprio carico umano.

    ***



    Pensieri.
    Un passo dopo l’altro affollati, contorti, l’immaginazione libera sui tracciati del vuoto, del paesaggio smisurato e senza punti di riferimento.
    Camminare.
    Salire un costone di roccia, senza fatica, un corpo allenato e ingegnerizzato per l’eccellenza.
    Samara lasciò che la mente continuasse a prefigurare scenari e volti, come se Ondine potesse essere delineata anche al di là di un tremulo ologramma. La sua personalità, il carattere, persino la voce: un insieme di sensazioni che la sua mente, calcolatrice elegante, era più che in grado d’immaginare.
    Rivisse, inventandolo, il rapimento. Sentì la sua paura, l’angoscia.
    L’essere allontanata da un percorso noto, una casa, un ambiente familiare, e trascinata verso l’ignoto.
    La speranza, disse a se stessa, ti tiene viva.
    Immaginò che Ondine ne avesse, almeno per un po’. La speranza che qualcuno venga a cercarti, a riportarti indietro: è il pane dei deportati, degli sconfitti, degli umili.
    E le menzogne.
    Le menzogne di chi copre un intrigo, una storia insana, di chi è autore della tua rovina e gode del saperti in mani ostili, in mani dalle quali spesso non c’è ritorno.

    ***



    Lacrime.
    Un pianto disperato, al lume delle fiaccole, una vecchia madre prostrata, la maglietta in sangue della figlia stretta al volto. Le grida.
    I paesani intorno, attoniti, sconvolti. La gerla abbandonata lì accanto.
    Fedor Murabica abbraccia la donna che lo ha cresciuto come un figlio, il volto tirato in una maschera di rabbia e sgomento. “È tua la colpa, è tua!”, continua a ripetere, iroso, disperato, “Sciagurata che non sei altro! Quante volte te lo dissi di non mandarla da sola! TE LO DISSI!”.
    Quel punto del percorso dove un’insidia non la scorgi in tempo. Paesani a guardarsi intorno, muti, amari.
    La scia di sangue ancora fresco.
    Gli strappi, il trascinamento: un leone dei dirupi, quasi sicuro.
    “Fammi morire, fammi morire!”, la prece disperata di una madre, le braccia al cielo. “Portami via con lei! Adesso, ora!”.
    Ogni tanto una belva così ancora viene da queste parti.
    Eh, che brutta morte.
    Povera, povera Ondine
    .
    I visi costernati. Il dolore negli occhi.
    Un cuore che brucia di soddisfazione.

    ***



    E poi la vergogna.
    Lo stendersi brullo del deserto, le prime vie dei pastori, vuote. Gli arbusti essiccati.
    La vergogna, orribile, della schiavitù. Un senso di impotenza, di disgusto, di soggezione; essere alla mercé di un altro essere umano: la vergogna assoluta.

    ***



    Brividi.
    Tremare senza sosta, lacrime asciutte lungo le gote.
    Sagoma cruda, massiccia, dello schiavista: anelli d’oro alle dita, la barbetta sottile e intagliata. Lo sguardo affamato.
    Ondine in piedi su un ceppo di legno levigato, le mani tenute dietro la testa.
    Nuda.
    Il tepore del fuoco nella tenda.
    Iridi vitree a fissare il nulla, sforzarsi di ignorare quegli occhi suini che la studiano e ammirano, che si nutrono e ingozzano del suo corpo esposto, esibito. Le mani ruvide e callose che la esplorano tra le cosce, le stringono ora il culo, ora il seno florido.
    “Belle grosse, cariche come frutti maturi”, rutta il mercante maneggiando e mordendosi le labbra, sopprimendo l’istinto di scagliarla a terra e possederla in un’intera notte di stupro reiterato, “Se resisto abbastanza da qui a Moncalve”. Risata bassa e uno schiaffo sonoro al gluteo.
    La vergogna.
    Un guardiano srotola la cintura di castità: gliela chiude all’inguine dopo una breve, futile resistenza.
    Ondine in lacrime, umiliata, il sesso rinchiuso in una dolorosa costrizione perché nessuno della carovana ceda all’impulso e la svergini, dimezzando il suo valore.
    Trascinata fuori, nella notte che odora di fiaccole e olio di lampada, nuda e mugolante dietro il bavaglio, percossa.
    Portata al punto dove attende il resto della merce umana, accodata alla fila delle donne, legata, unita alla cordata, messa dietro un’altra che neppure si volta a guardarla, il collo chiuso in un ceppo che le toglie il respiro.
    I seni, floridi, uno stringere e colpire continuo delle guardie, le risa, gli sbeffeggi.
    La vergogna.
    L’infinita, potente vergogna.
    La carovana si mette in cammino allo schioccare di fruste e bestemmie, piedi nudi s’affannano nella sabbia fresca della notte. Servitori smontano il campo nomade preparando il viaggio verso Moncalve e la piazza del mercato.

