We've got to get in to get out

Avevano combattuto fino allo stremo contro se stessi per dimenticare tutto ciò che avevano passato, tutto il tempo che avevano lasciato indietro e ora non ricordavano neanche il perché.

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    Ah, Aster, ho una domanda, tra poco i capitoli diventeranno piuttosto lungetti, tipo otto pagine di Word, posso pubblicarli in un unico commento o devo separarli?

    In teoria li puoi pubblicare, lo faccio anch'io. Solo che c'è un limite di caratteri da rispettare. È una cosa tecnica della piattaforma, non dipende da noi. Fai una prova e vedi se te lo fa senza problemi. Se ti dice di no, basta che spezzi.

    Ps. Poi passò a leggere e a commentare :D
     
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    Letto anche questo. Continua a piacermi e ad esaltarmi. Si, perché questa storia esalta parecchio. Inoltre i personaggi nonostante le loro azioni racchiudono secondo me una profondità molto ma molto elevata, si, anche Mary secondo me, solo che forse non viene mai espressa e rimane lì. Jane e Mary continuano a essere personaggi che non hanno ancora detto tutto quello che potevano dire, per quello sono interessanti. Secondo me, un messaggio che si nota, e' della difficoltà che l'assenza di una vera famiglia ha provocato a queste persone, e il conseguente attaccarsi l'una con l'altra per vivere insieme, spesso nelle condizioni peggiori, tutte causate non solo dalla mancanza di soldi, ma dal gran dolore che tengono dentro. Jane fa sempre vedere che è forte e dura ma soffre più di tutti secondo me. Qui siamo di fronte a uno spaccato di una generazione persa nei suoi sogni purtroppo affossati dalla realtà che spesso non comprende questo tipo di persone che hanno un intelligenza o sensibilità diversa e difficile da capire. Ribadisco che è una storia che non possono scrivere tutti perché ci vuole una certa conoscenza e sensibilità che non tutti hanno.
     
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    Sospettavo che fosse quel ragazzo che aveva incontro Mary, e ne ho avuto conferma. Sembra un tipo interessante, ma non vorrei che finisse con la solita storia @lui incontra lei e vissero felici, drogati, spacciatori, e contenti @, ma dato che tu non sei attratto dal lieto fine... XD

    CITAZIONE
    Ora poco meno che un uomo la fissava con i suoi enormi occhi verdi,

    Non mi è molto chiara la frase. È un errore?
     
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  4. Brat Fitzparker
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    Sai, Matthew, penso che tu la stia capendo fino in fondo, questa storia. Sono felice che ti sia trovato a leggerla, stai guardando oltre le righe, grattando via la superficie. Vedi quello che vedo io nel scriverla, capisci. Temo di doverti ringraziare anche per questo, anche se non è una cosa che si può scegliere, è solo come se parlassi la mia stessa lingua.

    Chi? Brat uno spacciatore? No, lo era solo al liceo, in ogni caso no, ovviamente non finirà così. Certo, è palese che lui sia mezzo colato e la cosa andrà a peggiorare, tuttavia Mary non è come ve l'aspettate, non può andare bene e basta, non sarebbe una mia storia. In ogni caso non è un errore, cosa non ti torna della frase? In pratica dice che Brat (non ancora uomo ma non più ragazzino) la fissa con i suoi occhi verdi, non.. vedo l'ambiguità in questa frase, se mi spieghi chiarisco i tuoi dubbi.

    Like a rolling stone.

