We've got to get in to get out

Avevano combattuto fino allo stremo contro se stessi per dimenticare tutto ciò che avevano passato, tutto il tempo che avevano lasciato indietro e ora non ricordavano neanche il perché.

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  1. Brat Fitzparker
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    Sia questo che il prossimo sono più.. profondi degli altri. Forse perché è l'unico, fin ora, che mostra la realtà dei fatti, in un certo senso.
     
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  2. Brat Fitzparker
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    Qui potete anche non ascoltare la canzone per tutto il capitolo, basta anche solo fino all'ultimo "We've got to get in to get out" prima dello spazio. Buona lettura.

    We’ve got to get in to get out.
    (2° part.)

    Jane prese un bel respiro e scese dalla macchina. Si guardò intorno per qualche secondo per poi incontrare le grigie mura della casa numero 500 sulla 6th street, ormai macchiate dalla muffa e dal tempo. Le assi avevano iniziato a marcire, era evidente che nessuno se ne curava più da un pezzo. Sul tetto svettava una voragine lasciata dal crollo di quest’ultimo all’interno dell’abitazione. Erano passati quattro anni ma sembravano molti di più. Nel piccolo giardino crescevano incolte erbacce e steli grigi di sterpaglie selvatiche si piegavano sotto il leggero vento che riempiva l’aria di odore di sale. La bassa siepe che si arrampicava sulle inferriate intorno al cancello era secca, ormai morta, abbandonata a se stessa. Non aveva certo più l’aspetto che aveva una volta, ma quella era, purtroppo, sempre casa sua. Era tornata e lo aveva fatto per niente, bastava un’occhiata per capire che ormai, in quella vecchia casa, non ci viveva più nessuno.
    Non aveva dormito niente, quella notte. Rientrati dalla Christie Road aveva preso la sua macchina ed era partita. Forse era stato il sonno, o magari il residuo dell’alcol che il suo corpo stava finalmente eliminando, ma aveva creduto che fosse il momento di andarci. Ora, però, osservando la carcassa della sua infanzia, non era più sicura di aver fatto la cosa giusta.
    La linea dei suoi pensieri venne infranta come vetro dalla piccola palla che rimbalzò sulla sua gamba. Si voltò di scatto e vide una bambina, poco più in là, che la osservava curiosa. Non poteva avere più di sette anni, indossava una logora salopette in jeans e delle scarpette rosse. Aveva la pelle olivastra e i capelli scuri erano cortissimi. Se non fosse stato per i due grandi occhi verdi che illuminavano il suo viso sarebbe sembrata un maschietto. Jane le sorrise, chinandosi a raccogliere la palla. Se la girò e rigirò fra le mani: ne aveva una uguale, quando era piccola. Una piccola pallina arancione con una striscia nera al centro.
    -Ciao piccolina-
    -Salve signora- rispose lei allegra, sfoggiando un sorriso luminoso e innocente. Era così puro.. la rossa non poté fare a meno di notare quanto la piccola le ricordasse… no, non aveva importanza.
    -Sai per caso se qui vive ancora qualcuno?- domandò. Lei parve pensierosa, poi scosse energicamente la testa.
    -No, mamma dice che qui ci viveva un vecchio signore quando sono nata, dice che non gli piaceva ricevere visite, ma che si sedeva tutti i giorni davanti all’ingresso ad aspettare qualcuno. La mamma dice che era pazzo, ma adesso non c’è più- il cuore della ragazza tossì e rantolò, perdendo qualche colpo.
    -Voi dire che è..morto?-
    -Non lo so signora, io non l’ho mai visto..- ora la bambina sembrava dubbiosa, osservando la palla che la rossa stringeva ancora in mano. Si ricosse e glie lo lanciò, facendolo rimbalzare sull’asfalto. Poi la sentì. All’inizio non fu certa che provenisse dalla vecchia casa, ma dovette ricredersi. Quella canzone, quella che la sua mente continuava a riportare a galla, facendola risuonare per tutta la testa, ora proveniva dall’interno del relitto del 500, scivolando piano verso la strada. Si chiese se fosse impazzita.
    -Tu non la senti la musica?- chiese, voltandosi verso l’ingresso.
    -Si..- mormorò la bambina, stringendo a se la sua palla.
    -Com’è possibile che..- Jane si voltò per tornare a guardare la piccolina, ma questa non c’era più. La musica si faceva sempre più chiara.
    The carpet crawlers heed they’re callers...
    La ragazza fece un passo verso la casa. Devi entrare per poter uscire, si disse. Salì lentamente i due scalini che conducevano dentro il piccolo portico e spinse la porta. Era aperta.
    We’ve got to get in to get out.
    Ora ricordava la canzone che con forza si propagava nel piccolo soggiorno. The Carpet Crawlers dei Genesis. Quello era il gruppo preferito di suo padre, lo era sempre stato. Era cresciuta con quel suono, con quella melodia. La scatola della memoria si era aperta e mentre guardava la stanza ricoperta di muschio, i mobili marci e polverosi, gli oggetti e le macerie giacere ovunque sul pavimento, illuminati solo dal sole che filtrava attraverso il buco nel soffitto, riempiva gli spazi bianchi con ricordi che aveva quasi dimenticato.
    In fondo alla stanza, nella penombra, una figura scura stava in silenzio seduta accanto al vecchio giradischi sporco e coperto di polvere, seduto su una poltrona in pelle marrone ormai sfondata e strappata in più punti da cui fuoriuscivano interiora fatte di gommapiuma.
    -Papà…- sussurrò. La figura sembrò muoversi. Ora iniziava a distinguerne i dettagli e vedeva quegli occhi azzurri ormai stanchi osservarla increduli. Il tempo non aveva scalfito di un centimetro la pelle dell’uomo. Sembrava non fosse passato un solo secondo dall’ultima volta che l’aveva visto. Solo i suoi vestiti sembravano segnati dallo scorrere dei giorni, impolverati e logori come il resto della catapecchia, come se non fossero mai usciti da lì, come se non avessero mai lasciato quella poltrona.
    -Sei tornata..- rispose lui, titubante. Jane avrebbe voluto piangere, avrebbe voluto urlare e corrergli incontro per abbracciarlo, ma non fece un passo. Le sue gambe erano come immerse nel cemento fresco, si convinse che se si fosse mossa sarebbe caduta. La canzone continuava a suonare. Era finita, ed ora ricominciava, sempre la stessa.
    We’ve got to get in to get out.
    -Papà, io..- fece per dire qualcosa, ma non sapeva che cosa. –Mi dispiace- disse infine. L’ uomo si schiarì la voce.
    -Non sono arrabbiato con te, se è questo che pensi-
    -Perché non lo sei?-
    -Perché se avessi potuto sarei andato via anche io, sarei partito come te, ma..-
    -..ma io sono sparita, papà. Non ti ho chiesto di partire con me, non ti ho detto niente, sono solo..- ora farfugliava, confusa. Si domandava se stesse sognando, se fosse tutto uno stupido scherzo della sua testa. L’uomo rise e quella risata le fece male, ne ricordava il calore e nel disordine epocale che albergava nella sua mente si formò un pensiero puro e semplice, chiaro. Le era mancato, le era mancato da matti.
    -Figlia mia, hai fatto quello che dovevi, quello che io avrei dovuto fare quando eri ancora piccola, andare via. Io avrei dovuto portati con me, sono tuo padre, avrei dovuto proteggerti, ma tu non dovevi farlo. Non dovevi preoccuparti anche per me, era giusto che non lo facessi. So badare a me stesso e sapevo che l’avresti saputo fare anche tu- rispose, calmo. –Ora avvicinati, vieni ad ascoltare la musica con il tuo papà…- La ragazza si ricosse, si rese conto di aver trattenuto l’aria fino a quel momento, espirò e si avvicinò lentamente. Sotto i suoi passi il pavimento della vecchia casa scricchiolava.
    -Perché sei rimasto qui? Perché non sei andato via quando..-
    -Perché se fossi tornata, sarebbe stato qui che saresti venuta a cercarmi- rispose, sorridendole, ed era un sorriso stanco, rassegnato. Jane si sedette a terra, davanti a lui. Ora la musica era forte, fortissima, inebriante. La calmava, cullandola.
    There's no hiding in my memory
    There's no room to void

    -…e lei? Dov’è andata?- lui non le rispose. Ascoltava la musica. –Papà, dov’è andata mamma?-
    -Lei non aspettava che tornassi, non le interessava e pensava che non l’avresti fatto. Sai com’è- già, lo sapeva. Ricordava lo sguardo che le rivolgeva. Qualsiasi cosa avesse subito dopo sarebbe stata una carezza rispetto a quell’espressione. Una bambina non merita tanto disgusto, ed è troppo piccola per capirlo. Una bambina vorrebbe che entrambi i suoi genitori la amassero davvero e vorrebbe che si amassero e rispettassero anche fra di loro. Una bambina continua a chiedersi cos’abbia fatto di male, ma ora era cresciuta e conosceva la risposta: niente. A volte le cose vanno semplicemente per il verso sbagliato.
    There's only one direction in the faces that I see;
    It's upward to the ceiling, where the chambers said to be
    Like the forest fight for sunlight, that takes root in every tree.

    -Papà, perché sei ancora qui?- chiese, di nuovo. Improvvisamente non si sentiva più calma, al contrario era irrequieta. Guardava la figura di suo padre e ora gli sembrava vecchio, più stanco. Si sbagliava, il tempo che era passato l’aveva segnato, la pelle, le sue mani, i suoi occhi. Perché non era andato via? Sarebbe potuto essere ovunque, e ovunque sarebbe stato meglio che lì.
    -Perché, dove altro sarei potuto andare?- domandò di rimando lui, con un mezzo sorriso. Poi chiuse gli occhi e sollevò le mani, come per accarezzare la melodia che gli scivolava intorno.
    We’ve got to get in to get out…
    -Mi perdonerai mai?- chiese lei.
    - Non ha importanza adesso-
    -Ma sono scappata senza neanche dirti addio e..-
    -E sei tornata. Non ho più niente da perdonarti-
    -Non dirmi queste cazzate!- sbottò lei. –Non sono una bambina, ne sono idiota, non puoi avermi perdonata, cazzo, sono scappata! Ti ho fottutamente abbandonato! Non puoi dire che mi hai perdonata, non puoi pensare che io ti creda, non prendermi per culo, accidenti!- l’uomo le sorrise, sembrò non scomporsi più di tanto per la reazione della figlia.
    -Non sono io a dover perdonare te, sei tu a dover perdonare te stessa. Il mio perdono l’hai avuto, ora devi guadagnarti il tuo. Sono vecchio, stanco e mia figlia è tornata a casa, alla fine. Anche se fossi stato arrabbiato con te fino a un minuto prima che entrassi da quella porta, non riuscirei a esserlo adesso. Sei diventata una donna bellissima..- sussurrò, allungando una mano verso il viso di Jane e accarezzandole una guancia. –Sei cresciuta meglio da sola che con noi intorno, sono orgoglioso di te- la sua mano era fredda, gelida come il marmo. La ragazza abbassò lo sguardo.
    -Non dovresti, non ho combinato molto, non sono tornata per nostalgia, sono qui perché ho fallito-
    -E come avresti fallito?-
    -Non ho.. realizzato niente, papà, faccio la sguattera per 400 dollari al mese all’Hotel Downtown Berkeley Inn, sono solo una..-
    -Sei felice?-
    -Come?-
    -Mi hai sentito, allora, lo sei?-
    -Bè.. si. Suppongo di si.-
    -Sei più felice della notte che sei partita?-
    -Si, certo.-
    -Allora non hai fallito. Non sei andata via per trovare un buon lavoro, sei andata via per essere felice. A me non interessa chi sei ora, o cosa fai, voglio solo che tu sia felice. Non posso provare rancore per te, eri una ragazzina, avevi il diritto di provare ad esserlo. A volte quando si perde si ha vinto, anche se non ne la maniera che ci aspettavamo- lei sorrise e ora una piccola, solitaria lacrima, strisciava lentamente giù per la sua guancia, invisibile nella penombra.
    The carpet crowlers heed they’re callers..
    -Mi sei mancato, papà-
    -Anche tu mi sei mancata, ma credo sia ora che tu vada-
    -Perché?-
    -Perché sono molto stanco, ho bisogno di riposare... sono felice di averti rivista. Ti ho lasciato anche un piccolo regalo, sul retro. Vai a vedere. Non sono l’unico ad averti aspettata fino ad oggi, se ti può consolare-
    -Tornerò papà, lo prometto- disse, saltando in piedi e sul suo viso era stampato lo stesso sorriso che aveva quando era piccola. Un sorriso che era convinta di aver lasciato sotto il cuscino, la sera che era scappata.
    -No, non lo farai- disse lui, sorridendo a sua volta.
    -Perché dici così?-
    -Perché ti conosco. Ora non hai più bisogno di tornare da me, anzi, non devi averne. Voglio che tu mi prometta di non sentire più il bisogno. Promettimi che non avrai più bisogno di me, che ti perdonerai per avermi lasciato qui-
    -Te lo prometto- mormorò lei. –Addio-
    -Addio tesoro e buona fortuna!- urlò alle spalle di Jane, mentre lei attraversava le macerie del vecchio soggiorno.
    -Anche a te, papà- sussurrò, aprendo la porta d’ingresso.
    We’ve got to get in to get out.