    ***



    Tenebre.
    Fuochi da campo e fiaccole, lampade elettriche, profumo di ricette speziate ormai a fondo pentola.
    Il deserto notturno uno spettacolo mozzafiato: stelle grandi come denari su un blu cobalto dai toni magistrali.
    Samara Ezrahel, un’ombra, scivolò senza un suono tra le tende, le guardie perimetrali superate senza quasi rompere il passo.
    Due giorni di marcia e non sentirli: poggiò un ginocchio a terra accanto a una delle tende più grandi, un occhio alla propria ombra e la sua inclinazione, nemico principale nelle condizioni di scarsa luce.
    Risa vicine e lo sforchettare di posate in scodelle di ceramica: tre o quattro astanti consumavano un pasto al focolare, qualche metro al di là della tenda. Discorsi captati solo a tratti.
    Esibizioni dei tori nel corral di Moncalve.
    Vino.
    Un nuovo modello d’archibugio laser
    .
    Risa.
    Andò oltre, i suoi passi un silenzio perfetto nella sabbia, intorno il campo dei nomadi in buona parte già vinto dal sonno.
    Poi la tenda più grande, sorvegliata, due uomini seduti all’ingresso, fucili tra le mani. Samara Ezrahel studiò brevemente la scena, immagini fissate nella memoria visiva, ascoltò i suoni più vicini. Respirò.
    Silenzio.
    Tolse dall’avambraccio una coppia di stiletti, depose le labbra sulla lama: li imbevette di un filo di saliva e una prece all’Imperatore.
    Ondine.
    Si alzò, senza fretta, e s’avviò.
    Calma, maestosa, uscì allo scoperto e i volti delle guardie si spostarono su di lei, corrotti da un’espressione stupefatta mista a paura: occhi dilatarono al breve gesto del polso, preciso, al sibilo dei coltelli. Due uomini presero il respiro successivo dal proprio sangue, dieci centimetri di lama frastagliata spediti a fondo nella carotide.
    Due corpi crollarono al suolo annaspando.
    Tenda incustodita.
    Samara Ezrahel varcò la soglia scostando i lembi del telo: entrò nella luce di una lampada a batteria; una donna matura, dalla carnagione brunita, riposava nel giaciglio: aprì gli occhi allertata dal movimento del panneggio, voce impastata. “Querido?”.
    Una mano d’acciaio le serrò la bocca, occhi sgranati: il volto perfetto, scolpito, di una belva dalle iridi smeraldine a un nulla dal proprio. “Tuo marito arriva?”, voce priva di inflessioni. Calda.
    La donna, un gioiello d’opale nella chioma scura, annuì impietrita, mani a cercar di lenire la stretta d’acciaio al volto.
    “Lo aspetteremo, allora”.
    Freddo.
    Stiletto immerso e ritratto dalle costole, puntura dritta al cuore.
    Naike Trivalde si scosse in uno spasmo di morte, occhi rovesciati, lacrime salate sulle gote. Spirò in un gorgoglio.