    Mary spalancò gli occhi di soprassalto. Qualcuno stava spostando il divano su cui si era addormentata per girarlo verso l’amplesso di amplificatori e batteria, in fondo alla stanza.
    -Che cazzo fai?- Jackie rise.
    -Sorgi e spandi, principessa! è il momento di aprire gli occhietti e… mi serve il divano.- la ragazza rifletté sull’idea di mandarlo a quel paese, girarsi e riaddormentarsi, ma non ci sarebbe riuscita comunque, quella non era casa sua e da quel ragazzo poteva aspettarsi di tutto, voleva evitare di farlo arrabbiare in qualsiasi modo, evidentemente il suo atteggiamento da schizoide serviva a qualcosa, in fondo. Così non disse niente e si mise a sedere.
    Brat, Spike e Eddy stavano sistemando i loro strumenti e Jane li osservava in piedi, appoggiata con le gambe incrociate allo stipite della porta, con una sigaretta fra le dita. Sorrideva, ed era un sorriso quasi infantile, da bambina, un sorriso che neanche lei pensava di potersi permettere più. Si sentiva di nuovo a casa, circondata di profumi e voci familiari, di suoni e persone come lei, come Jim. Non pensava che potesse essere così semplice essere felice, che bastasse così poco, o non lo ricordava, ma in effetti in quel momento non pensava affatto, lo era e basta.
    Jackie si lascio cadere a peso morto sulla poltrona, accavallò le gambe e sollevò il bastone, esultante.
    -Fateci sognare, ragazzi!- urlò. Mary lo fissava spaesata, lui se ne accorse, così si voltò verso di lei e sorrise. –Niente di meglio che del buon punk da strada la mattina, meglio di un caffè o di un’iniezione di una qualsivoglia sostanza ristoratrice, ma dalla tua espressione deduco che tu sia nuova a questo genere, e come tale spero che gradirai ciò che i nostri cari fratelli anno preparato per noi, bè, più per loro stessi, in effetti, ma non fa troppa differenza- disse, voltandosi di nuovo verso il gruppo ormai pronto a suonare. Lei avrebbe voluto contraddirlo, dirgli che aveva già ascoltato del punk, a un concerto, che non era la prima volta, e che in fondo un po’ le piaceva. Voleva forse parlare di quanto l’avesse sentito nel suo stesso sangue, di quanto il senso di libertà che trasmetteva l’avesse già conquistata, ma non spiccicò parola, troppo intimorita dallo strano tizio che ora picchiettava con il dito sul vetro del vecchio orologio da taschino, come se si aspettasse che da un momento all’altro dovesse ripartire.
    -Signore e signori, vi presento i mitici Sweet Youth!- gridò Brat nel microfono, mimando poi un’ovazione proveniente da un pubblico immaginario, che fu accolta dagli altri tre spettatori.
    -Here is where the time begin
    Talking about things we still don’t know
    Smoking cigarettes and lying down
    In the fork of the road!-
    iniziò a cantare. La chitarra strideva e gracchiava note distorte, le mani del ragazzo, sulle sue corde, scattavano avanti e indietro in un movimento frenetico e primitivo. Quello era l’istinto e il muscolo. Il basso affiancava ed esaltava quel suono con un ritmo cadenzato ed elaborato, le mani di Spike danzavano sulle corde, come gambe correvano emettendo un suono profondo e caldo, un suono forte. Quello era la logica e le ossa. In sottofondo la batteria di Eddy riprendeva il ritmo della canzone e dei battiti del cuore dei tre spettatori. Batteva e pompava sangue nella melodia, rendendola una cosa viva. La voce, infine, quella era il pensiero illogico e irrazionale di un ragazzino. Ecco l’urlo di libertà che Mary ricordava, come quella sera al Jack’s Rock. Si voltò e vide lo stesso sguardo che avevano quegli sconosciuti nella folla, quella notte, in Jane e Jackie.
    Lei saltava e si dimenava, come se non fosse sola, come se potesse servire a qualcosa, come se potesse demolire il pavimento e far tremare l’edificio. Scuoteva la testa e i capelli sembravano fiamme che bruciavano fiere. Non era più una ragazza, non un essere umano, ma un canale che conduceva quel ritmo, quel suono, quel battito. Lui invece ora si era alzato in piedi sul divano e saltava, così tanto da farle rischiare di rotolare giù. Si muoveva avanti a indietro, agitando i piedi e il bastone. Saltellava e rideva, pareva quasi pazzo nevrotico. Si mise in piedi sullo schienale quasi rischiò di ribaltarlo, cadendo all’indietro e picchiando il culo per terra. I musicisti si fermarono.
    -Jackie, tutto bene?- ci fu mezzo istante di silenzio, poi il viso consunto del ragazzo risbucò da dietro il divano.
    -Woho! Accidenti ragazzi, perché vi fermate? Non c’è da temere, il vecchio Jackie si diverte così, continuate dunque a rendere migliore questo giorno infausto come tanti altri!- urlò, scomparendo di nuovo dietro il divano. I ragazzi risero, per poi riprendere a suonare con un’altra canzone.
    -Sit alone here in my room
    A lot of questions drive me mad
    Will I ever have to grow
    Or will I always be the same?..-

    La cosa andò avanti per una mezz’oretta, fecero altre due o tre canzoni, e poi si fermarono, accolti dagli applausi dei tre.
    -Ragazzi, ma scherzate? È fantastico!- disse Jane, e ora sembrava del tutto un’altra persona. Era entusiasta, era felice. Corse incontro a Brat e lo abbracciò. Un istante dopo lo lasciò andare, quasi sorpresa da se stessa. Per mezz’or aveva dimenticato i quattro anni, e ora che l’aveva toccato, che l’aveva stretto, le erano tornati su tutto d’un colpo, come un conato di vomito al termine di una sbronza omicida. Quattro anni di silenzio atomico, non una parola, non un contatto, e ora un abbraccio. Sembrerà stupido, ma lei pensò che fosse troppo. Se fosse stata una ragazza molto emotiva sarebbe arrossita, sarebbe stata terribilmente in imbarazzo, e questo sarebbe stato evidente, ma non lo era e si limitò a nascondere l’imbarazzo facendo finta di niente e abbassando lo sguardo. Anche Brat era rimasto in silenzio, come se non se lo aspettasse, e in effetti no, non se l’aspettava, ma qualcosa, dentro di lui, era felice che lei l’avesse fatto. –Complimenti..- mormorò lei. Se aveva mai avuto un lato femminile, pensò Mary, osservandola, doveva essere senz’altro quello. Poi Brat volse lo sguardo verso di lei, che si ritrovò a sorridergli. Quegli enormi occhi verdi, chissà come e perché, le facevano uno strano effetto. Pensava che fosse il modo in cui guardava le cose, o magari il modo in cui guardava lei, come se tentasse di leggerla, di capirla, come se gli importasse di più di quello che vedeva. Nessuno l’aveva mai guardata così, nessuno aveva mai provato a guardare dentro di lei, che dal canto suo non si era mai preoccupata di avere qualcosa da nascondere, qualcosa a cui qualcuno si sarebbe potuto interessare. E a lei importava che a lui importasse? No. Lui era un patetico ragazzino come tanti altri, con un sogno e basta, e lei una principessa in rovina, due mondi lontani. No, non le importava, non poteva davvero importarle, le regine non si innamorano dei servi, era caduta già abbastanza in basso, non sarebbe scesa ancora più giù.
    -Tu non sei di questa sponda, vero o no, cara?- sussurrò Jackie accanto al suo viso, guardando avanti, come se non stesse parlando lei e calpestando i suoi pensieri che crocchiarono come foglie secche in autunno.
    -Che vuoi dire?-
    -Che non fai parte di questo mondo, di questo lato del fiume. Tu non sei come noi, sbaglio forse?-
    -Perché, è così evidente?-
    -Oh, decisamente si che lo è, lo è davvero. Si capisce, in effetti, da come guardi gli altri, quello sguardo giudice e altezzoso appartiene solo a chi è cresciuto su cuscini di velluto, non ch’io sia molto diverso da te, se tu fossi una brava osservatrice ti saresti resa conto che questa gente mi fa lo stesso effetto, anche se per ragioni diverse. Gradirei parlarne al più presto di questa questione, con te, posso dunque sperare di poter intraprendere una simile conversazione in un luogo più consono?-
    -…si, suppongo che si possa fare..- rispose Mary con un filo di voce. L’idea di restare sola con quell’individuo la terrorizzava, ma c’era un nonsoche di attraente nel pericolo che rappresentava: tutti abbiamo la tendenza a gettarci proprio fra le braccia del carnefice, regine o servi non esiste differenza, la mente umana è uguale per tutti, le leggi mentali sono imprescindibili e immutabili.
    Avuta la risposta che cercava, Jackie sorrise e si avvicinò a fare i complimenti ai ragazzi. In effetti gli piacevano davvero, come gli piaceva davvero il punk, ma era l’unica cosa che prezzava. Tutto il resto del suo mondo era ripiegato sulla soddisfazione personale, e non conosceva altro. Jackie era un Dio pronto a soddisfare se stesso e i suoi capricci, gli altri, per lui, non erano niente più che pedine, inutili pezzi da mandare al macello per permettere la sopravvivenza del più forte. Se il diavolo avesse avuto un volto, avrebbe avuto il suo e quella ragazza, così persa, così spaesata in un mondo che non era il suo, poteva essergli utile, sapeva che l’avrebbe seguito, la intimoriva, certo, se n’era accorto, non era sciocco, ma era attratta da lui, e come poteva non esserlo? Una mente così singolare, un ragazzo talmente eccentrico da mettere in soggezione chi lo circondava, era al contempo capace di incuriosire, ipnotizzare e quindi condurre gli altri a se. Non gli restava che trovare un modo per servirsene.
    Sollevò lo sguardo e si accorse che Jane lo fissava. Aveva notato la breve discussione che i due avevano avuto, e, anche se forse non poteva ammetterlo a se stessa, era preoccupata per Mary. Lei non aveva istinto di sopravvivenza, non l’aveva sviluppato, non percepiva il pericolo, sarebbe salita in macchina con il primo sconosciuto che avrebbe incontrato e avrebbe mangiato le caramelle date dal primo barbone che glie le avesse offerte per strada, così ora era ipnotizzata dall’eccentrico spacciatore e quello non poteva essere una buona cosa, ma a lei in fondo che importava? Niente. Assolutamente niente. Non era affare suo dove quella ragazza andava a cacciarsi, eppure qualcosa si agitava sotto una fredda e illusoria corazza di apatia, un senso di protezione, come se, in fondo, quella ragazza potesse meritare il suo aiuto, come se, da qualche parte dentro di lei, riuscisse a vedere qualcosa, un pezzo della sua anima che ancora, anche se a stento, sopravviveva.
    Ma non c’era, e non meritava il suo aiuto. Se lo ripetè ancora, e quasi finì per crederci. Quasi.