    Sul retro sotto un vecchio telo nero di plastica, c’era lei. Le venne quasi voglia di abbracciarla, ma era un dannato pezzo di ferro, si sarebbe sentita ancora più fuori di testa se l’avesse fatto. Un’ HM Honda da cross. Suo padre ci aveva lavorato per otto mesi per sistemarla, due anni prima che la ragazza scappasse, ma ne era valsa la pena. Avrebbe potuto vederla, ma non l’aveva fatto, no, perché in quell’oggetto aveva messo tutto l’amore che nutriva per sua figlia e quell’amore l’aveva aspettata insieme a lui al 500 della 6th street.
    L’aveva chiamata Brat, monella, ed era il suo tesoro sepolto, dimenticata sotto un telo nero e quattro anni di polverosa attesa.
    Fuori, in strada, era tornata la bambina con la salopette e i capelli corti. Giocava ancora con la sua piccola palla quando Jane fu uscita dalla sua vecchia casa.
    -Signora!- la chiamò. –Ha trovato quello che cercava?- chiese, sorridendole. La ragazza annuì.
    -Si, piccolina-
    -E cos’era?-
    -Un vecchio pazzo con una canzone e.. un tesoro sepolto- mormorò e un’ultima, piccola lacrima si insinuò nel suo sorriso, abbandonando su quel suolo il suo ultimo rimpianto.


    -Mi.. dispiace per ieri sera. Mi dispiace davvero, è che quando sono ubriaco non mi controllo e..- Brat tentava di scusarsi, di giustificarsi per aver fatto lo stronzo la sera prima. Aveva provato a sembrare serio, forte, ma l’aveva finita a fissare i propri piedi e ad arrossire. Odiava quando gli succedeva, ma era un disastro e quella ragazza lo faceva diventare pazzo.
    -Brat, non preoccuparti, okay? Ho.. parlato con Jane, e lei mi ha spiegato come funziona a queste feste, quindi sta tranquillo, è tutto apposto- gli sorrise e lui sembrò rilassarsi, non si accorse che in lei qualcosa stava cambiando. Ci aveva messo poco, ed era bastata una leggerissima spinta. Ora un piccolo tarlo nella mente della ragazza creava un’infiltrazione nel sentimento che fino alla sera prima aveva provato per lui. Qualcosa, nascosta dietro le farfalle che tempestavano il suo stomaco ogni volta che la sfiorava, iniziava a chiedersi se fosse abbastanza per lei, in fondo non appartenevano allo stesso mondo, era sicura di potersi accontentare? Lei era una principessa, Jane aveva ragione, può cambiare tutto tranne quello che sei e lei, in fondo, sarebbe sempre stata una principessa.
    Magari Brat non l’aveva notato, era un ragazzo sveglio ma accecato com’era da quello stupido sentimento che gli dava alla testa e da tutto quello che aveva bevuto e fumato la sera prima non avrebbe potuto accorgersene, probabilmente non aveva percepito il ghiaccio che iniziava a cristallizzare le parole della ragazza e magari era perché neanche la biondina stessa si rendeva conto di avere dei dubbi, ma a Jackie non era sfuggita la piega che aveva preso la sua boccuccia di rosa nel dire che era tutto apposto, ne quell’ombra nel suo sguardo, l’ombra di un dubbio celato sotto un cieco e superficiale sentimento destinato a fallire.
    Avevano un discorso in sospeso, si, e quello era il momento migliore per farlo. Se ne stava lì, poggiato contro il muro della cucina con una sigaretta fra le labbra e ascoltava parlare i due ragazzi nel corridoio. Aspettava l’occasione per acchiapparla e portarla con se.
    -Senti, ti va’ se sta sera torniamo alla Christie Road, solo io e te?- continuò il nanetto.
    -Cos’hai intenzione di fare?-
    -Di farmi perdonare- rispose, mentre quel sorriso sghembo e arrogante che lo descriveva riappariva sul suo viso. Mary accettò e lui le si accostò posando un delicato bacio sulle sue morbide labbra, per poi allontanarsi. –Ci vediamo dopo le prove- mugugnò con un plettro in bocca, mentre riponeva Blue nella custodia. Si avvicinò, togliendosi il piccolo oggetto dalla bocca posandoglielo in mano. –Questo e tuo..- disse, baciandola ancora. -..e questo e mio- concluse, riprendendo il suo plettro. –Ci vediamo sta sera, fatti trovare pronta!- salutò, uscendo.
    Ecco il momento giusto. Erano soli a casa, Jane non era ancora tornata e gli Sweet Youth avevano appuntamento in sala prove. Nessuno li avrebbe interrotti, nessuno avrebbe sentito, sarebbe stato il loro piccolo segreto.
    -Mary!- esordì, uscendo dalla cucina agitando il bastone da passeggio. Lei arretrò leggermente, colta alla sprovvista. Non sapeva che fosse lì, ne si era resa conto di essere da sola a casa con lui. Quel ragazzo le metteva i brividi e nonostante vivessero in quella casa già da un po’ ancora non si era abituata alla sua presenza. Davanti a lui provava quello che si suppone un agnello dovrebbe provare di fronte a un lupo, ma il tutto era mescolato con una strana e occulta forza d’attrazione che non riusciva a spiegarsi.
    -Cosa.. vuoi da me, Jackie?- chiese, sospettosa. Lui mise il broncio come un bambino e mosse qualche passo verso di lei.
    -Solo parlare, dolcezza, non avevamo forse una conversazione in sospeso, noi due?- disse, avvicinandosi ancora e afferrandole il mento, per portarlo a mezzo centimetro dal proprio viso. Chiuse gli occhi e respirò profondamente, come per sentire il profumo. Poi la lasciò andare e, superandola, andò a gettarsi sul suo divano. A malapena riusciva a controllarsi, davanti a lei. Era così pura, così impacciata, così malleabile da suscitare in lui l’istinto di un predatore davanti alla preda sola e indifesa. Lo rendeva famelico, estatico, lo eccitava terribilmente, come un bambino davanti a una palla di zucchero filato.
    -E di cosa vorresti…parlarmi?-
    -Vorrei sapere se ci provi gusto nell’esercitare la tua professione-
    -Vuoi sapere se mi piace fare la puttana?-
    -Si, detto in maniera volgare si- la ragazza rimase in silenzio per un secondo, più irritata dall’idea di essere appena stata definita volgare che non dalla domanda in se.
    -No, certo che no, a chi piacerebbe?-
    -Dunque se io ti dessi, per ipotesi, un’alternativa, tu la coglieresti, no?-
    -Si…si, credo di si- rispose, titubante. Non era sicura di dove lui volesse andare a parare, ma aveva toccato il tasto giusto, ora come ora avrebbe prestato attenzione al diavolo in persona se questo le avesse permesso di trovarle qualcos’altro da poter fare e in effetti non era molto diverso da quello che stava facendo. –Perché?- domandò –Cos’hai, tu, da offrirmi?-. Jackie si leccò le labbra per poi arricciarle come se si dovesse sistemare il rossetto e si alzò in piedi. Aprì la bocca per parlare, ma il suo sguardo cadde sulla porta semi aperta dello sgabuzzino, poco più in là, nel corridoio. Forse, riflettè, avrebbe potuto lasciare perdere, avrebbe potuto chiedere a Jane, assumerla come socia in affari e dare a lei metà del proprio regno, ma c’era qualcosa, in questa possibilità, che lo terrorizzava, per quanto non l’avrebbe mai ammesso, se gli fosse stato chiesto. Certo, era furba, gli piaceva parlarci, lo divertiva e quella notte era stata forse la miglior amante che avesse mai avuto, regalandogli una scopata della quale solo il pensiero bastava a fargli tremare le mani, certo, ma il punto era che quella ragazza aveva una testa, un cervello. Davanti a lei, lui non era ne un predatore ne un pericolo, sapeva che gli avrebbe tenuto testa, se avesse voluto, sapeva che gli avrebbe dato del filo da torcere, che non sarebbe riuscito a impressionarla, a sottometterla al suo, di volere e non poteva sopportarlo. Quando sei il figlio di uno sporco magazzino dimenticato e di una prostituta, quando la tua vita ti sembra così patetica da non poter trovare una via d’uscita dignitosa neanche nella morte, tutto ciò che ti resta è la sensazione di essere migliore di ciò che ti circonda, di valere più di quella culla di ipocrisia in cui sei cresciuto e di tutti gli altri disgraziati venuti su con te. Lui, forte del suo egocentrismo, aveva bisogno di sentirsi migliore di tutti coloro che aveva intorno per non vacillare, per essere forte. Aveva bisogno di essere circondato da codardi per sentirsi un impavido, ma in realtà non lo era. Più furbo degli altri si, ma non abbastanza da sopportare la presenza di una come quella stronzetta rossa nel suo piccolo regno. La regina avrebbe schiacciato il suo dominio, gli avrebbe impedito di fare ciò che voleva con i suoi stupidi sottomessi e in fondo non aveva niente da offrirle, niente che lei volesse e che la rendesse disposta a sottostare alle sue assurde decisioni da drogato: lei non aveva un prezzo e Jackie non poteva permettere che rovinasse tutto perché, nella sua triste e contorta mente malata, quel regno era tutto ciò che aveva e il meglio che poteva permettersi.
    -Jackie?- Mary richiamò la sua attenzione, riportandolo sulla terra. Il ragazzo scosse la testa e si riprese, abbandonando quell’idea, accantonandola in una angolo della propria mente.
    -Un regno. Il tuo regno, principessa- la ragazzina, se prima era preoccupata, ora si era fatta improvvisamente attenta, curiosa. Aveva abbandonato il suo istinto di sopravvivenza, l’aveva scordato e ora voleva ascoltare ciò che quello strano ragazzo aveva da offrirle.
    -Esprimiti- disse, semplicemente.
    -Vedi, io sono un umile spacciatore e questo mi da una cospicua quantità di potere sulle persone, nonché una discreta quantità di finanze da mettere da parte per il mio fondo pensione, se così vogliamo dire, perciò si può legittimamente definire il mio come un regno, un impero, ma alcuni dei recenti avvenimenti hanno reso evidente il fatto ch’io da solo non possa gestire al meglio la mia sovranità, dunque ho bisogno di una.. principessa- concluse, con stampato in viso un sorriso malato, psicotico. La biondina non ci fece troppo caso, però. Stava valutando la sua generosa offerta, ovviamente non ne percepiva l’inganno, o almeno non del tutto.
    -E perché dovresti chiedere a me? Jane ha spacciato per un periodo, lei è sicuramente più capace in queste cose, non dovresti neanche fare la fatica di spiegarle come funziona-
    -Si, ma tu hai qualcosa che lei non ha-
    -E sarebbe?-
    -L’ho già detto, presta attenzione: tu sei una principessa, è questo il punto. Lei è nata con niente e non le interessa niente, per te non è così. Tu qui sei fuori posto, magari non posso ridarti il tuo regno, ma posso offrirti un valido sostituto. Potrai sentirti ancora a casa.- concluse, soddisfatto. Lei rimase in silenzio, non disse niente, ma lui sapeva che ora nella sua mente si agitava disperatamente il desiderio di accettare. Lo guardò, come per supplicarlo di darle tempo e lui sapeva che sarebbe stato meglio lasciare che ci pensasse. Sarebbe bastata una settimana e sarebbe venuta lei a cercarlo con una risposta affermativa. Non doveva insistere, non doveva dire una sola altra parola, doveva solo aspettare ancora un po’. –Prenditi tutto il tempo che vuoi, non c’è fretta. Se non accetterai non avrà importanza, sarà come se non ti avessi chiesto niente- disse, infine, andando verso la porta d’ingresso e uscendo, lasciando la ragazzina da sola con i suoi pensieri. Ma per quanto si tormentasse, una parte di lei aveva già deciso cosa fare, cosa dire. L’idea di riavere un regno, il desiderio di ritrovare il suo posto nel mondo era troppo forte perché un qualsiasi altro sentimento potesse soffocarla e impedirle di accettare. In fondo era sempre la stupida principessa che era inorridita la prima volta che aveva incontrato Jane, davanti a Hats & Hats, a Seattle. Era la solita sciocca superficiale ragazzina che era sempre stata e non le interessava cambiare. Non le era mai interessato e ora che aveva una scelta non aveva motivi per provare a farlo.
     