    Tenda aperta, respiro pesante: l’uomo entrò imprecando, un calice nella mano.
    “Querida?”, tintinnare di anelli alle dita, “Hai mandato via tu i sorveglianti? Dove merda sono?!”.
    Incespicò in una gamba, barcollò, guardò in terra: i cadaveri dei guardiani buttati come stracci.
    Impietrì.
    Il tocco di una lama, il bollore del campo energetico, accanto al collo.
    Osò spostare solo le iridi alla sua sinistra, la figura ammantata che, dal lato dell’ingresso, attendeva immobile. Il calice cadde nella sabbia.
    “Azequia Trivalde?”.
    “Non sono io…”.
    Il calore della spada, vesciche in formazione sulla pelle del collo.
    “Non mentire: è da codardi”.
    “Io non…”.
    “Ondine”.
    “Chi…?”.
    “Ondine. Torna a casa. Con me”.
    Annuire tremulo, il dolore cocente al lato della gola. “Mi ucciderai comunque, trovala da te”.
    Occhi verdi nel buio. “Dimmelo, e vivi”.
    Lunghi istanti, respiro spezzato. Dolore lancinante. “La tenda dello stock è l’ultima a sinistra di qui… seconda corsia…”.
    La spada si ritrasse.
    Espirare sordo, sollievo, sudore sulla fronte. Cuore a mille.
    Un coltello immerso, secco, alla base della cervicale.
    Azequia Trivalde crollò di peso a terra, il tonfo della sua carcassa abbattuta.

    La guardia accanto all’ingresso irrigidì, cacciò un verso soffocato all’entrare del dardo tra gola e carotide. Si accasciò schiantando una seggiola.
    I sorveglianti sul lato lungo sobbalzarono, scodelle buttate malamente a terra, mani febbrili ad abbrancare un fucile, una pistola, una sciabola. La figura ammantata alla luce delle torce.
    Orrore in volto.
    “ASSASSINO! ASSASSINO NEL PERIMETRO!”.
    Samara Ezrahel fu su di loro con la grazia dell’aquila e la ferocia del giaguaro, due passi appena, due spade frastagliate estese e richiuse a forbice: una testa spiccata rotolò in terra, un corpo s’aprì rovesciando le interiora. Schivò un fendente con naturale destrezza, colpì di ginocchio, rialzò l’avversario, girò di lama e lo impalò al grido sommesso di lui. Il cadavere s’afflosciò in terra vomitando sangue bilioso.

    Tendone aperto, figura di donna maestosa, marziale, spade lorde di sangue, disegnata sulla soglia.
    Passi eleganti in un breve percorso fatto di gabbie, di occhi spauriti, di corpi femminili nudi rinchiusi, di respiri affannati, di chiome sporche e scarmigliate.
    Tintinnare assordante di catene.
    Tenda dello stock: eufemismo per serraglio umano.
    Seconda corsia, braccia tese, suppliche d’aiuto.
    Samara si fermò di fronte alla figura rannicchiata, nuda, che guardava con un solo, dilatato occhio da oltre la barriera delle gambe.
    “Ondine”.
    Il viso scavato, magro, della ragazza emerse dall’improvvisato riparo.
    “Torniamo a casa”.
    Specie di sorriso incredulo, di euforia, tra lacrime e voce che non esce.
    Gabbia aperta al tocco della lama potenziata.
    Libera.
    Ondine uscì dalla minuscola prigione, si trovò avvolta in una coperta, condotta verso l’uscita. Braccia si tesero fuori dalle celle, voci rotte supplicarono lo stesso aiuto, libertà, lamenti, preghiere.
    Pianti.
    Uscirono nella notte al suono delle guardie accorrenti: senza fretta, l’angelo della vendetta la condusse lontana dalla luce e verso il perimetro del campo.
    Libera.