    -Jane, hai pensato di passare a casa tua?- Spike la osservava rimestare il proprio caffè con il cucchiaino, mentre fissava il vuoto. Era pomeriggio inoltrato ed erano rimasti soli a casa, Brat e Eddy erano andati a fare una spesa per nascondere la desolazione che dimorava nel vecchio frigorifero, o almeno così avevano detto, Jackie era andato a prendere il nuovo carico ai vecchi magazzini, Mary aveva ripreso il suo lavoro e ora Jane si irrigidiva di colpo, spostando lo sguardo sul ragazzo. Dopo dieci minuti di futili conversazioni su come fossero trascorse le loro vite fino a quel momento, ora quella domanda schiacciò l’aria come fosse di piombo, precipitando pesantemente sulla mente della ragazza.
    -E perché dovrei, Spike?-
    -Credo che a tuo padre farebbe piacere- il suo cuore sembrò ammorbidirsi talmente tanto da non avere più la forza di pompare sangue al cervello. Erano anni che non parlava di suo padre, anni che nessuno lo nominava, persino Jim, seppur convinto che avrebbe dovuto quantomeno chiamarlo, non ne aveva mai parlato. Aveva rimosso anche le parole di Ollie, le stesse che aveva appena sentito e ora quel ragazzo riesumava un discorso lasciato in sospeso dall’angolo delle cianfrusaglie e dei ricordi dimenticati a prendere polvere, ma d’altronde non si era mai fatto troppi problemi a tirar fuori questioni scomode come quella. Era dannatamente sincero, diretto, e forse, in fondo, ci si divertiva anche.
    -E tu che ne sai? Non sono neanche sicura che sia ancora a casa… e poi lo sai perché non posso tornare-
    -Tu puoi benissimo tornare, è che non vuoi-
    -E se ci fosse ancora lei? Cazzo no, proverei ad ucciderla, e accidenti, mi dici perché cazzo ti è venuto in testa proprio questo, di tutte le cose che potevi dire, dannazione?-
    -Vedi, quando te ne sei andata sono passato io a casa tua a cercarti. Sono stato io a scoprire che eri sparita e sono tornato lì ogni giorno nei i seguenti due mesi per tenere compagnia a tuo padre. Ci era rimasto davvero da schifo, sai? Eppure non ce l’aveva con te, almeno non per il motivo che pensi tu, non ti biasimava per essertene andata, ma per non aver portato via anche lui..- Jane sorrise, un sorriso amaro, velenoso come cianuro, come le lacrime che riempivano il suo sguardo. Era stato suo padre a insegnarle ad essere forte, era stato suo padre a insegnarle che gli uomini non piangono, a insegnarle a guidare, a suonare, ad amare. L’aveva cresciuta lui, con il suo idealismo, con la sua logica, con le sue stupide abitudini, con tutto quello che sapeva essere, nel bene e nel male e lei in cambio non aveva fatto altro che sparire. Si sentiva un’ingrata e lo era, accidenti se lo era. L’aveva lasciato lì con lei, con quella donna che aveva divorato e distrutto tutto quello che quell’uomo rappresentava. L’aveva abbandonato, dopo tutto. Forse era solo un’egoista, un’opportunista, forse lo era sempre stata e forse non meritava di tornare a casa e di rivederlo. Forse non meritava più il suo affetto.
    Lo pensava davvero e anche se lui l’avesse perdonata, sarebbe stata lei a non riuscire a perdonare se stessa. Si odiava, odiava sua madre, e forse, per questo, quasi l’intero genere femminile. Una donna misogina, una contraddizione in termini che si realizzava perfettamente in quella mente.
    Si alzò.
    -Lasciami in pace, Spike. Non ne voglio parlare- mormorò, indossando il cappotto e uscendo di casa. Fuori piovigginava, ma quelle gocce, quel freddo, ora, sembravano espiare le sue colpe, scivolando sul suo viso, portandole via con se.
    Iniziò a camminare.