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    Molto commovente l'incontro tra Jane e il padre. Mi ha stupito il modo in cui l'ha accolta, ma avrebbe potuto starci un po' più assieme.

    Jackie e Brat arriveranno a litigare di brutto per Mary.
     
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  4. Brat Fitzparker
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    Are, we are the waiting unknown?

    Definitelo suicidio morale, o redenzione, descrivetelo come un attacco di follia o come vi pare, ma per Jane l’unico modo in cui poteva giustificare quello che stava facendo era la propria stupidità. Se ne stava lì in piedi, davanti al 2434 sulla 4th street, a Berkeley, mentre torturava nervosamente lo stropicciato foglietto su cui aveva segnato l’indirizzo. Era stato Brat a lasciarglielo, con un mezzo sorriso idiota sulla faccia, “Buona fortuna, ti servirà”, aveva detto, ma la ragazza non aveva dato troppo peso a quelle parole finché non si era ritrovata a fissare quell’edificio: i mattoni a vista e le ampie finestre i cui vetri erano stati ormai opacizzati dal tempo non avevano un aspetto rassicurante, anzi, tutt’altro, per non parlare dell’enorme saracinesca in freddo ferro grigio mezzo arrugginito e della puzza che veniva fuori dagli spifferi. Un tempo era stato un vecchio negozio di ricambi, ma il proprietario era finito dentro per frode assicurativa o qualcosa del genere. Tutti, da quelle parti, conoscevano quel posto, ma lei non era di quelle parti e ai suoi occhi non era altro che un vecchio edificio in rovina.
    Se ne stava lì a osservare la porta, chiedendosi se fosse il caso di bussare o se sarebbe stato meglio voltarsi e andarsene come se niente fosse.
    -Ah, al diavolo!- borbottò sottovoce, per poi sbattere con forza le nocche su quel pezzo di legno marcio.
    Ad aprire fu un ragazzetto che non poteva avere più di diciassette anni. Aveva i capelli cortissimi e la testa quasi pelata lo faceva sembrare un deportato da campo di concentramento. Era magro, accidenti, troppo magro, le guance scavate e gli occhi gonfi e incavati nelle orbite, circondati da un’aureola violacea in contrasto con la pelle candida, gli davano un’aria quasi triste, oscura, troppo per un ragazzino così piccolo. Indossava una vecchia felpa troppo larga per lui, sporca di terra e macchiata sulle maniche e sul petto sopra dei pantaloni da militare, anche questi troppo larghi: scivolavano senza incontrare resistenza sulle strette ossa del bacino.
    -Chi cazzo sei tu?- chiese. Fantastico, pensò Jane, proprio un simpaticone.
    -Sto cercando Max-
    -Max chi?-
    -Accidenti, Max, piccolina, capelli blu, schizzata, cazzo, sai di chi parlo, chiamala e basta- lui la fissò ancora per qualche secondo, esitante, poi scoppiò a ridere.
    -Te l’ha fatto lei quello?- disse, alludendo al livido violaceo che le ricopriva il naso e tutta la parte circostante.
    -Si, me l’ha fatto lei, molto divertente, ora la chiami o no?- lui fece le spallucce per poi volgere la testa verso l’interno dell’abitazione.
    -Max! C’è qui una che ti cerca!-
    -Di’ che non ci sono o che non me ne frega un cazzo!- rispose la ragazzina dal fondo della stanza, alchè lui si volse di nuovo verso l’esterno.
    -Non le interessa- disse, ora parlando quasi sottovoce.
    -Tu dille che è importante- il drogato sbuffò.
    -Max!-
    -Che vuoi ancora?!-
    -Dice che è importante!-
    -Ma chi cazzo è?!-
    -Una troietta rossa con una giacca in pelle, che vuoi che ti dica? Alza il culo e vieni a parlarle!- grugnì, allontanandosi senza neanche salutare e socchiudendo la porta. Qualche istante dopo sull’uscio apparve la figura minuta di Miss testa blu, con indosso una maglietta bianca che la avvolgeva morbidamente, coprendola quasi fino alle ginocchia
    -Oh, sei tu- sbuffò, come se non glie ne fregasse più di tanto.
    -E chi pensavi che fossi?-
    -Che ne so? Chiunque tranne che te. Chi ti ha dato l’indirizzo? Quel cazzone di Spike, o ci ha pensato Brat?-
    -Ha importanza?-
    -Si, così saprò con chi prendermela. In ogni caso che cazzo vuoi ancora da me? Dovevo pestarti di più-
    -Non lo so, bere una birra, fare due chiacchiere, come ai vecchi tempi- lei inarcò un sopraciglio.
    -Non ti è bastato quello che hai bevuto ieri notte? E poi cosa ti fa pensare che io abbia intenzione di fare due chiacchiere con te?-
    -Bè, mi hai dato due pugni in faccia, dovremmo essere pari- Max rise.
    -Non potremmo essere pari neanche se ti avessi sfasciato il naso-
    -Perché, questo come lo chiami?- rispose acida, indicando il livido scuro al centro della sua faccia. Testa blu rise ancora.
    -Dio, quanto sei diventata delicata-
    -Si, scusa, era un po’ che non mi prendevano a pugni in faccia, sai.. hey, ma sei fatta o cosa?- chiese, resasi conto improvvisamente dell’espressione stralunata sul viso della ragazza e del fastidioso suono che producevano che produceva le ossa che sfregavano l’una sull’altra: stava digrignando i denti, mentre parlava.
    -E anche se fosse?-
    -Che cosa hai preso?-
    -Non sono affari tuoi- Jane fece un passo avanti, bloccandole i polsi, un po’ per tenerla ferma, un po’ per paura di essere colpita ancora, sicura che il suo setto nasale non avrebbe retto un altro cazzotto.
    -Cosa hai preso?- ripetè, scandendo bene le parole. La ragazzina ridacchiò.
    -Penso che fosse crack, si, era decisamente crack, ne vuoi un po’ anche tu?-
    -No che non ne voglio, cazzo. Prima mi tratti da stronza e poi mi offri del fottuto crack? Tu sei pazza-
    -No! No, no, no, sono solo un po’.. fatta, tutto qui. Non pazza, è diverso. E poi se mi importasse qualcosa di te non te lo offrirei. Magari ho intenzione di dartene una dose letale, tu che ne sai?- la rossa la lasciò andare.
    -Non lo faresti neanche se avessi ucciso i tuoi genitori. Allora, vieni con me o vuoi restare qui a fare la drogata in questo buco di merda?-
    -Hey, questa è la mia fottuta casa, chi ti da il diritto di chiamarla così? In ogni caso se li avessi uccisi mi avresti fatto un favore-
    -Lo so. Perché, tu come la definiresti?-
    -Un.. accogliente paradiso per topi e scarafaggi-
    -Ecco, fantastico, cazzo allora vieni o no?- Max si guardò alle spalle, verso l’interno, poi sospirò e annuì. Era troppo fatta, troppo fuori fase per affrontare un discorso come quello che sapeva avrebbero affrontato, ma in fin dei conti la sua mente era così tanto lontana dalla realtà.. pensò che non avrebbe potuto soffrire ne si sarebbe incazzata se ne avessero parlato.
    Iniziarono a camminare. La strada era vuota, nessuna macchina in vista, nessun ragazzino che passeggiava sul marciapiede, solo loro, così si ritrovarono al centro della carreggiata sotto un gelido sole invernale che le riscaldava a malapena.
    -Dunque ora vivi in un rifugio per drogati del cazzo eh?-
    -Si, quindi? Non hai il diritto di infierire, non sei migliore di me-
    -Non l’ho mai pensato, ma evidentemente tu si, o non avresti avuto bisogno di precisarlo-
    -Vaffanculo. In ogni caso l’affitto è gratis e almeno ho un posto dove dormire-
    -Mh, mi fa piacere. Complimenti, brava, è questo che vuoi che dica? E i soldi per farti dove li trovi? Li rubi alle farmacie e ai bambini che vanno a comprarsi le caramelle?-
    -Piantala con queste menate, ho un lavoro, faccio il meccanico. Hai presente quello che c’è in fondo alla 2nd street? Ecco, lì –
    -Meraviglioso, quindi guadagni meglio di tutti noi e usi i soldi per assicurarti presto una morte rapida e indolore? Fantastico, dove devo firmare per avere anche io questa vita di merda?-
    -Firma sul mio culo e potrai avere ciò che vuoi. In fin dei conti è un problema mio però, non credi?-
    -Si, lo è, e che ci fai qui a Berkeley? Quattro anni fa sognavi di diplomarti per andare a fare la vita da Rock star fallita a Los Angeles, che è successo?-
    -Cosa ti aspettavi? Un’avventurosa e interessate storiella da film? Eravamo piccole, era facile sognare. Ho mollato il liceo, più andavo avanti e meno mi importava di imparare qualcosa, ho preso la macchina di mio fratello e sono venuta qui: la vita costa di meno e c’è il crack migliore di tutta la California, te lo garantisco-
    -Chi? Tu o il tuo spacciatore? Sei un’idiota, ecco cosa sei. In ogni caso quando hai iniziato a prenderlo?-
    -Un anno e mezzo dopo che sei andata via. Mia madre ha chiesto il divorzio e mio padre l’ha picchiata, così abbiamo chiamato la polizia. Loro l’hanno tenuto in prigione per una notte e quando è tornato era furioso. Avrei dato l’anima per non sentire più le sue urla, o le sue dannatissime botte. Bè, in un certo senso l’ho data e comunque tu non sei in condizione di giudicare, o di darmi dell’idiota. Mentre eri a spassartela chissà dove le cose qui andavano sempre più a puttane- Jane rise.
    -Ero a Seattle e non me la sono spassata affatto. Ci ho perso l’anima in quel posto del cazzo e…- la voce le morì in gola. Era un mese e mezzo che non ci pensava.
    -A proposito, e Jim? Che fine a fatto?-
    -La peggiore- rispose lei, secca. Era un mese e mezzo che non pensava a Jim. Fino a quel momento i problemi si erano accavallati, gli uni sugli altri, i rimpianti avevano fatto il resto, coprendo come polvere il suo ricordo. Ma ora, facendo un passo indietro, le sembrava ancora di sentire il freddo che emanava quel corpo senza vita. Ripensò ai suoi occhi vuoti e a quanto, in quello sguardo, si leggesse la storia di un’intera vita sprecata.