    ***



    “Grazie. Di tutto, d’ogni cosa”, voce rotta dalle lacrime, avvolta nella coperta: Ondine singhiozzava mentre il lume di una carrozza, quella di famiglia, si avvicinava di lontano al punto concordato, una deserta stazione di posta. “Grazie…”.
    L’assassina ammiccò appena, il volto, tenue, adombrato dal cappuccio. “Ricorda cos’hai rischiato di perdere. E tienilo sempre stretto”.
    Assentire disperato. Ondine chinò il capo in segno di gratitudine, si riempì gli occhi della figura altezzosa di lei, la guerriera in tuta nera. Il divario così evidente tra loro, lei minuta, acerba, i capelli corvini incollati al viso: neppure un pallido riflesso della maestosa tigre che aveva accanto, che pure non poteva avere molti anni più dei suoi.
    “Comprendo cos’hai dovuto passare”, scandì lei, atona.
    “Più di tutto”, mormorò la ragazza, “È la…”.
    “…vergogna”.
    Silenzio affranto, la coperta stretta di più al corpo fragile e pallido.
    La vergogna.
    “Ondine”, lei guardò senza capire. Un mezzo sorriso colorò le labbra piene di Samara Ezrahel. “Amavo quel nome”.
    La carrozza in arrivo.
    L’assassina si dileguò nelle tenebre.

    ***



    La vergogna.

    Notte stellata.
    La fisarmonica del musicante, nel locale, spande note allegre nonostante l’ora tarda.
    Fedor Murabica s’avvia per strada, direzione casa, s’allontana dai bagordi che lo hanno stancato, almeno per quella sera.
    Nessuno in giro, non a quell’ora.
    Fedor Murabica ha un sussulto, si ferma mentre appronta una sigaretta artigianale: l’occorrente gli cade di mano nella polvere della strada deserta. Sbatte gli occhi per esser certo, scongiurare che l’alcol in corpo non stia giocando un brutto tiro.
    La figura femminile che ha innanzi, confusa con le ombre, supera qualsiasi sua perversa immaginazione.
    Fa per parlare, la saliva gli si blocca in gola, allora deglutisce: trasecola, occhi sgranati.
    “Ondine?”.
    Non c’è sorriso sul volto scolpito, tetro, maestoso di lei.
    “Dei delle sabbie, Ondine…”.
    Vorrebbe parlare, esprimere: sente freddo.
    La figura che ha davanti non ha quasi più nulla della figlia bastarda di suo padre. Gli abiti semplici sono diventati una tuta integrale in termokevlar nero; le mani da adolescente guanti dalle dita in acciaio acuminato; gli occhi da un verde olivino a uno smeraldo artificiale; i capelli pettinati alla buona una criniera di sinto-cheratina, color oro ramato, sollevata in un’onda verso il cielo di stelle.
    “Ondine…”.
    Solo una cosa è rimasta la stessa: la forma importante del seno che gonfia il nero del termokevlar.
    Fedor Murabica crolla sulle ginocchia, la gola aperta da un fendente che neppure ha visto partire.
    Muore nel suo sangue.
    La notte.
    Sulla strada di casa.

    La vergogna.



    *********************
  6. .
    Anche questo è criptico, e il finale volutamente aperto lascia un po' d'amarezza, ma lo stile mi piace molto, è davvero perfetto per racconti horror di questa impostazione.
    Atmosfera creata in maniera eccellente. :)
  7. .
    E' un po' criptico ma a suo modo geniale.
    Mi è piaciuto molto, bello stile!
  8. .
    E' davvero ben scritto, come lessico, ma oltre ad essere un po' troppo ammassato il testo, è anche un pelino troppo "a fiumana".
    Oltre a spezzare, dedicherei qualche pausa qua e là per (anche brevissime) descrizioni della scena, di ciò che c'è intorno.

    ciao
  9. .
    Che poi a ben vedere il titolo del topic era "Cosa scrivere per essere letti?".
    E la risposta, a conti fatti, potrebbe essere "Fanfiction su Justin Bieber" e cose sentimentali sui quindicenni che si giurano amore eterno.