    Ecco Mary che ancora camminava ancheggiando sulla Eastshore Highway. Aveva seguito a piedi Camelia Street per poi svoltare sulla 2nd Street e ritrovarsi a ondeggiare sul bordo di quella vecchia autostrada. Ancora una volta aveva indossato quella gonna corta e ancora una volta, sotto, non aveva messo le mutandine. Si era truccata, pettinata, lavata, e ora era lì, che avanzava su quei vecchi tacchi neri infilata nelle calze a rete ormai strappate. Quanta strada la separava da casa, quanta la separava dal suo mondo. Ora non poteva più permettersi di parlare forte, non aveva più niente di cui sentirsi così orgogliosa, ora non importava più quale prestigiosa scuola avesse frequentato, o quanti soldi la sua famiglia avesse avuto, perché non era altro che una puttana, la sua pelle, le sue labbra, il suo corpo, lei stessa non valeva di più che un centinaio di dollari. Ecco come ci si sente ad essere una completa sconosciuta, una vagabonda. Ora non era altro che uno scarto, come chiunque altro, e il suo titolo da principessa non valeva neanche un pasto, in quella discarica, e per quanto ci si aggrappasse, per quanto si convincesse che avesse ancora un valore, si ritrovava a scendere a patti con i tipi misteriosi che si fermavano accanto a lei, la quale cercava disperatamente un alibi nei loro sguardi vuoti, senza trovare niente. Questa era l’innegabile patetica fine che aveva fatto, e di certo non le piaceva, ma non poteva permettersi di pensarci, no, lei semplicemente guardava avanti, con niente in testa. Se avesse anche solo provato a rifletterci sarebbe esplosa: la regola del lavoro più semplice del mondo era che dovevi spegnere il cervello per avere il coraggio di farlo.
    -Ciao..- una voce familiare, alle sue spalle, la costrinse a voltarsi. Non aveva bisogno di vedere gli scuri boccoli castani, o gli occhi verdi, per capire di chi si trattasse.
    Brat J.B. era uscito di casa dicendo che sarebbe andato a fare la spesa, ma aveva abbandonato Eddy appena fuori dall’ingresso, per seguire la ragazza, e osservandola non aveva potuto fare a meno di pensare a una vecchia canzone di Bob Dylan, la preferita di sua madre, Like a Rolling Stone.
    Once upon a time you dressed so fine
    You threw the bums a dime in your prime, didn’t you?

    -..Sai, passavo di qui e così ho pensato..-
    -Perché mi stai seguendo?- sarà stata superficiale e incapace di pensare ad altri che non fossero se stessa, ma non era stupida, no, Mary non lo era. Forse era questo che Jim aveva visto in lei, forse era questo che risvegliava in Jane un istinto di protezione nei suoi confronti, e forse era quello che Brat aveva trovato oltre il giaccio secco del suo sguardo. Sorrise.
    -Volevo parlarti, ammetto che mi incuriosisci, in un certo senso. Voglio.. solo sapere chi sei-
    -Sono solo Mary, e poi ormai viviamo insieme, puoi farlo a casa, io qui sto lavorando…- rispose. –Se resti i miei clienti penseranno che io sia impegnata-
    -No, io non credo che tu sia solo Mary. Potresti non lavorare per oggi, che dici? Jane mi ha detto che vieni da una famiglia ricca, che sei una principessa a cui è caduta la corona, insomma-
    -Si, sono una principessa viziata, e allora?-
    -Calmati tigre, sono solo curioso, e che ne dici di questo lato della vita? Quello in cui mammina e papino non ti puliscono anche il culo? Com’è?- La biondina era irritata da quel discorso, non aveva voglia di parlare, specialmente non con lui. L’effetto che le faceva la disturbava.
    -Fa schifo- rispose, e nella voce mise tutto il veleno di cui disponeva, come se fosse una critica al ragazzo stesso e non a quella vita. Inaspettatamente lui scoppiò a ridere.
    -Come darti torto, in effetti non è un granchè, ma ha i suoi lati positivi-
    -Io non li vedo proprio-
    -Ah no? Quindi la musica che abbiamo fatto sta mattina non ti è piaciuta?-
    -Bè.. in effetti si-
    -Ecco, e la birra?- chiese, porgendole la bottiglia che stringeva in mano.
    -No, quella non mi piace- lui rise ancora.
    -Si, sei proprio una principessa-
    And nobody has ever taught you how to live on the street
    and now you find out you’re gonna have to get used to it.