    -Vuoi dire che è morto? E come?-
    -Ha scelto la stessa fine che ti stai scegliendo tu: overdose.-
    -Cosa ti fa credere che stia per andare in overdose?-
    -Niente, ma alla fine prima o poi ci finisci e basta. Ne prendi un po’ troppa e diventi carne sprecata-
    -E tu che cazzo ne sai? Cosa sei diventata, una moralista, adesso?-
    -Ho detto che non lo farei? No. Ti ho solo detto che prima o poi ci resti secca-
    -Grazie dell’informazione. Ora dimmi perché sei scappata senza dire assolutamente un cazzo-
    -Mi perdonerai mai?-
    -No, ma magari sapere il perché aiuta, perciò dimmi perché cazzo sei sparita così-
    -Jim. Quella sera ero a casa sua, suo padre si è svegliato, mi ha vista e lo ha quasi ucciso di bastonate. Non ci ho pensato molto, ma anche se l’avessi fatto, probabilmente sarei partita comunque. Ero convinta che se fossi rimasta ancora anche solo un secondo a Rodeo sarei esplosa. Non puoi biasimarmi più di tanto, in fondo l’hai fatto anche tu, un anno e mezzo dopo- Jane voltò appena lo sguardo su Max, ma un ceffone le ribaltò la faccia. Cazzo, ma perché accidenti doveva sempre fare così? Perché era fatta, ecco perché. La ragazzina aveva sempre fatto uso di droghe. Già dal liceo prendeva cocaina, speed, MDMA, e ogni volta che era un po’ su la sua tendenza all’essere violenta diventava del tutto ingestibile. Da quando si erano messe insieme, anche Jane aveva iniziato a prenderle con lei, ma a Seattle quasi non poteva permettersi una cena, figuriamoci un magico cocktail esplosivo di metanfetamine.
    -Porca puttana Max, dacci un taglio con ‘sti cazzo di colpi, merda, sta volta che cazzo ho fatto?!-
    -Non dovrei biasimarti più di tanto? Dannazione, bastava una telefonata!- ora stava urlando. Se prima pensava che parlarne sotto crack le avrebbe impedito di reagire in modo esagerato o di arrivare a sentire gli occhi bruciare e le lacrime friggere dietro le palpebre, ora non ne era più tanto convinta.
    -Si, per dirti che cosa, esattamente?! Dov’ero finita?! O per spiegarti perché me n’ero andata?! Cazzo, sapevi che prima o poi sarebbe successo e ora sono qui e te ne sto parlando-
    -Tu non ci sei stata quando quel figlio di puttana di mio padre a picchiato mia madre. Non ci sei stata quando la polizia è arrivata a casa e l’ha trascinato via. Non ci sei stata quando è tornato. Avevi detto che saresti stata lì, per qualsiasi cosa, invece eri anniluce distante.-
    -Lo so cosa ho detto. Me lo ricordo, ma non è stato così. Ti ho già detto che mi dispiace, porca puttana devi piantarla di pestare la gente, cazzo.-
    -L’ho sempre fatto-
    -Si, perché sei sempre stata una drogata del cazzo-
    -Sempre pronta a giudicare tu, eh?- rimasero in silenzio. Ora le risposte a tutte le domande che avrebbero potuto farsi soffiavano nel vento, le superavano e andavano oltre la fine della strada, lontane. Non avevano più importanza.
    Non avevano più forze di discutere, di litigare, perché lo sapevano: avrebbero potuto darsi addosso ed accusarsi per ore, avrebbero potuto urlare, insultarsi, avrebbero potuto sprecare energie ad arrabbiarsi per cose che non sarebbero cambiate in ogni caso, dunque era inutile. L’ascia di guerra ora era stata seppellita e molto difficilmente sarebbe stata dissotterrata, perché era troppo tardi, la guerra era finita da tempo, continuare a lottare fino allo stremo per niente non aveva senso.
    Jane sorrise.
    -Ricordi quando ci pestammo, a scuola? Dio quanto ti odiavo-
    -Si, quando ci separarono ti sanguinava tutta la bocca-
    -Già e tu avevi un trinco enorme sullo zigomo. Mi sentii quasi in colpa ad aver rovinato quel bel faccino che ti ritrovi- risero entrambe.
    -Sai…- sussurrò Max. –Ricordo anche la prima notte che abbiamo dormito insieme. Casa mia non era un paradiso e il mio letto sembrava ancora più stretto, poggiato contro il muro, ma non ci importava. Ricordo come se fosse ieri il profumo della… tua pelle, il suo sapore. Forse ero troppo distrutta, eravamo gonfie di cocaina fino a scoppiare, ma mi sembrava che tutto fosse più brillante. Mi ricordo la puzza del posacenere pieno fino all’orlo di cicche e il disegno che facesti sulla mia parete. Avevi disegnato un fottutissimo dragone cinese e l’avevi dipinto con i colori ad olio, da quel giorno la mia stanza a puzzato di quello schifo per settimane. Dicevi che se fossi stata un’animale sarei stata quello. Un dannatissimo drago blu. Ho ancora tutte le foto che ti ho scattato con la polaroid che avevo rubato dallo studio di mio padre. Ce n’era una che avevo fatto mentre dormivi e mi era piaciuta così tanto che l’avevo appesa sotto il disegno.- rise amaramente. –Quando mio padre l’ha vista me ne ha date di brutto, accidenti, ti odiava proprio e poi era “inaccettabile, uno scandalo” che la sua unica figlia fosse omosessuale, figurati. -
    -Il sentimento era reciproco. Se avessi potuto l’avrei ammazzato, quel figlio di puttana. Tra tuo padre e quello di Jim non si sapeva chi scegliere. Ricordo tutte le volte che sei arrivata a scuola con un occhio nero o le braccia coperte di lividi. Tutti pensavano che fossero colpa delle risse, che tu fossi un’attacca brighe, ma io sapevo che si sbagliavano. Solo a vederli mi veniva la nausea e non riuscivo a calmare la rabbia-
    -Si, bè, adesso è lontano e non può farmi assolutamente niente. Ho una pistola carica, sotto il materasso-
    -La tieni per lui?-
    -No, la tengo nel caso arrivi qualcuno con cui ho debiti che non ricordo di avere, ma se venisse a cercarmi non lesinerei certo sulle pallottole: non mi dispiacerebbe sprecarne qualcuna sulla sua faccia di merda- risero entrambe. Non erano realmente divertite, ma a volte è meglio che piangere su ciò che non si può cambiare. Quattro anni e sembravano molti, troppi di più e allo stesso tempo sembrava che non fosse passato neanche un secondo. Le cose non erano cambiate del tutto e sebbene Jane non l’avrebbe mai detto a voce alta e Max non fosse capace di ammetterlo neanche a se stessa, si mancavano. Forse abbandonare quella stupida ragazzina, per la rossa, era stata dura quanto abbandonare suo padre, ma una ragazzina di sedici anni riesce a pensare solo a se stessa, e comunque era convinta che non avrebbe potuto farci niente.
    -Potremmo provare a essere… amiche?- Miss testa blu si fermò e la guardò, sollevando un sopracciglio.
    -Amiche? Andiamo, non siamo mai state amiche. Non penso neanche che riusciremo ad esserlo-
    -E allora cosa facciamo?-
    -Niente. Tu sparisci e io riprendo la mia vita-
    -Riprendi a stare nel tuo covo di drogati da sola? Che grandi prospettive che hai per il tuo futuro, accidenti. In ogni caso lo sai che è impossibile. So dove stai e dove lavori e tu sai che non mollo mai-
    -Oh, Dio, hai davvero intenzione di perseguitarmi?-
    -Non ce ne sarà bisogno. Tu vuoi rivedermi-
    -Non dire stronzate-
    -Eddai, chi vuoi prendere per il culo? Ti conosco meglio di chiunque altro- se fino a un minuto prima Max aveva dipinto sul viso quel meraviglioso sorrisetto da sbruffona ora era diventata improvvisamente seria. Non tollerava che quella stronzetta avesse ragione.
    Era sparita, scomparsa per quattro anni e ora pretendeva di sapere cosa le passasse per la testa? No. Era una questione di orgoglio, tutto ciò che c’era in lei, ogni forza che le era rimasta, ora si stava impegnando per resistere al profondo desiderio che aveva di stringerla a se e piangere, dicendo che le era mancata. Non poteva averla vinta così facilmente, non poteva credere di poter giocare con la vita degli altri perché tanto alla fine le sarebbe bastato tornare.
    -No.- disse, gelida. –Non è vero. Non più- concluse, si voltò e se ne andò.
    Dal canto suo Jane avrebbe potuto provare a fermarla, inseguirla, parlarle, ma non lo fece. Era stanca e forse aveva esagerato. Non si aspettava che l’avrebbe perdonata subito e di certo dubitava che bastasse un mezzo battibecco e un giro fra foto appese, vecchi disegni e parole quasi dimenticate per farsi perdonare. Inoltre la conosceva e se c’era qualcosa di più forte della dipendenza da stupefacenti, in lei, era l’orgoglio. La lasciò andare perché l’indomani pomeriggio sarebbe tornata a trovarla, e così il pomeriggio seguente, e così quello ancora seguente. Decise che questa volta non l’avrebbe abbandonata, che meritava di più di quello che era diventata, perché anche se fino a quel momento aveva sepolto l’immagine di quella ragazza sul letto del tempo che era passato, sapeva quanto le fosse mancata. Un sentimento è come una storia e per spegnersi ha bisogno di un finale. La sua fuga era stata solo un anestetico, il congelamento di qualcosa che ora iniziava ad agitarsi sotto la gelida superficie, non una fine.
    Il cielo grugnì e lei alzò lo sguardo. Le nuvole avevano nascosto il sole e il profumo di terra bagnata riempiva l’aria. Stava per piovere e doveva tornare a casa, la sua moto l’aspettava lì, in fondo alla strada, e come lei sembrava non avere la minima intenzione di bagnarsi.
    La ruggine divora tutto come un cancro, come il senso di colpa devasta le instabili cellule celebrali dell’essere umano.