    La risposta può non piacere, ma bisogna prenderla come un dato rilevante.
    Quindi: o ci mettiamo tutti a scrivere sui suddetti argomenti, oppure dobbiamo fare una fatica tripla nel creare qualcosa di così originale e scritto così bene da riuscire a gareggiare con i mostri sacri del segmento.
  10. .
    Se posso darti un consiglio, parti dal finale della storia e dal suo contenuto.
    Chessò:
    - voglio raccontare la storia di uno scrittore misterioso che pubblica le sue opere e con le quali, senza saperlo (o sapendolo) predice il destino di alcune persone che esistono realmente;
    - voglio che la storia finisca in maniera tragica perché colpisce molto di più il lettore e al tempo stesso esprime il mio modo fatalista di vedere le cose.

    E' una base buttata lì. Poi inizi a elaborare tutto il resto, anche con un po' di sana improvvisazione.
  11. .
    E a te piaceva Psyduck e a me piaceva Misty.. de gustibus! :lol:
  12. .

    ************** Puntata 2/3 **************




    “Due di sopra”, scandì il capitano con un gesto alla robusta scala di legno che saliva al piano superiore: guardò i suoi obbedire, avvicinarsi cautamente, occhiate verso l’alto, poi avviarsi sui gradini; vagò per la stanza, pistola in pugno. “Così non sai niente, non hai visto niente, ah?”.
    “Nulla”.
    I passi di stivali ora al piano sopra.
    Tensione.
    Ferrai tirò su col naso, continuò a ispezionare la stanza a larghi passi, si spinse fino all’altro capo, al fuoco acceso nel camino sopra cui scaldava una pentola, l’odore di legumi. Un morso di fame.
    “Eppure ne girano di brutte facce in questi boschi, negli ultimi tempi. Alla radio avvisano che li si deve denunciare, è vietato dargli ospitalità o aiuto di sorta”.
    “Non ce l’ho la radio”.
    “Bravo, te, bravo sei, te ne stai fuori dal mondo”.
    Passi sulla scala: i due soldati ridiscesero al battere delle suole sui gradini di legno. “Di sopra è vuoto, capità”.
    Annuire tetro, labbra umettate. La pistola riposta nella fondina. “È che è proprio strano. Eppure di brutte facce che ci sparano addosso son pieni questi boschi. Ma tu non ne sai nulla, è vero?”.
    Occhi negli occhi.
    Qualcosa dal fondo dell’abisso.
    “Nulla. Io lo rispetto al Duce, non voglio saperne di quelli che vanno nei boschi. Qua non entrano”.
    Lo sguardo profondo dell’ufficiale.
    Occhi negli occhi.
    Abbassò le iridi: la punta dello stivale si mosse sul legno, spostò delicatamente del fango fresco.
    “Son uscito prima”, scandì Tommaso senza scomporsi, “Mo’ la faccio pulire a mia moglie”.
    “Sei uscito, eh?”.
    Ferrai si mosse, passeggiò lento: spaziò attraverso il salotto. Si accostò alla finestra.

    “Io l’avevo detto, l’avevo detto”, Walter si grattò il capo, rabbioso, “Dovevamo mettere uno di guardia. Io lo sapevo che qualcuno arrivava, lo sapevo, me lo sentivo”.
    “Smettila. Qua i fascisti non erano mai venuti. È stato un caso, oppure sono stati informati”.
    “Eh, bella merda, bella merda… Una sentinella ci voleva, uno di noi doveva stare di guardia, cazzo!, doveva…!”.
    “Ormai è fatta, la frittata l’abbiam fatta!, restiamo concentrati, tutti!”.
    “Ma se vengono qua, se vengono, che facciamo?!”.
    “Zitti. Zitti, Madonna, che non sento se arrivano”.
    Silenzio ansante.
    Il buio.