    -Come ci si sente ad aver toccato il fondo?- chiese, dopo qualche minuto di silenzio, durante il quale aveva guardato lontano, verso il mare, chiedendosi quale potesse essere la domanda giusta. La domanda giusta per cosa, poi? Per costringerla a distrarsi, a pensare così profondamente alla risposta da dimenticare chi l’avesse posta. Era impossibile non notare, nel suo sguardo, un infondato senso di superiorità verso tutti loro, ed era sicuro che se non fosse riuscito ad affondare le unghie sulla carne viva non avrebbe mai superato l’inverno nucleare che circondava la sua anima.
    -Bè, come vuoi che ci si senta? Dormivo su cuscini di velluto e indossavo abiti di cashmere e seta, mangiavo ciò che la nostra cuoca cucinava e andavo in una scuola prestigiosa; suonavo il piano, ballavo alle serate di gala con dignitari e generali, uomini di classe, e ora danzo da sola con indosso una gonna corta e macchiata, sotto cui non porto neanche le mutande, mangio cibo confezionato perché non posso permettermi di più, dormo su un divano, e niente di tutto quello che ho studiato mi è servito. Prima gli altri si occupavano di me, ora devo farlo da sola e non sono sicura di starlo facendo bene-
    -No, in effetti fai proprio schifo nel prenderti cura di te, se l’hai finita a fare la puttana-
    -Non potrei fare altro, ne mi andrebbe di farlo. Questo è l’unico lavoro da fallita che posso permettermi di fare. Preferisco vendere la mia bellezza che sciuparla. In fondo è tutto quello che mi è rimasto di ciò che ero prima, è tutto ciò che sono-
    -Tu credi che sia tutto quello che c’è, in te?-
    -Nessuno ha mai visto di più-
    -Perché nella tua cara alta società non c’era nessuno che cercasse di più. Prendevano tutto quello che potevano, il tuo bel faccino, tutto quello che pensavano avessi da dare, tutto quello che non richiedeva fatica vedere, scoprire, ma sono convinto che in te ci sia di più-
    You used to ride on the chrome horse with your diplomat
    Who carried on his shoulder a Siamese cat
    Ain't it hard when you discover that
    He really wasn't where it's at
    After he took from you everything he could steal.

    -E tu che ne sai?-
    -Non lo so, in effetti, ma qualcosa me lo fa credere. Qualcosa che hai negli occhi, dietro al gelido ghiaccio che li riempie, si, lì c’è qualcosa, io l’ho visto-
    -Rimarrai deluso, allora, quando ti accorgerai che non c’è niente-
    -Correrò il rischio, io so badare a me stesso, biondina- rispose sorridendo. –E poi anche Jane ha visto qualcosa, e del suo istinto mi fido, non sbagliava mai-
    -Ah! Jane mi odia-
    -Eppure tu sei qui con lei, ti ha portata con se, ti ha salvata dalla strada, no? Perché avrebbe dovuto farlo, se come dici ti odiasse?- Mary aprì la bocca per ribattere, ma non uscì altro che aria. Non ci aveva in effetti mai pensato. Per lei voler bene a una persona significava abbracciarla, sorriderle, farle regali e complimenti, ma niente più, quella stronzetta rossa, invece, le aveva salvato la vita, mai un sorriso, o una parola di conforto, ma continuava a occuparsi di lei. Così si ritrovò a pensare che in fondo Jane le volesse più bene di quanto glie ne avesse voluto chiunque nella sua vita, persino più dei suoi genitori. Ora l’affetto, nella sua mente, aveva preso un nuovo significato.
    Quando non sei altro che un rottame non è solo la tua vita ad essere diversa, ma anche il sapore e il significato delle cose sembra ribaltarsi. Quando non hai una casa a cui tornare e devi contare solo su te stesso, quando sembra non esserci quasi più speranza, la vita ha un’espressione diversa.
    E ora quel ragazzino stava dando un’occhiata nella sua anima e lei non poteva rifiutarsi, ora parlava e non le importava con chi, ne perché, se prima era preoccupata che lui non valesse abbastanza per ascoltare, se prima pensava che fosse solo un fallito senza un futuro, ora non importava più, semplicemente ne aveva bisogno, non aveva più nessun valido motivo per nascondere qualcosa se era rimasto niente da nascondere, e quel fallito era stato forse l’unico a fare la domanda giusta.
    You used to be so amused
    At Napoleon in rags and the language that he used
    Go to him now, he calls you, you can't refuse
    When you got nothing, you got nothing to lose
    You're invisible now, you got no secrets to conceal.

    -Ragiona sulle cose, ragazzina, c’è più di ciò che vedi in ciò che ti circonda, come in te-
    -Ma come cavolo si fa? Come faccio a pensare a come stanno gli altri, a cosa pensano, se non riesco neanche a pensare a me stessa?-
    -Bè, ad un certo punto ti stancherai di pensare a quanto la tua vita faccia schifo, smetterai di aspettarti qualcosa di più da te stessa e inizierai a cercarla negli altri, così diventa più facile- le sorrise, e lei avrebbe voluto dire che non pensava che ci sarebbe mai riuscita, che non si sarebbe abituata, che lei non era fatta per quella vita, che si sentiva dannatamente sola, ma era stanca di lagnarsi, e quel sorriso, in fondo, le dava calore, e quegli occhi verdi, nel quale si rifletteva la luce di un freddo tramonto invernale, le davano speranza. Ora doveva cavarsela da sola, o quantomeno doveva provarci.
    How does it feel?
    How does it feel
    To be on your own
    Like a complete unknown
    Like a rolling stone?
     
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    Letto anche questo, mi piace quello che dice Brat a Mary, l'ho trovato molto interessante e profondo. Ogni capitolo che leggo è tipo una botta di adrenalina, mi prende un casino, e pendo dalle labbra dei personaggi, quello che dicono, alle vicende, eccetera.

    "la regola del lavoro più semplice del mondo era che dovevi spegnere il cervello per avere il coraggio di farlo"

    è da incorniciare questa
     
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  6. Brat Fitzparker
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    Dio, ma la stai proprio divorando questa storia! Cazzo, credimi, è una sensazione nuova, non ho mai trovato nessuno così interessato a quello che scrivo, grazie. (ok, devo piantarla di ringraziare). In ogni caso ti do' un consiglio, attento. Tutti i personaggi hanno un significato, non esiste quasi nessuno di contorno, qui dentro.