    Fuori pioveva da un po’ e Brat se ne stava disteso sul divano, immobile a fissare il soffitto. Pensava ancora e ancora odiava farlo, ma non poteva sottrarsi, come un bambino non può sottrarsi alle medicine che la mamma gli da, come lui non si era potuto sottrarre alle proprie. In mano stringeva un piccolo flaconcino arancione su cui svettava sull’etichetta bianca la scritta Xanax.
    Aveva sempre sofferto di attacchi d’ansia e di rabbia. Mantenere la calma a volte diventava difficile, anche senza un vero motivo. Bastava bere o fumare un po’ troppo e le mani iniziavano a tremargli per il nervoso. Ora pensava ed era calmo nel farlo.
    Le cose stavano andando troppo in fretta, forse questo lo spaventava. Si sentiva come su una macchina lanciata a 300 km/h contro un muro senza freni. Poteva lamentarsi, poteva tentare di scappare, ma in ogni caso si sarebbe schiantato, era inutile. Stava con la ragazza dei suoi sogni e gli sembrava di star stringendo una patata bollente che da un secondo all’altro gli sarebbe potuto cadere. Bastava un passo falso. Magari non aveva percepito nessun cambiamento, ma non era stupido, sapeva di essere solo un ragazzetto sfigato cresciuto da Rodeo, l’ultimo dei sette, figlio di una cameriera e di un camionista che all’occasione suonava nel locale della madre, lei invece… lei era altro. Lui era un giocattolo di legno, lei una bambola di porcellana, bastava un colpetto per incrinarne la superficie. Inoltre ormai mancavano tre settimane all’incisione del loro primo disco. Un altro sogno che non poteva credere che si stesse realizzando. Gli sembrava che fosse stato tutto troppo facile, che fosse andata troppo bene. Era come essere sotto esame: magari hai studiato per giorni interi, ma adesso che sei lì ti senti come se avessi rimosso tutto ciò che avevi imparato.
    Alcune canzoni non erano finite, altre non erano perfette e magari sarebbe stato solo uno dei tanti ragazzini che avrebbero inciso un disco e che poi sarebbero spariti.
    La porta d’ingresso scattò e si aprì. Il ragazzo avanzava rapidamente nel corridoio, era impossibile non riconoscere il suono del tacchetto delle scarpe laccate di Jackie.
    -Brat! Il nano più bello di tutte le periferie della California! Come te la passi? Ti vedo un po’…annoiato. Sembri preoccupato, vuoi parlare con il vecchio Jackie di ciò che ti affligge?-
    -No, veramente no. Sto semplicemente pensando.-
    -Tu pensi troppo, amico, fa come me, dimenticati di avere un planetario al di sopra di quel collo.-
    -Per cosa? Finire a fare lo spacciatore a Berkeley e non avere ambizioni?- sbuffò –No grazie-
    -Chi ti dice che non abbia ambizioni?-
    -Cosa dovrebbe farmi credere che tu ne abbia?- l’eccentrico ragazzo fece rimbalzare il bastone a terra, esitante, come se ci stesse davvero riflettendo.
    -Niente, in effetti. Ma giudicare senza sapere è per maleducati e arroganti bastardi, non trovi?-
    -No, affatto. Hai molto altro da dire?-
    -Come sei suscettibile, tesoro-
    -Non ne ho voglia, Jackie, non hai altro da fare?-
    -Per la verità no, vuoi stare da solo, amore mio?-
    -Si, rottinculo, voglio stare da solo- rispose, acido. Quello stronzetto non l’aveva mai fatto impazzire, ci conviveva perché conveniva, perché doveva. Era simpatico, era strano, un ottimo soggetto con cui cazzeggiare quando la vita non offre prospettive migliori, ma non era certo un amico, di lui non si fidava. Di solito lo ignorava quando iniziava a essere fin troppo irritante, ma adesso voleva solo essere lasciato in pace. Aveva bisogno di parlare con qualcuno che avesse risposte, non con un ragazzo che faceva di tutto per eludere le domande.
    Jackie fece le spallucce e si allontanò, facendo roteare il bastone.
    -Drive, drive, drive your mind out of it’s edge..- canticchiava –Sadly now you’re mad, there’s nothing left to save!- concluse e se Brat lo avesse osservato con più attenzione avrebbe notato tre piccole gocce di sangue che spiccavano sul nero lucido dell’arnese.
    La porta si aprì di nuovo.
    -Cazzo!- imprecò una voce femmine. –Cazzo, cazzo, cazzo!-
    -Jane! Bentornata a casa mia dolce e perversa amica!- la voce dell’eccentrico ragazzetto risuonò per tutto il corridoio. –Ti ha orinato addosso una vacca o ha piovuto su te e il tuo nuovo destriero d’acciaio?-
    -Spiritoso, molto spiritoso, davvero. Cazzo, si muore di freddo qua dentro. Domani andrò a comprare una dannatissima stufa- brontolò lei, avanzando verso il soggiorno e trovando un pigro ragazzetto sdraiato sul divano. Lo osservò per qualche secondo, tentando di capire se ci fosse da preoccuparsi o no.
    -Brat, tutto bene?-
    -Certo, cosa ti fa pensare che non stia bene?-
    -Quello è Xanax?- continuò lei, indicando la boccetta arancione che stringeva in mano.
    -No- rispose lui, distogliendo lo sguardo.
    -Sul serio, e allora cos’è?-
    -Un nuovo farmaco sperimentale, si chiama fatti gli affari tuoi, lo conosci?- La ragazza sbuffò e gli si sedette di fronte, sul pavimento, ancora grondante d’acqua piovana che la moquette iniziava ad assorbire lentamente.
    -Che cosa è successo?-
    -Ah, niente, lo sai come sono. Solo… solo voglio stare solo, adesso-
    -No, non è vero, non vuoi. Cosa c’è? Problemi sull’isola che non c’è con Wendy, Peter Pan?- lui spostò lo sguardo su di lei.
    -Perché mi hai chiamato così?-
    -Perché, non ti piace?-
    -Non ho detto questo, ma... perché?-
    -Perché tu non crescerai mai, Brat J.B. Fitzparker. Tu resterai sempre il capo dei bimbi sperduti, e la finirai sempre sdraiato su un divano, imbottito di Xanax a chiederti cosa ci sia di sbagliato in questo-
    -Pensi che non ce la farò?-
    -Non ho detto questo. Se c’è una cosa stupida è crescere, diventare adulti. Non devi per forza diventare un vecchio bastardo depresso per andare da qualche parte, non pensi?-
    -A dir la verità penso di si. Insomma, sai quanti ce l’hanno fatta? Uno su un miliardo. Come diavolo faccio ad avere la presunzione di essere quell’eccezione? Che cosa dovrebbe farmi credere che io meriti di essere l’unico bimbo sperduto a poter imparare a volare?-
    -Perché, c’è qualcosa che ti può far credere il contrario? Guardati intorno. Guarda me, guarda Jackie, guarda Mary o Al e ora guarda te e Spike. Noi non andiamo da nessuna parte, non abbiamo un progetto, un pensiero, non abbiamo un’idea. Noi non abbiamo strumenti per poter volare, voi si, noi siamo solo bimbi sperduti, giochiamo con armi di legno e corriamo in cerchio intorno all’albero dell’impiccato, voi avete la polvere di fata, potete volare e da quel che so state per iniziare, dovete registrare un disco, no? Manca poco e…-
    -Questo non cambia niente!- esclamò, lanciando la boccetta del medicinale in fondo alla stanza. Non era arrabbiato con lei, ma con se stesso, con il mondo e con Dio –Sai quante band esistono così? Fanno un disco, magari due, ma poi scompaiono. Io non voglio essere uno di quelli. Non voglio restare incastrato qui. Quello che mi spaventa di più è sapere che non ho altre via d’uscita, cazzo, guardami! Pensi che potrei mai fare un lavoro comune? Pensi che potrei mai indossare giacca e cravatta e salutare tutti i giorni gli stessi dannati colleghi che odio, per poi guadagnarmi uno stipendio medio e tornare a casa a mettere a letto i miei figli? No che non potrei. La musica è la mia via d’uscita, il mio unico colpo, se fallisco con lei… ho fallito e basta. Senza possibilità di condizionale, senza soluzione. Magari se non fossi un bambino potrei accettare di fare anche altro, magari se fossi maturo avrei altre possibilità, oltre a quella di finire sotto un ponte, nel caso non vada..bene-
    -Quindi essere adulto significa rassegnarsi all’essere infelice?-
    -Si, per me significa questo-
    -Bene, allora preferisco non crescere neanche io. Sai perché siamo diversi, Brat? Sai perché siamo migliori di tutti i principi e le principesse con un futuro scritto e un destino regolare?-
    -No.. non lo so-
    -Perchè abbiamo ancora la forza di credere che la vita sia qualcosa di più, quando sei sul fondo punti alla luce e se c’è un altro modo di puntare non lo conosci. Se fallirai almeno saprai di non aver sprecato la tua vita. Loro la vivono da idioti, tu provi ad avere qualcosa di più, che diavolo c’è di sbagliato in questo? Ci rassegniamo a fare vite di merda perché siamo troppo codardi per arrenderci a un fallimento, nessuno vuole stare sotto un ponte e accetta di odiare ciò che fa pur di andare avanti, nessuno punta troppo in alto perché se anche solo si avvicinasse alla luce di un passo per poi dovervi rinunciare non potrebbe fisicamente sopravvivere, voi no, loro lo fanno perché sono codardi, non provano ad avere di più perché se la fanno sotto, voi no, tutto questo è patetico e tu lo sai.-
    -Chi sono io per meritare più di questo?-
    -Chi sei tu per non meritarlo? Piantala con queste stronzate-
    -Sono un ragazzino di periferia, ecco cosa sono. Non ho una cultura, non ho un conto in banca o un’eredità da capogiro, non ho niente da offrire neanche a me stesso, figurati..-
    -Adesso è diventata Mary il problema?-
    -Lei è come la luce. Ci sono immerso e ho la sensazione di non essere in grado di tenermela stretta. Non ho abbastanza, non sono abbastanza-
    -Oh cielo Brat, ma che cazzo ti prende? Sei nel tuo periodo speciale del mese? Ti sono venute le mestruazioni? Lei sta con te, tu le piaci, basta, piantala di arrovellarti il cervello per questo!- Jane non aveva nessuna intenzione di parlare di Mary, non con Brat. Non voleva dirgli che lei era quella giusta, o che sarebbe andato tutto bene, perché era la prima a non crederci. Nonostante tutto non si fidava di quella ragazza.
    -Sai, l’altra notte, alla nostra vecchia scuola elementare, lei è stata così… bè era stupenda. Ha suonato Mad World e poi abbiamo fatto l’amore. È stato come stringere un angelo, aveva la pelle così morbida, delicata, avevo paura di poterle fare del male. Era perfetta, così dannatamente perfetta da farmi pensare che fosse un sogno. Ancora adesso penso lo sia stato, era così surreale.. cazzo, è diversa da tutte le ragazze con cui sono stato fin ora-
    -Si, bella storia, andiamo, smettila! Non voglio sapere cos’hai fatto con lei, accidenti, davvero non mi interessa, è solo una ragazza, una come tutte le altre, solo che sei innamorato e ti sembra diversa. Tutte lo sembrano, a quel punto.-
    -Com’è andata con Max?- chiese, a tradimento. Voleva cambiare discorso, forse per pensare ad altro, per distrarsi, o forse per dimostrarle che non poteva permettersi di trattarlo come se fosse l’unico idiota al mondo che si friggeva il cervello per una donna.
    -Parlavamo di te, non di..-
    -Si, ma io ora voglio parlare di te-
    -Niente, abbiamo parlato-
    -Vi rivedrete?-
    -Certo-
    -Sai, mi sono sempre chiesto perché lei. Si, insomma, è bellissima ed è fantastica, tutto quello che vuoi, ma è un dannato caso psichiatrico, una drogata con seri problemi a controllare la rabbia, ti sei andata a ficcare nella bocca dell’unico drago che c’è in tutta la California- rise.
    -Si, bè, forse è proprio questo, forse perché è una ragazza impossibile, non pensi?-
    -Cos’è, ti piace complicarti la vita? Sembra che tu riesca a provare attrazione solo per i casi disperati, insomma, guarda Jim, anche lui era..-
    -Lui era la persona migliore che avessi mai incontrato. Era migliore di me, di te, di tutti noi. Era puro, buono..-
    -.. autodistruttivo-
    -Come tutti noi.-
    -Si, forse hai ragione. E.. con tuo padre? L’hai trovato quando sei tornata a casa?-
    -No, ma forse è meglio così- rispose lei Aveva mentito perché non voleva parlarne, perché non ne sentiva il bisogno, ed era evidente che fosse una bugia, ma il piccolo nanetto non se ne curò. Aveva imparto anni prima che quando Jane non aveva voglia di parlare insistere era come tentare di cavar sangue da una pietra. Certe volte un silenzio è più chiaro di centinaia di futili parole. Bastava guardarla per capire che ora era in pace con la sua coscienza. –Non sei l’unico che ha una vita incasinata, Brat- disse alzandosi. –Ma sei l’unico ad avere un modo per uscirne, per cambiarla. Piantala di avere paura di fallire, le cose andranno come devono andare, tanto vale provarci- concluse, allontanandosi.
     
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  5. Brat Fitzparker
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    Aster, non poteva durare di più, capirete perché, in ogni caso veramente sono ancora indeciso sul far avere una discussione effettiva a Jackie e Brat o lasciare che si odino silenziosamente fino alla fine
     
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    La Max di oggi non è cambiata poi molto da quella conosciuta nel flashback, tranne per il fatto che è... fatta di più.
     