    Una mano guantata toccò l’infisso: la finestra s’aprì leggermente. Aria fresca dall’esterno.
    “Non tieni chiuso qui?”.
    “Così passa un filo d’aria per rinfrescare”.
    Altra occhiata da cane da guardia. Il capitano guardò di fuori, lunghi istanti a contemplare i prati bagnati dalla pioggia, lo stendersi dell’erba per decine e decine di metri fino agli alberi in lontananza.

    Pietro Cimalunga camminava, la mantella sprimacciata addosso, l’elmetto, il fucile in mano, gli scarponi nell’erba fangosa. Costeggiò il lato sud della casa, un occhio sempre rivolto al verdeggiare del prato, l’erbaccia battuta da pioggerella d’aprile.
    La natura.
    Voltò l’angolo, rimase perplesso quando lo stesso occhio gli cadde su una malconcia porta di legno che dava nell’interrato, chiusa.
    Una cantina, sicuro, di quelle dove ci stipi il vino alla buona, o gli attrezzi da lavoro.
    Si accostò alla porta, la osservò.
    Come quella del nonno, uguale.
    Aggrottò le sopracciglia. S’accorse del fermo su cui andava messo il lucchetto, senza che il lucchetto poi ci fosse. Gli si alternarono l’istinto di lasciar perdere e lo scrupolo di controllare.
    Chiamare gli altri?
    Una smorfia come a dire a se stesso che era peggio sentirsi dare del codardo, del coniglio, per non aver aperto una porta da solo.
    Quel lucchetto mancante.

    “Madonna”. Voce un soffio, quasi un pensiero.
    Guglielmo vide l’ombra oscurare brevemente le fenditure del legno, fermarsi esattamente dall’altra parte della misera barriera che li divideva dal mondo esterno.
    La mano di Marco gli si poggiò su un braccio come a saggiarne la presenza, chiedergli che fare.
    Fa’ che non apra.
    Il fucile nelle mani alzato leggermente, il dito sulla sicura.
    Fa’ che non apra.

    Pietro poggiò una mano sulla maniglia, ne saggiò la resistenza: la scoprì cedevole, solo accostata.
    Non ci sarà niente di valore allora.

    Occhi sbarrati fissi alla porta. La figura al di là.
    Fa’ che non apra.
    Tre uomini nel buio, tre armi tese.
    Tre cuori ancora di più.

    Scrupolo, senso del dovere.
    Pietro aprì la porta con uno strattone deciso, la spalancò strizzando gli occhi per guardare nell’oscurità retrostante.
    Il lucchetto che non c’era.

    Lo scatto delle sicure.

    Spari, una raffica secca, come tuoni nel silenzio, schianti, boati.
    Pietro Cimalunga si contrasse, il corpo attraversato da cinque, sei proiettili assieme, crivellato, il verso di morte coperto dal crepitare dell’arma: s’afflosciò a terra di schianto quasi svellendo la porta cui s’era aggrappato con un riflesso.
    “FUORI, FUORI!”.
    Guglielmo si scagliò per primo, si buttò fuori dalla cantina, i suoi lo seguirono di corsa scavalcando malamente il corpo del soldato.