    Si, bé, immagino sia così, come ingoiare una medicina amara.

    Tatoos of memories.


    Jackie se ne stava seduto sulla sua vecchia poltrona nel magazzino abbandonato alla fine di Camelia Street, nell’unico punto in cui la luce penetrava da una finestra sfondata, il resto di quel posto era solo ombra e polvere.
    Ascoltava quel patetico ragazzino giustificarsi per aver perso i suoi soldi, mille dollari buttati in mare perché si era quasi fatto beccare e non seguiva una parola, non gli importava affatto di tutte quelle stronzate, Kevin Malcolm era un incompetente, lo sapeva già quando gli aveva proposto di lavorare per lui, ma aveva bisogno di uno spacciatore che vendesse al dettaglio e quello era un piccolo idiota di sedici anni che sperava di farsi la grana con quel lavoro. Suo padre era un militare e aveva lasciato tre fratelli a una madre che non aveva mai lavorato, ed era così stupido da dargli la nausea. Blaterava farneticando a proposito di due poliziotti in borghese che l’avevano avvicinato e si scusava, promettendo di rendere tutti i soldi appena possibile. Accanto a lui altri due ragazzi, Brad e Joice, osservavano la scena con le braccia conserte ringraziando Dio o chiunque ci fosse lassù che tutto quello non stesse capitando a loro.
    -Credi forse che questo sia un gioco, fratello? Ti sembra forse che io stia giocando, Kavin?-
    -N-no..- balbettò lui.
    -Dunque mi hai preso per un coglione? Credi di potermi prendere per il culo?-
    -N-no, assolutamente no!- Jackie sorrise, e quel sorriso fece tremare l’anima del ragazzino che arretrò di un passo.
    -Allora vuoi per cortesia spiegarmi…come esattamente pensi di ridarmi mille dollari?! Credi forse ch’io non sappia che la tua mammina manda avanti la famiglia a fatica e che non abbia neanche i soldi per arrivare a fine mese?! Mh…Potrei scoparmela, che ne dici? Potrei sbattermi la tua mammina, che ne pensi, eh?! Se me la ripassassi per bene, eh?!- Aveva alzato la voce, raramente lo faceva, e questo lo rendeva ancora più terrificante, mentre si avvicinava allo sventurato, facendo sbattere con forza il bastone per terra a ogni passo come per scandire il ritmo di quella marcia infernale.
    -No! Per piacere Jackie, lascia stare, ti prego cazzo, lei non c’entra niente!- Ora il boia era di fronte alla sua vittima, e ne consumava l’anima con i suoi occhi grigi come cenere.
    -Bene… allora sarai tu a pagare, no?- sussurrò con un tono di voce simile al tono che si usa per fare una richiesta sessuale, come se tutto quello lo eccitasse enormemente. Sollevò il bastone e lo colpì con forza sul ginocchio destro. Kavin crollò a terra, iniziò a urlare e Jackie rise, una risata cattiva, sadica, rimbombava fra le vuote pareti del vecchio magazzino.
    -Drive, drive, drive your mind..- iniziò a canticchiare con una voce suadente, per saltellargli intorno e colpirlo sull’altro ginocchio.
    -…out of its edge..- continuò, per affondare il bastone appena sotto lo sterno.
    -Sadly now you’re mad, there’s nothing left to save!- concluse, colpendolo con forza in viso. Rise ancora, mentre quel ragazzino piangeva in silenzio, e le lacrime si mescolavano al sangue.
    Il carnefice allora estrasse dalla tasca un fazzoletto, pulì accuratamente il manico del bastone e si ricompose. Osservando con un espressione disgustata la sua vittima gli si accovacciò davanti.
    -No, non è solo un brutto sogno, fratello, non ti sveglierai nel tuo lettino al sicuro nella tua stanzetta di cinque metri quadrati ripetendo a te stesso che va tutto bene, perché no, non va’ tutto bene- si alzò di nuovo, rivolgendogli uno sguardo ora quasi compassionevole -Io non volevo Kavin- disse –Sul serio, mi ferisce profondamente averlo dovuto fare amico, ma questi sono affari, e mi rincresce dover esplicare l’ovvio, ma sei appena stato tagliato fuori.. portatelo via- concluse, rivolgendosi agli altri due e voltandosi per tornare verso la sua poltrona. Il ragazzo tentò di parlare, ma dalla sua gola uscì un soffio appena percettibile, strozzato da una delle costole fluttuanti che con tutta probabilità ora giocava al torero con i suoi polmoni.
    Si lasciò cadere sopra il vecchio cuscino di pelle sollevando una nuvola di polvere e sospirò. Si sentiva sempre soddisfatto dopo una cosa simile, come un leone si sente sazio dopo aver divorato la sua preda. Certo, lo divertiva farlo, lo faceva sentire come un Dio, ma d’altronde cos’è l’uomo, se non la carne della divinità suprema? E cos’ha di diverso da lui, a parte la scala in cui può esercitare il suo potere?
    Jackie amava la letteratura, la musica, la pittura, amava le scienze e la tecnologia in quanto esempio della creazione umana, non del tutto diversa da quella divina, a parer suo. Dio aveva abbandonato quel mondo, o era distratto, magari troppo lontano, non aveva fatto molto per quei patetici ragazzini figli di nessuno e allora toccava all’essere umano esercitare il suo potere, creare, distruggere, salvarsi da solo e fare del mondo ciò che voleva, ciò che poteva.
    Jackie era il Dio dei sobborghi, il re di un regno perduto, e quella vecchia poltrona in pelle era il suo trono, ma a che scopo essere re se non hai una regina con cui condividere il tuo potere? Nessuno.
    Non l’aveva mai pensata così, ma ora che aveva trovato una ragazzina sperduta da plasmare a suo piacimento, una principessa da incoronare, non poteva pensare ad altro. Quello era forse l’unica distorta ed egoistica forma di amore che un ragazzo disturbato come lui poteva provare.
    In fondo non era cattivo, non lo era mai stato davvero, era solo profondamente cinico, gelido, semplicemente la vita era un gioco e a lui non importava degli altri giocatori, faceva la sua partita come credeva fosse giusto, faceva i suoi comodi, non provava pietà, tutto gli era indifferente, come Dio non aveva mostrato pietà per lui, come gli era stato indifferente il pianto del piccolo Jackie lasciato solo al freddo sotto la pioggia di un inverno ormai quasi dimenticato nell’apatia.