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  7. Brat Fitzparker
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    E discussione sia, tanto ci siamo.

    Si, diciamo che lei sarà sempre lei. Nessuno di loro sarebbe mai potuto cambiare, con il tempo. Possiamo illuderci di maturare e diventare grandi, di essere cambiati, ma siamo sempre gli stessi, alla fine, così per Max, così per tutti.
    Però è una drogata del diavolo.
     
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  9. Brat Fitzparker
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    O come let us adore him.


    Era la notte del 24 Dicembre, la vigilia di Natale, e forse l’unica a percepirlo nell’aria era Jane. Quella notte faceva un freddo infernale. Tutte le cose, lasciate fuori, la mattina dopo erano ricoperte da un sottile strato di ghiaccio.
    Di norma nei giorni festivi ci si aspetterebbe che neanche le prostituite lavorino, perché in effetti non sono giorni particolarmente fruttuosi: i ricchi padri di famiglia della classe media nei giorni di festa stanno a casa a far finta di amare la propria famiglia, certo, ma i falliti di periferia, divorziati o nubili, soli, senza una vera casa a cui tornare, non cercano altro che un po’ di finto amore per sentirsi meno soli e per quanto non lascino mai la mancia, sono sempre clienti.
    Così Mary si trovava ancora una volta sulla 2nd street a camminare senza una meta precisa, illuminata dalle opache luci dei lampioni. Dalla sua bocca uscivano morbide nuvole di condensa che le danzavano intorno al viso. Indossava il proprio regalo, se l’era comprato con i soldi che aveva messo da parte nell’ultimo mese: un grosso cappotto di candida e soffice pelliccia sintetica. Vi si stringeva, tentando di riparare dal gelo le gambe nude, il petto e la schiena scoperte, provando a non pensare a che giorno fosse. La verità era che la intristiva, la intristiva vedere tutte le luci fuori dalle case e neanche un fiocco di neve, le faceva male sentire l’odore dei camini accesi e dei biscotti appena fatti, quel calore le ricordava quanto la notte fosse fredda e quanto lei fosse lontana da casa. Si fermò e il suo sguardo si perse nello scuro orizzonte. Si chiedeva perché fosse ancora viva, che cosa le fosse rimasto da perdere, ancora, quando un clacson risuonò alle sue spalle, attirandone l’ attenzione. Voltandosi vide all’interno della vettura un signore che avrà avuto una sessantina d’anni, gli unici capelli che gli restavano avvolgevano la nuca e terminavano in un’incolta e disordinata barba che gli ricopriva la mascella. Le mani erano grosse e callose, sporche di grasso per auto e olio motore. Aveva un’espressione arcigna dipinta sul volto, deturpato dai segni dell’età, dalla mancanza di sonno e dalle pesanti ore lavorative. La biondina deglutì: da tempo si era rassegnata all’idea di non potersi rifiutare. Si avvicinò così alla macchina, aprì la portiera e si sporse verso l’interno.
    -Hey, bellezza, sali e andiamo a farci un giro, che dici?-
    -Un semplice lavoro di masturbazione costa dai sessanta agli ottanta dollari, fanno cento per un servizio completo- recitò lei, semplicemente.
    -Ah, andiamo! Non ho soldi con me, ma una ragazzina come te non dovrebbe girare tutta sola alla vigilia di Natale, no? Potresti venire da me e scaldarti un po’-
    -No, non potrei, sto lavorando. Pagamento anticipato, niente soldi, niente servizi, arrivederci- concluse, facendo per allontanarsi, ma l’autista si lanciò verso di lei, afferrandole con forza un braccio.
    -Oh, dai, piccola! Non farti pregare! Sei così carina.. non fare la difficile e sali in macchina-
    -No!- urlò Mary, tentando di divincolarsi. La stretta ferrea dell’uomo le faceva male, a malapena riusciva a sentire la mano, ancora. Diede un forte strattone e lui per un istante sembrò perdere la presa, che riprese subito, afferrandole i capelli.
    -Mi piace quando le troiette fanno le difficili, è più eccitante su, vieni!- grugnì.
    -Lasciami andare!- la ragazzina portò avanti le mani, graffiandolo e spingendolo, ma fu tutto inutile: quel bastardo la stava tirando verso l’interno della macchina e il suo esile corpicino da principessa non era abbastanza per permetterle di difendersi.
    -Hey, brutto figlio di puttana!- una voce si levò da poco più in là. –Ti sembra questo il modo di trattare una signora? Lasciala andare. Subito. E lo dico per te, amico, credimi.- i fari della vecchia Audi 80 illuminavano la sagoma di un ragazzo con in dosso un singolare cappotto nero foderato in pelliccia che stringeva in mano un bastone da passeggio dello stesso colore. Jackie. L’uomo rise.
    -Che vorresti fare, ragazzino?- chiese, divertito, alchè l’eccentrico personaggio si avvicinò e colpì con forza il parabrezza con l’arnese. Questo si infranse, spingendo l’autista a mollare la presa sulla ragazza che cadde seduta sul marciapiede su cui ancora posava un piede per coprirsi il volto. Appena ebbe abbassato le braccia venne colpito con forza alla guancia destra.
    -I bastardi come te dovrebbero stare attenti- mormorò il ragazzo, con un mezzo sorriso stampato sul volto. –Non si sa mai in quale strano individuo potrebbero imbattersi-
    -Brutto, pezzo di merda, io ti ammazzo!- sbraitò in risposta lo sventurato, premendo con forza la mano sul viso per bloccare il sangue che lentamente sgorgava dal trinco che gli si era aperto in viso.
    -Vieni, ti sto aspettando- rispose l’altro con calma. L’uomo sembrò imbestialirsi, serrò la mascella e sgranò gli occhi, ma com’era prevedibile che facesse, ingranò la prima e partì, con la portiera ancora aperta, la quale si chiuse per l’accelerazione. Il ragazzo sapeva che non sarebbe sceso per sfidarlo, chiunque, anche il peggior individuo, tenta di evitare lo scontro fisico e poi anche se l’avesse fatto il nostro eroe armato e non aveva di che preoccuparsi, perciò lo osservò allontanarsi, soddisfatto, per poi voltarsi verso Mary. Lei, dal canto suo, era rimasta rannicchiata per terra con le lacrime che le riempivano gli occhi. Respirava affannosamente e non parlava, la voce le era morta in gola, a malapena riuscì a sussurrare un grazie quasi impercettibile. Tremava spasmodicamente, più per la rabbia che per il freddo. Nella sua mente si agitavano una moltitudine di pensieri sconnessi. Si sentiva persa, confusa. Era arrabbiata, furiosa e si sentiva dannatamente impotente. La sua testa scivolava lentamente verso la confusione che aveva provato nel vedere i cadaveri dei suoi genitori. Forse se fosse stata ancora così stupida, ancora così viziata, si sarebbe alzata e lanciata sotto la prima macchina di passaggio, ma quello che era diventata non l’avrebbe fatto, quella fredda, gelida principessa che, se prima riusciva ad amare e a pensare solo a se stessa, ora non poteva fare altro che estrapolare l’unico pensiero che sembrava avere un senso in quel confuso marasma che si agitava dietro il suo sguardo: basta. Doveva smettere con quella stronzata. Ecco cosa aveva ancora da perdere: la dignità. Non lo voleva più fare, non poteva. Era stanca, spaventata, voleva solo tornare a casa. Non voleva più fare la puttana, non ce la faceva più. In quel momento decise che qualsiasi cosa le sarebbe andata bene, qualsiasi cosa pur di non continuare con quel lavoro indegno.
    Jackie le porse una mano. –Tutto bene?- chiese.
    -Si- rispose fredda lei, rifiutando l’aiuto che le stava offrendo. Non lo voleva, lo stramaledetto aiuto, ne da lui, ne da nessuno.
    Avrebbe fatto di tutto, qualsiasi cosa pur di non sentirsi ancora così umiliata e l’avrebbe fatto da sola. Ora era diventata una promessa.

    -Buongiorno!- esultò Jane, piombando nella cucina con un sorriso smagliante. Era la mattina di Natale e questo per lei era come tornare bambina. Intorno al piccolo tavolo erano seduti Spike, Brat e Jackie. Mary ancora dormiva.
    -Tua madre non ti ha insegnato che la mattina non si parla?- mugugnò Spike, guardandola di traverso da sopra il suo caldo caffèlatte.
    -Si, ma non ha mai detto niente sul farlo il giorno di Natale-
    -Un giorno come tanti altri, a meno che tu non sia diventata religiosa tutt’in un colpo-
    -No, non lo sono diventata, ma è la mia stupida festa preferita, che male c’è a essere felice?-
    -Ah, per te nessuno, per le nostre teste pigre tanto-
    -Quindi mi sembra di aver capito che non abbiate intenzione di festeggiare-
    -No-
    -Va bene, vecchio Grinch- borbottò, mettendo il broncio -Neanche se “festeggiare” volesse dire sedersi tutti insieme nella sala grande con una birra a testa, qualcosa da fumare e buona musica? Chiedete anche ad Eddy e Frank se volete- L’espressione del ragazzo cambiò, parve improvvisamente interessato alla proposta.
    -Non è una così pessima idea, in effetti nessuno di noi oggi lavora e.. non riesco a credere a quello che sto per dire: va bene- la rossa sorrise, vittoriosa, e si affrettò a uscire dalla cucina. –Hey, ma dove vai, adesso?-
    -A prendere Max!- urlò lei dall’ ingresso. –Non voglio che passi questa festa da sola in quel buco di merda, la porterò qui, che le piaccia o no!- promise, sbattendo la porta alle sue spalle.

    Jane colpì con forza il legno marcio della vecchia porta.. per la terza volta. Era la terza volta che bussava nel giro di dieci minuti e nessuno si degnava di aprire, o quantomeno di risponderle.
    -Hey, Casper! Dannazione, aprimi, sono la troietta rossa, sto cercando Max!- urlò. All’interno dell’abitazione qualcosa si mosse. –Andiamo, idiota, apri questa dannatissima porta e..- e la porta si aprì. Sull’ingresso il ragazzetto dell’altra volta la osservava con un’espressione strana. Sembrava infastidito.
    -Casper? Sul serio? Prendi per il culo?-
    -Si, Casper, testa di lampadina, come preferisci, c’è Max?- lui sbuffò.
    -Non puoi tenerti i capelli lunghi se vivi in un posto simile, o ti riempi di pulci e chissà quale altro schifo, in ogni caso entra, non penso che verrebbe fuori, adesso-
    -E perché?-
    -Non lo so, ma è una regola che ha imposto appena arrivata qui: “se ho la porta chiusa e la musica alta non voglio essere disturbata”. Una volta un tizio, Elliot, ha provato ad entrare ed è stato ricacciato fuori con un calcio in pancia. Quella ragazza è una furia quando s’incazza- lei rise.
    -Si, lo è-
    All’interno, quel vecchio magazzino era peggio che da fuori, il che era tutto dire. La rossa si ritrovò in una stanza enorme con il soffitto alto, da cui pendeva una vecchia lampada al neon da officina. Era incredibile che funzionasse ancora. Il pavimento non era altro che una spessa colata di cemento grigio su cui erano stesi tappeti, coperte e materassi insieme a pezzi di intonaco e polvere. In giro erano stato gettate una cospicua quantità di siringhe e in fondo alla stanza era seduto un uomo coperto con un logoro cappotto in flanella marrone. Aveva un’ispida lunga barba grigia che ne avvolgeva il mento e gli occhi, così scuri e spenti, sembravano quelli di un cadavere. Sembrava morto, e la ragazza quasi sobbalzò nel sentirlo parlare.
    -Chi è questa?- chiese, esprimendosi in una specie di gutturale grugnito.
    -Un’amica di Max- rispose il ragazzino.
    -Ah… va bene, dille di stare attenta. In alcune stanze c’è puzza di cadavere- continuò, per poi tornare a fissare le proprie mani, mentre i due entravano a sinistra, nel corridoio laterale che si apriva in fondo alla stanza. C’era puzza di vomito e qualcosa di forte, qualcosa come alcol metilico o acqua ragia.
    -Chi è quello?-
    -Uno dei tanti che vivono qui, loro lo chiamano Harvard, perché dice di averci studiato. Sei fortunata, nei giorni peggiori diventa un problema persino camminare, qui dentro. Ci vengono fin troppe persone a stare in questo buco di merda-
    -E loro come chiamano te?-
    -Ray. Il mio nome è Ray.- disse, fermandosi davanti a una porta chiusa da cui uscivano le note di I Wanna be Sedated dei Ramones. –Questa è camera sua, ora entrare è una scelta a tuo rischio e pericolo, io me ne vado- fece, facendo un cenno con la mano sparendo verso il fondo del corridoio. Jane prese un bel respiro e bussò.
    -Max, sono io!- disse, ma dall’interno non venne risposta. –Max?- chiamò ancora, ma non ottenne altro che silenzio. Allora aprì la porta. La stanza era piccolissima, lunga e stretta, quasi opprimente. La carta da parati era strappata e si arricciava vicino alle macchie di muffa e umido che tingevano gli angoli del soffitto. Per terra era relativamente pulito e coperto di vestiti, vinili e cassette audio, sparsi ovunque, vecchi fogli neri di scritte, disegni e pasticci. Accanto al modesto impianto stereo, al cento della stanza, c’era lei, con le gambe piegate, discoste di un palmo dal petto e la schiena poggiata contro una vecchia branda. Aveva la testa riversa verso il pavimento e vomitava. I capelli le restavano attaccati alle guance madide di sudore e non molto più avanti, davanti a quelle logore e macchiate All Star, giaceva una bottiglietta di plastica la cui bocca era chiusa con della carta stagnola e sul cui lato era stato praticato un foro in cui aveva inserito una cannula. Se non avevi i soldi per comprarti una pipa da crack, quello era certo il metodo artigianale più efficace per assumerlo.
    Tewnty, twenty, twenty, twenty four
    hours to go
    I wanna be sedated.