    Sobbalzare simultaneo, più anime nello spazio di un salotto rustico.
    Ferrai s’abbassò d’istinto, lo sguardo gli cadde alla finestra e ai quattro uomini che uscivano di corsa da un qualche ingresso che stava lungo la stessa parete.
    “PARTIGIANI! PARTIGIANI!”.
    Uno di loro si voltò, la mitraglietta nelle mani: scaricò una raffica alta contro la parete, frantumò due vetri, i soldati intorno si gettarono a terra imprecando. Fracasso dei cristalli spaccati, delle suppellettili raggiunte dai colpi, le urla di rabbia, il caos dei sensi.
    I fanti all’esterno risposero al fuoco, ingaggiarono lo scontro dal lato opposto della casa.
    “Attenzione!”.
    Samuele Ferrai, riparato sotto il davanzale, sentì l’avvertimento del soldato accanto ma capì con un istante di ritardo: il vecchio Bombarda si lanciò verso il sottoscala, prese il fucile a due canne celato contro la parete.
    Concitazione, il capitano fece in tempo solo a poggiare la mano sulla fondina, gli occhi dilatati dalla sorpresa e dall’adrenalina.
    La Storia è questo: momenti.
    Il viso rubicondo e gli occhi guerrieri, vissuti, del vecchio che aveva appena alzato l’arma e tolto la sicura con nessun altro scopo che prendersi la vita dal valore più alto nella massa grigio-verde degli invasori.
    Momenti.
    Lo sparo risuonò secco.
    Tommaso Bombarda barcollò: un foro rosso aperto sul petto; il fucile gli si abbassò e il colpo in canna esplose spaccando le assi del pavimento.
    Barcollò con un rantolo. Un secondo colpo, preciso, lo forò poco più sotto, trapassò le costole. Il camicione si macchiò di sangue.
    Momenti.
    Samuele Ferrai guardò attonito al soldato alla propria destra, a terra, il fucile fumante nelle mani, il tiro improvvisato che aveva reso capolavoro.
    Il vecchio Bombarda crollò al suolo di schiena, novanta chili abbattuti di schianto. Le grida di Tea, le mani al volto, gli occhi stanchi invasi dal dolore, l’emozione improvvisa, la fine di tutte le cose.

    La fine di tutte le cose.

    I tre ragazzi all’esterno, il nome del vecchio padrone di casa invocato nella speranza di vederlo uscire, mettersi in salvo: la consapevolezza che non sarebbe mai potuto scappare, non da un’intera pattuglia già dentro casa sua.
    “ANDIAMO, ANDIAMO!”.
    Colpi scambiati coi soldati bercianti dietro la parete opposta dell’edificio, miagolare dei proiettili, scalfire la pietra grigia, rimbalzare malevoli, assordare il silenzio, riempirlo di ruggiti e fischi.
    Ripiegarono correndo all’indietro, poi abbandonandosi alla fuga quando i metri tra loro e gli altri furono sufficienti, quando il raggiungere gli alberi divenne l’unica speranza di salvarsi.
    Guglielmo si voltò due volte, poi una terza, trafelato, una quarta, continuò a guardarsi indietro sperando di vedere il vecchio Bombarda uscire sulle sue gambe.
    Scorse solo le figure grigioverdi delle guardie spostarsi e sparare alla buona verso di loro, imprecare, maledirli.

    Ferrai estrasse la pistola, sporse a scrutare dalla finestra, intravide i partigiani in fuga.
    “AMMAZZATELI! AVANTI! AVANTI!”.
    I soldati nella stanza lottarono per rimettersi in piedi, si scagliarono verso la porta e all’esterno. Quello alla sua destra, lo stesso di un istante prima, s’andò invece a mettere alla finestra, puntò il fucile sull’infisso, tra le schegge rotte del vetro.
    “Vai fuori con gli altri! Inseguiteli, Cristo d’una Madonna!”.
    L’uomo, il ragazzo, non rispose.
    Mantella mimetica, l’elmetto calato sul capo, l’arma tesa e l’occhio allineato alla canna.
    Momenti.

    “L’hanno ammazzato, di sicuro l’hanno ammazzato!”, Walter tremava, ribolliva, un calderone di emozioni mischiate all’affanno della corsa, il peso dell’arma tra le mani, scartare i tronchi sul percorso, i bassi arbusti.
    Paura e adrenalina: un fiume.
    Quelli che se ne vanno è perché hanno fatto la loro parte.

    La canna del fucile allineata attraverso una finestra rotta, decine e decine di metri indietro.
    Sparo.

    Sibilo.