    Era appena uscita dalla doccia e la nebbia riempiva il piccolo bagno, rendendo l’aria quasi irrespirabile: vapore acqueo che denso scivolava verso il pavimento e che, lentamente, si dissolveva. Jane osservava una sconosciuta riflessa nello specchio che gradualmente si liberava dall’opacità della condensa. Gli sembrava di aver già visto quella ragazza, qualcuno che aveva conosciuto, qualcuno che era stata e che ora giaceva inerme in quell’immagine, pronta a donarsi a chiunque fosse abbastanza sciocco da comprarla. Quegli occhi verdi spenti e stanchi le sembrava di conoscerli, ma non era esattamente così che li ricordava, no, erano vivi, brillanti, erano diversi, un tempo.
    Odiava guardarsi allo specchio, rifiutava la vanità, magari non avrebbe mai ammesso che in parte fosse per paura di non bastare neanche a se stessa, come era successo a sua madre, ma di certo credeva che la pazzia di quella donna dipendesse dalla sua immagine: a non tutti piace quello che vedono, e alcuni per questo si perdono in un riflesso e ne fanno una malattia.
    Tutto ciò che riusciva ad apprezzare di ciò che vedeva erano quei segni indelebili che marchiavano la sua pelle a vita, colorati disegni che non l’avrebbero mai abbandonata, a dispetto di tutto, e che sarebbero morti con lei. Il primo tatuaggio che aveva fatto era quello sull’avambraccio destro: una bottiglia in vetro, dentro la quale una piccola barchetta fuggiva dalla tempesta, si posava delicatamente sulla sabbia, circondata da un pezzo di cima chiusa da un piccolo nodo, disposta in un ovale che racchiudeva la scena. Sotto quest’immagine era inciso il nome della barca di suo padre, forse il ricordo più bello che aveva di lui. Sul fianco destro erano disegnate tre rose rosse, i cui rami si intrecciavano su fino alle costole e giù fino a metà coscia. Aveva sempre odiato le rose, forse perché erano tanto belle quanto inutili, ma quel colore, quel profumo, la loro delicatezza e la forza dei loro rami ricoperti di spine le ricordavano la sua idea di donna, quel tipo di donna che ti cambiava l’esistenza; quel tipo di donna che non sarebbe mai stata e che forse solo una volta aveva incontrato nella sua vita. Max. Dio, quanto tempo era passato? Solo quattro anni e ora chissà dov’era, chissà chi era. Sulla mano aveva scritto in inchiostro nero “Punk” fra indice e pollice. Lo stesso tatuaggio che aveva Brat, lo stesso tatuaggio che aveva Jim. Magari quel genere non avrebbe cambiato il mondo, magari nessuno di loro l’avrebbe fatto, ma di certo aveva cambiato le loro vite.
    Era sulla schiena l’ultimo tatuaggio che aveva fatto, il più importante. Un’enorme fenice con le ali spiegate, tinta d’oro e di fuoco, si posava su un rampicante che, ricoperto di piccoli fiori simili a quelli di pesco, correva dalla base fino all’attaccatura del collo. La lunga coda piumata si avvolgeva intorno al fianco, scivolando verso la pancia. Quella fenice rappresentava la rinascita, le ali aperte erano la libertà, e il rampicante la forza che insieme con la delicatezza sorreggeva questa utopia a colori, e magari sembrerà stupido, magari un po’ banale, ma per lei quell’immagine era tutto, raccontava una storia, la sua storia e non aveva bisogno di parole per farlo. Era insieme ricordo e premessa, sogno, obbiettivo e simbolo di ciò che la ragazza stessa sarebbe dovuta essere. Quelle immagini erano il suo vero riflesso, e quello specchio era un dannatissimo bugiardo.
    A suo padre non sarebbero piaciuti, e neanche sapeva perché si fosse ritrovata a pensare a lui, ma ora lo stava facendo. Forse per colpa di quel bastardo di Spike, che il giorno precedente aveva riaperto un vaso di pandora nella sua mente, o forse perché era stata così vicina a casa, due giorni prima, e al contempo così lontana. A suo padre non sarebbero piaciuti, ma di certo non gli sarebbe importato. Si sentiva uno schifo per ciò che gli aveva fatto, e poteva piangersi addosso quanto voleva che non sarebbe cambiato niente. L’aveva lasciato lì, e non aveva il fottuto diritto di lamentarsi. Era stata colpa sua. Aveva abbandonato tutto e tutti, persino lui, per fallire e ritornare, sconfitta, umiliata.
    Scosse il capo per scacciare quei pensieri, l’aria di casa le dava alla testa, e doveva liberarla. Si rivestì e uscì dal bagno per andare a rovistare in cucina alla ricerca di un torcibudella qualsiasi. L’alcol non da le risposte, certo, ma lei le sapeva già, tutto ciò che doveva fare era dimenticare le domande.
    Trovò il suo veleno sotto il lavello della cucina: una bottiglia di Gin puro, trasparente come l’acqua e letale per il suo cervello. Sorrise immaginandolo mentre tremava dentro il suo cranio marcio come foglia al vento. Per lui era finita, almeno per qualche ora.
    In soggiorno si ritrovò a osservare Brat e Spike stravaccati sul divano che fissavano il soffitto, in attesa di qualcosa, forse un’idea. Fra le mani il primo stringeva una chitarra, su cui improvvisava melodie senza ne capo ne coda. Parlavano di una ragazza.
    -Perché diavolo continuo a pensare a lei?- disse all’amico.
    -Cazzo, ci risiamo- Il tono del ragazzo era pacato e annoiato, come se si aspettasse qualcosa, qualcosa di più, come se di quell’argomento non gli interessasse assolutamente niente.
    -Dannazione, è così fottutamente… fastidioso-
    -Oh, andiamo, abbiamo intenzione di produrre qualcosa o no?-
    -E lei è così.. diversa dalle altre, cazzo, è una principessa! E questa è…- Spike sbuffò, alzando gli occhi al cielo.
    -Suppongo che questo sia un no-
    -….Infatuazione, e cazzo, ancora una volta sembra molto più di questo e non so cosa lei pensi, ne perché accidenti debba farmi questo effetto e…- il piccoletto sgranò quegli enormi occhi verdi e si raddrizzò di scatto –Merda! Dammi un foglio, in fretta, cazzo, dammi un foglio!-
    -Cosa c’è adesso? A che diavolo…- il bassista non fece in tempo a finire la frase che l’altro aveva già iniziato a cantare.
    - She walks alone like the queen
    Of that world that she built
    You said “such a woman”
    But there’s something else hidden in her..-
    Spike ammutolì di colpo e schizzò in piedi per avvicinarsi a grandi passi al suo strumento.
    -Odio quando fai così Fitzparker- sbuffò ancora, per poi tornare a sedersi sul divano –Rifalla- Two dollar Brat sorrise. Nascevano quasi tutte così, nascevano quasi tutte per caso, quelle canzoni, e potevano sembrare banali o infantili, ma dicevano esattamente quello che il ragazzo aveva bisogno di dire. Lui era in quei testi molto più che in se stesso, Mary lo mandava fuori di testa e diavolo neanche riusciva a capirne in perché.
    Jane era già al sesto sorso, e il Gin rese questa scena quasi esilarante e senza dubbio così calda da sciogliere i nodi che intrappolavano la sua mente. Il passato era passato, e suo padre era passato. Non aveva più la forza ne la voglia di pensarci, per quanto ne sapeva poteva essere morto, ora non importava più, ed era sempre stata tanto brava a trovare delle giustificazioni.