    –Max!- urlò ancora la rossa, gettandosi verso Miss testa blu. In tutta risposta la ragazzina sollevò la testa, sputando l’ultimo conato, per poi poggiarla sul materasso della branda.
    -Nessuno te l’ha detto?- sussurrò, con un mezzo sorriso stampato sul viso e gli occhi socchiusi.
    -Cosa?-
    Nothing to do, nowhere to go home
    I wanna be sedated.

    -Com’è possibile che Ray non te l’abbia detto? Eppure lo sa..- continuò. –Oh magari gli stai proprio sul cazzo e quindi vuole che ti faccia del male- rise debolmente. Il suo corpo era scosso da piccoli spasmi e il respiro era irregolare: faceva fatica a tirar dentro l’aria.
    -Ma di che diavolo parli? Vieni, ti porta a casa- disse Jane e per quanto la maschera di rabbia che le copriva il volto potesse essere efficace, un’incrinazione nella voce tradì la sua preoccupazione. Non era la prima volta che la vedeva così, eppure ogni volta era come ricevere un pugno nel petto.
    -Dovrei pestarti.. sei entrata nella mia stanza quando la porta era chiusa e la musica era accesa..-
    -Si, certo, quando avrai la forza di sollevare almeno un dito potrai fare ciò che vuoi, ma adesso vieni con me- fece l’altra e il suo tono, ora, non ammetteva repliche, mentre passava un braccio sotto le spalle di Max e la sollevava da terra, tirandosi il suo sulle proprie.
    -No..- fece questa, tentando debolmente di ribellarsi a quella presa, ma i muscoli non le obbedivano più da un pezzo.
    -Non sei nella condizione di poter dare ordini. Ora sta zitta e risparmia il fiato-
    Get me to the airport
    And get me on a plane
    Hurry, hurry, hurry
    Before I go insane.

    Aveva vissuto quella situazione centinaia di volte, con Jim. Era come un Deja Vu e per quanto non fosse così grave come poteva sembrare, non aveva intenzione di lasciare la ragazzina in quel posto schifo e puzzolente un solo minuto di più.
    -Ray!- chiamò. –Ray, vieni ad aiutarmi!- il ragazzo arrivò di corsa dal fondo del corridoio.
    -Cos’è successo?-
    -Al diavolo, indovina? Aiutami a portarla fuori, qualcuno qui ha una macchina?-
    -Perché, tu come sei arrivata?-
    -In moto, ma lei non ci può salire, la perderei a metà strada-
    -Hey, dove mi state… brutti stronzi io vi… lasciatemi andare o…- biascicò ancora Miss testa blu, ma era troppo debole anche solo per terminare la frase. Jane alzò gli occhi al cielo.
    I can’t controll my fingers
    I can’t controll my brain
    Oh no oh oh oh oh.

    -E ti prego, falla stare zitta- disse, lasciandogli il corpo inerme della ragazzina e affrettando il passo verso l’uscita. Doveva trovare una macchina.
    -Chi sei tu?- chiese Harvard, vedendola passare.
    -Un’amica di Max- rispose.
    -Ah… va bene. Sta attenta, in alcune stanze c’è puzza di cadavere-
    -Dio, siete tutti pazzi qui- sussurrò, uscendo dall’abitazione. Fuori il sole aveva appena iniziato a riscaldare l’asfalto, accanto ai marciapiedi era parcheggiata una fila di macchine, la ragazza provò ad aprirle tutte, ma con scarsi risultati. Attraversò la strada e fece lo stesso con quelle parcheggiate dall’altro lato, trovandone finalmente una aperta. Una vecchia Pontiac Phoenix del 70, un bell’affare per l’idiota ricco che l’aveva acquistata. Aperta la portiera del guidatore, divelse lo sportello in plastica sotto il volante e staccò la messa in moto dal quadro. Niente di più semplice, non era certo la prima volta che lo faceva. Vi salì e provò a mettere in moto. La macchina si accese. Un sorrisetto compiaciuto distorse la sua espressione: la divertiva fare queste idiozie, era come essere catapultati dentro quegli stupidi film d’azione che andavano tanto al cinema nell’ ultimo periodo, ma ora aveva cose più importanti di cui preoccuparsi. Ingranò la marcia e partì, fermandosi davanti alla saracinesca del 2434 sulla 4th street. Sul marciapiede c’era già Ray che teneva la fronte di Max, la quale aveva ricominciato a vomitare. Merda. Scese dalla macchina.
    -Ray, mettila dentro, stesa nei sedili di dietro, in fretta!- lui si avvicinò più velocemente che poté, aprì la portiera del passeggero posteriore e vi infilò la ragazzina.
    -Dove diavolo l’hai trovata, questa?- domandò, con gli occhi sgranati e la bocca spalancata.
    -L’ho presa in prestito. Fai in fretta, se esce i proprietario sono fottuta. Te la riporto quando starà meglio, va bene? Ci si rivede- concluse, risalendo in macchina. Come udì il tonfo della portiera che veniva chiusa, partì.
    -Dove mi stai portando…?- chiese l’idiota stesa dietro.
    -A casa mia-
    -Io non ti ho chiesto aiuto..-
    -Ma io ti ho chiesto di stare zitta, perciò ti prego fallo-. Rispose. Si era ormai dimenticata di che giorno fosse.

    Quando Max aprì gli occhi le faceva male tutto il corpo. Quando aprì gli occhi la testa le esplodeva ed era stesa su un divano sfondato in un posto che non ricordava. Lasciò cadere la mano per terra e accarezzò la morbida superficie della moquette. In lontananza percepiva deboli voci confuse, ma per lei erano insopportabili. Un disturbo sistemico nella centrale del suo cervello, come un’interferenza alla radio.
    -State zitti, vi prego..- sussurrò –State zitti!- urlò, infine, chiudendo gli occhi. Quando li riaprì la accolse il sorrisetto beffardo di Jane che soffiava fuori una nuvola di fumo.
    -Cosa c’è? Ti danno fastidio i rumori forti?- chiese, con un tono di voce esageratamente alto, per poi lasciar cadere l’accendino per terra. –O anche quelli deboli ti disturbano?- continuò, sempre con quell’insopportabile tono di voce. Mirava a irritarla, infastidirla, farla arrabbiare. Non le andava giù la fine che aveva fatto e non le andava giù di aver dovuto passare metà della giornata di Natale a occuparsi di una stronza che vomitava, sudava freddo e tremava perché era un’idiota. Non le andava giù neanche il fatto che le importasse così tanto, ma si era già rassegnata all’idea di non poterci fare proprio niente. In fondo era sempre Max.
    -Quando mi alzo giuro che ti..- grugnì la testolina blu.
    -Che cosa? Mi pesti? Non dubito che ci proverai, o che lo vorresti, invece dubito che ti alzerai a breve, considerato quanto tu sia estremamente idiota- asserì con arroganza.
    -Che vuoi da me? Non è la prima volta che succede, dopo un po’ sarebbe passato anche se tu non avessi fatto l’eroina-
    -Un grazie sarebbe sufficiente.-
    -Non ho niente di cui ringraziarti, non è compito tuo occuparti di me-
    -No, hai ragione, quello è compito tuo, ma dato che sembri non essere in grado di assolverlo, allora se ne dovrà occupare qualcun altro e sfortunatamente sono l’unica a cui importi- la ragazzina aprì la bocca per ribattere ma non ne uscì niente, semplicemente distolse lo sguardo –Mi dici che ti è preso?- ora Jane aveva abbassato la voce e si era accovacciata accanto a lei. Forse avrebbe dovuto stare attenta, in fondo da lì era a portata di braccio e avrebbe potuto prendersi uno schiaffo o qualcosa di simile, ma era abbastanza sicura che lei non avesse alcuna intenzione di colpirla. Quel silenzio era il suo modo di dire grazie e di scusarsi. Non era cambiata di molto, dopotutto.
    -Non mi è preso niente, volevo solo.. solo stare un po’ tranquilla. In quella casa la gente urla spesso, e ci sono persone che fanno casino, o che vomitano. Non volevo più sentire quella puzza-
    -E alzarti e uscire era troppo sano?-
    -Lo sai cosa intendo, non fare la stronza, non è il momento- rispose. Si, sapeva a cosa si riferisse e come per Jim non riusciva davvero ad arrabbiarsi, perché in fondo capiva che ovunque fosse andata le urla, il casino e la puzza sarebbero venuti con lei.
    -Prima suonavi per non sentire il resto- la ragazzina sorrise.
    -Si, certo, poi sono cresciuta e la mia chitarra è diventata quasi afona per me, così l’ho lasciata a casa quando.. quando me ne sono andata-
    -E la vecchia Ramona non ti manca?- sorrise ancora.
    -Oh si, certo che mi manca. Era così bella.. in ogni caso ora non ne ho una e non devo giustificarmi con te- disse, resasi improvvisamente conto di con chi stesse parlando. Non voleva dirle che stava male, non voleva darle soddisfazione. Non voleva dirle quanto le fosse mancata, non voleva sapesse che sulla schiena portava tatuato il dragone blu che le aveva disegnato in camera, o che avesse ancora tutte le loro foto e il vinile dei Misfits che le aveva regalato per il primo anniversario. Voleva cacciarla dalla sua vita e non riusciva neanche a tenerla lontana.
    -Se vuoi ho io una chitarra da darti. Non credo che Jim si offenderebbe se la sua la prendessi tu-
    -Vuoi darmi la chitarra del tuo defunto amico morto di overdose? Poetico, molto poetico, davvero, ma no- disse, tentando inutilmente di sollevarsi. La testa le stava scoppiando. –Non hai qualcosa da darmi? Medicinali o stronzate simili?-
    -No, e anche se ne avessi non sarebbe il momento, il tuo corpo deve ripulirsi. Qualche ora e sarai come nuova-
    -Allora puoi mettere musica?-
    -Hai mal di testa e vuoi della musica?-
    -Ti sorprenderebbe quanto può essere efficace-
    -Lo so, stavo solo scherzando-
    -Bè piantala-
    -Se tu lo facessi più spesso magari non saresti così fottutamente autodistruttiva e creeresti meno problemi al mondo- Max sbuffò rumorosamente, alzando gli occhi al cielo. Era incastrata lì con quella e c’era poco da fare. –Perché sei venuta?- domandò.
    -Oggi è Natale-
    -Sai benissimo che non lo festeggio-
    -Si, lo so e so anche che nei due anni in cui siamo state insieme hai iniziato a farlo e ti è piaciuto-
    -Questo è quello che credi tu-
    -Ah, e piantala! Mi spieghi perché devi per forza fare così? Non ti hanno detto che l’orgoglio uccide?- testa blu la fissò, in silenzio, come se fosse stata beccata. In un’altra situazione probabilmente si sarebbe arrabbiata e se ne sarebbe andata, avrebbe fatto quello che faceva di solito, scappare quando le cose si mettevano male per lei, ma era troppo stanca e anche se ne avesse avuto voglia non avrebbe potuto. La rossa sorrise. –Pensi davvero che non me ne sia accorta? Max, ho smesso di ascoltare quello che dici dopo già un mese dopo averti conosciuta. I tuoi gesti sono decisamente più eloquenti. Tu non mi odi e fai fatica ad essere ancora arrabbiata con me perché sappiamo entrambe quanto io ti sia mancata… e quanto tu sia mancata a me. In ogni caso non ha importanza, quando vorrai parlarne io sarò qui e ho anche intenzione di stare al gioco per tutto il tempo che farai l’incazzata, perciò dimmi che canzone vuoi che metta e vedo se posso accontentarti- concluse con un mezzo sorriso beffardo. Dio, quanto si divertiva.
    -Stati Age dei Misfits- rispose, ma la sua voce era piatta, atonale, apatica.
    -Che canzone?-
    -Hybrid Moments- mormorò, emettendo un suono ormai appena percettibile. Non era arrabbiata, non era nervosa, non aveva neanche voglia di reagire. Quella era la verità, lo sapeva, e ora le stava precipitando addosso come pioggia acida.
    If you gonna scream
    Scream with me
    Moments like this never last.