    Walter irrigidì la schiena, come punto da un insetto malevolo: il passo gli rallentò, il respiro se ne andò per un momento, risucchiato dal vuoto.
    “Oh!”, Marco al suo fianco si fermò brusco guardandolo rallentare, “Che è?!”.
    Inorridì: macchia di sangue sul petto che andava allargandosi a vista d’occhio.
    “Oh Signore”.
    Guglielmo si fermò a sua volta, tornò due passi indietro. “Veloci, non fermatevi!”.
    Prese il compagno per un braccio: Walter barcollò, poi semplicemente scivolò sulle ginocchia, il fucile perso dalle mani. Gli occhi dilatati, strabuzzati, già assenti.
    “NO, NO!”.
    Guardarsi indietro, frenetico, la casa appena visibile tra le fenditure della vegetazione.
    “Avanti, avanti!”, sorreggerlo, in due, cercare di fargli continuare il cammino: Guglielmo si rese conto che anche Walter Impeto Zanatta aveva fatto la sua parte, era appena partito per qualsiasi paradiso esistesse per gli eroi. Lo lasciò scivolare al suolo con la poca delicatezza che gli riuscì di trovare nel caos delle emozioni, del male, delle illusioni, le paure, la cruda realtà.
    Andiamo, andiamo!, la sua voce neanche la sentì più mentre strattonava Marco perché lasciasse il compagno, lo seguisse nella fuga.
    Un secondo proiettile fischiò vicinissimo, gli sfrecciò accanto all’orecchio riempiendoglielo di un sibilo sordo e crudele.
    “Andiamo!”.
    Ripresero a correre, voltandosi più volte indietro verso il corpo abbandonato di Walter Zanatta, la faccia sul terreno, finché non disparve dietro le frasche, gli alberi, il muro verde e indifferente del bosco.
    L’inferno di chi resta.

    Samuele Ferrai poggiò uno stivale sul fucile caduto dalle grandi mani di Tommaso Bombarda, lo scalciò a lato con un gesto sprezzante, beffardo. Sovrastò l’omone a terra, gli occhi socchiusi, il respiro un rantolo: le iridi di lui si spostarono come a guardarlo, un ultimo gesto di sfida tra l’alzarsi e abbassarsi affannoso del grande petto sanguinante.
    I gemiti pietosi di sua moglie, inginocchiata accanto a lui, in lacrime, il volto già smunto segnato dal male indelebile dell’abbandono, la fine di tutte le cose.
    Un gorgoglio, fiotto rosso tra le labbra. “Non vincerete…”, tossì, uno spasmo dei polmoni saturi di sangue, “…questa guerra…”.
    Ferrai sorrise sotto la barba nera. “Che t’importa?”, occhi piccoli e crudeli, “Tanto non ci sarai”.
    Alzò la pistola.
    Il grido di Tea dai capelli ingrigiti.
    Lo sparo risuonò nel salotto, il testone quasi calvo di Bombarda si piegò indietro, brusco, un foro rosso nella fronte.
    Quelli che se ne vanno.



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  13. .
    Difficile giudicare con così poco a disposizione.
    Bisognerebbe capire che idee hai in mente, cos'è che ti blocca, dov'è che alla fine vuoi andare a parare.

    Mi preoccupa in particolare la domanda "Qualche idea su come continuare l'opera?", perché mi fa pensare che tu ti stia quasi imponendo di scrivere su questa trama a tutti i costi.
    Ricorda che a volte ripartire da zero, magari rimpastando gli stessi ingredienti, può aiutare a creare qualcosa che funziona meglio.
  14. .
    Più che una trama però è un trailer.
    Ci vorrebbe qualche dato in più per capire dove vuoi andare a parare. :)


    Misty
  15. .
    Non so, giudicare mi è difficile senza aver assistito alle cose.
    Non dico che loro siano nel giusto, ci mancherebbe, solo che a volte non ci accorgiamo di quando ci poniamo male nei confronti di chi legge.
    Fare questo tipo di esame personale può aiutare a migliorarsi.

    Poi magari son proprio fetenti loro, mica lo escludiamo. :D

    Comunque qui non dovresti incappare in problemi di questo tipo. Sono tutti molto disponibili e tranquilli.
223 replies since 23/5/2013
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