    Chiuse gli occhi e si lasciò andare. Lasciò che la musica la cullasse, che coprisse ogni altro suono, che cancellasse il rumore, le urla, la puzza.
    When do creatures
    Rape your face
    Hybrids open up the door

    Immersi in quella melodia, i fantasmi che tormentavano la sua mente stanca ora la avvolgevano, la riscaldavano. Neanche si accorse di aver iniziato a piangere. Gli occhi pieni ora sgorgavano calde lacrime che le accarezzavano le guance dolcemente, ma in un momento come quello non aveva importanza.
    Oh baby when you cry
    Your face is momentary
    You hide your look
    Behind these scars…


    In Hybrid Moments, give me a moment.


    -Hey, che fate, iniziate la festa senza di noi?- chiese Brat si avvicinandosi alle due ragazze con delle birre in mano. Max era finalmente riuscita a sedersi e Jane si se ne stava rannicchiata sul pavimento, con la schiena contro quel vecchio divano. Forse avrebbero dovuto cambiarlo, certo, ma quell’inverno era troppo rigido e la casa era troppo fredda, avevano altre priorità.
    -Si, volevamo evitarti- scherzò la rossa.
    -Oh, andiamo! Non sono simpatico?- domandò, sedendosi a gambe incrociate davanti a lei.
    -Si dice che i nani abbiano il cuore troppo vicino al buco del culo per essere simpatici, perciò no, non lo sei per definizione- Miss testa blu, ormai quasi ritornata nel pieno delle sue forze fisiche e recuperati gli stralci ancora sanguinanti della sua coscienza, rise di gusto nel vedere il ragazzo mettere il broncio.
    -Vaffanculo- borbottò. Era piuttosto permaloso, spesso e volentieri, ma quella sera aveva voglia di ridere, scherzare. Quella sera stava bene.
    -Che fate? Prendete in giro il mio bambino?- Spike, appena uscito dalla cucina seguito da uno spavaldo e saltellante Jackie, da Frank e da Mary, sorrise divertito guardando i tre.
    -Che quadretto carismatico, Spikey, non avresti per caso un’istantanea? Vorrei immortalare questa scena- lo spilungone dai capelli lunghi si irrigidì e divenne rosso per il nervoso.
    -Quante volte ti ho detto di non chiamarmi così, Jackie?!- sbraitò in faccia al ragazzo.
    -Hey, calma, calma, non volevo certo offenderti, ne farti infuriare. Perciò nel nome del buon spirito natalizio ti chiedo umilmente scusa e ti offro un delizioso Chardonnay del 58, che ne pensi?- lui sembrò rilassarsi e poi, senza replicare ulteriormente, si sedette accanto all’amico.
    -Perché sei così nervoso, vecchio Grinch?- domandò Jane, con un espressione da bambina sbruffona.
    -Non mi va’ di parlarne-
    -Oh, e andiamo! Ha qualcosa a che fare con il fatto che sia Natale?- lui non disse niente, ma certo la risposta che celava era un si. –Oh, dai, parla, musone!-
    -Non avrà per caso a che fare con il fatto che sta mattina un fastidiosissimo folletto idiota è spuntato in cucina spargendo pace e amore con un tono di voce troppo alto per il mio cervello stanco?- lei lo fissò per qualche secondo, poi sollevò una mano e iniziò a dondolare il dito indice a destra e a sinistra in segno di negazione.
    -No, no, no, non si dicono bugie oggi. Dai, parla-
    -Oh, accidenti, sei proprio una rompipalle, lo sai?-
    -Si, me lo dicono spesso-
    -Chissà perché..- sentenziò Max.
    -Semplicemente non mi piace questa festa, fine della storia- sbuffò il ragazzo.
    -Si, ma perché?-
    -Perché è stato il giorno di Natale che i suoi genitori gli hanno detto che la sua madre biologica era una drogata del cazzo e che per questo l’aveva rifiutato, contenta? Ora piantala- a rispondere fu Brat e ne seguì un pesante minuto di silenzio che a loro parve un’eternità.
    -…perché Eddy non c’è?- chiese lei, ora tentando di sviare il discorso.
    -Gli abbiamo chiesto di venire, ma ha rifiutato. Doveva studiare. Ha anche saltato le prove questa settimana, accidenti, lasciamo perdere, quel ragazzo mi sta davvero facendo incazzare-
    -Io proprio non riesco a capirla la gente così- disse Jackie –Tanto è inutile, potrà anche studiare tutti i libri esistenti sulla terra, ma resterà sempre un coglione gigantesco- tutti i presenti risero e l’aria sembrò alleggerirsi. Stapparono le birre, accesero la musica. Chiacchierarono, risero, ballarono e saltarono per tutta la stanza.
    Il Natale in fondo era questo, ed era per questo che a Jane piaceva. Certo, è una stupida festa cristiana che ti consente di essere un figlio di puttana tutto il resto dell’anno per ricordarti di dover essere caritatevole solo il 25 di Dicembre e certo loro non potevano permettersi di farsi enormi regali o di comprare un albero da decorare, degli addobbi, o delle lucine colorate, ma per lei era solo una buona scusa per stare tutti insieme, per dimenticarsi di tutto il resto. Essere una famiglia significava non aver bisogno di parlare dei propri problemi, lamentarsi dei propri casini o piangere per le proprie stronzate, ma dimenticarli per qualche ora.
    Questo era il loro povero, patetico, distorto Natale da pagani e di certo non ne esisteva uno migliore o più puro. In fondo Gesù non era che il figlio di un falegname, nato nella periferia di Betlemme in una stalla. Una prostituta, una drogata e una fuggitiva; uno spacciatore senza scrupoli, due eterni Peter Pan, musicisti per ragazzacci e un batterista matto non avevano niente di diverso da lui: era un povero sfigato di periferia con niente più che un ideale, come loro.
     
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    È strana questa voglia di Jane di passare il Natale con tutti. Forse lo fa perché è il primo che passa senza Jim.
     
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    Letti tutti i capitoli non commentati fin'ora.
    Ce ne sono di cose da dire.
    Innanzitutto lo stronzo che prendeva Mary per il braccio penso l'avrei preso a pugni, mi ha fatto proprio rabbia.
    La storia procede con grande intelligenza, finalmente Jane rivede suo padre, e i meccanismi dei personaggi si muovono devo dire con grande maestria.
    Sono tutti gestiti bene e realisticamente nel senso che viene spiegato quello che fanno in contemporanea senza troppi fastidi.
    Penso che in questa storia tu ci stia mettendo l'anima, non solo nei temi trattati, ma anche nei personaggi, che mi piacciono tantissimo, perché sono così interessanti, veri, non sembrano mai neanche per un secondo sagome del cazzo messe lì per fare una storia.
    C'è tanta verità, ma l'unico appunto che ho da fare è questo, si intuisce che Max ha fatto uso di metanfetamina, e in un passaggio di un vecchio capitolo anche Jackie ne faceva uso. Ora, da quello che so io fa cadere i denti, i capelli e dà una grossa dipendenza. E non mi sembra abbia arrecato questi effetti. C'è da dire però che non è molto specificato.
    A parte questo, ho apprezzato abbastanza la canzone dei Genesis usata in quel contesto, e ho notato che mentre la sentivo mi andava anche a tempo con la storia, questo lo considero geniale.
    Continua così, la devi finire questa storia cazzo, continuala al meglio che puoi, prenditi anche del tempo se necessario, ma fallo coi controcoglioni, perché so che ci puoi riuscire.
     
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    Forse Max ha una parrucca blu, perché ha però i capelli per l'uso sfrenato delle droghe.
     
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    Chi lo sa. I denti però ti diventano una merda se assumi metanfetamina. Prova a cercare su google immagini meth mouth :D
     
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  14. Brat Fitzparker
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    Matt, leggere i tuoi commenti sta facendo ingrassare di brutto la mia autostima, in ogni caso mi fa davvero piacere che tu la stia apprezzando così tanto e che stia continuando a leggerlo. Si, ci sto mettendo l'anima e poi capirai in che senso. Ad ogni modo ho intenzione di finirla ad ogni costo e fanculo il resto. Certo, ho quasi finito i capitoli già scritti (ne mancano tipo due) e poi sarò più lento a proseguire perché sotto esame è improbabile fare un capitolo al giorno o giù di lì, però finirò, lo prometto, lo giuro e lo spergiuro sulle mia chiappe che lo finirò.

    Allora, si, quegli effetti ci sono quasi sempre in maniera più o meno grave a seconda del consumo. Esiste una canzone (sempre dei Green Day. Non prendetemi per un idiota, è solo che se mi piace una cosa la studio e ho studiato i loro testi. Tutti, cazzo.) che si chiama Geek Stink Breath e descrive appunto gli effetti della Speed (che è eroina mista a cocaina e da gli stessi problemi della prima, solo nettamente più blandi), che comprendono alito di schifo, denti marci e croste sul viso oltre che a un dimagrimento incontrollato. Questi effetti li avrebbero anche i personaggi, ma dato che non consumano abitualmente eroina, anzi, Max consuma essenzialmente Crack, il resto si considera come "esperienza ripetuta alternando varie droghe", e Jackie (di cui non ricordo di aver detto che ha consumato eroina, ma penso sia sott'inteso se non evidente) consuma di tutto, insomma, suppongo che la dipendenza e gli effetti fisci (come la cosa dei denti e bla bla) dipendano sia dal dosaggio che dalla frequenza con cui si assume. Mettiamo caso che nella siringa di Jackie ci siano quattro sostanze diverse mescolate, il dosaggio dovrebbe essere piuttosto ridotto, perché in quel caso è l'unione che fa la forza, perciò magari gli effetti non si manifestano in maniera troppo evidente...
    La verità è che non ci avevo pensato, ma è probabile che valga come giustificazione, questa.
     
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    Chiaro :D
     
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131 replies since 4/5/2016, 10:56   1072 views
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