    Uscì di casa al quindicesimo sorso, la bottiglia era quasi finita e lei barcollava, non riusciva a mettere un piede davanti all’altro. Si sforzava di articolare pensieri sensati, di riprendere il controllo, ma d’altronde non era proprio ciò che voleva? Perdersi nel morbido calore viscerale che le regalava il Gin?
    Ora avanzava, dritta (o quasi) davanti a se, su un marciapiede vuoto. Da lontano il rumore dei cantieri di Camelia Street e delle ruote del treno che cozzavano e stridevano contro le rotaie arrugginite rimbombavano nella sua testa facendole male. Camminava e non sapeva dove stesse andando, ne perché fosse uscita. Se fosse stata meno ubriaca, meno concentrata nel tentativo di non finire nel giardino di qualche sconosciuto o contro un palo, avrebbe notato Mary che marciava sul lato opposto della via vestita come al solito: le calze a rete ormai da buttare lasciavano la candida pelle delle gambe scoperta e la gonna corta a malapena le copriva l’inguine, alzò lo sguardo e la vide. Era stanca, infreddolita, non aveva voglia di parlare, figuriamoci di farsi insultare da quella stronzetta rossa, ma osservandola si accorse che barcollava e che in mano stringeva una bottiglia semi vuota che non lasciava intendere niente di buono. Qualcosa dentro di lei che non avrebbe saputo spiegare la spinse ad attraversare la strada, andandole incontro. Magari erano state le parole di Brat, ma in quel momento lei non vi badò.
    -Jane, va tutto bene?- quest’ultima sollevò lo sguardo torvo.
    -Tu che ne dici?- biascicò. Dal suo stomaco risalivano acidi conati di vomito che inutilmente tentava di rimandare giù. –Ti sembra la faccia di una che sta be..- ci provò ancora una volta e fallì, vomitando quel poco che aveva mangiato e il Gin sul marciapiede.
    -Per Dio! Ma che accidenti ti è successo?- urlò Mary, inorridita dal maleodorante liquido che ora imbrattava le sue scarpe. Jane mugugnò qualcosa di incomprensibile.
    -Cosa? Senti, vieni, ti porto a casa, almeno..-
    -No!- grugnì, allontanando la ragazzina.
    -E allora dove vuoi andare?- sbuffò, infastidita. Si era ormai resa conto che la questione non si sarebbe limitata a una pacca sulla spalla e via a casa. Certo, sa ne sarebbe potuta andare lasciando quell’insopportabile testa di cazzo da sola ad affogare nel suo stesso vomito, ma in fondo era in debito con lei. In fondo le aveva salvato la vita.
    -Ovunque, ma non a casa, ho bisogno…- si bloccò per respingere un altro conato -… di stare fuori-. La biondina rimase in silenzio mentre osservava l’altra che, in mancanza di alternative migliori, si sedeva sul ciglio del marciapiede. Ormai la luce del sole era un vecchio ricordo che tardava a spegnersi all’orizzonte e i lampioni illuminavano una notte senza luna ne stelle.
    -Che hai fatto?- chiese, dopo un po’.
    -Ho bevuto-
    -E perché l’hai fatto?-
    -Serve un motivo?-
    -Penso.. penso di si, non lo so, non l’ho mai fatto-
    -Non hai mai bevuto?! Ma da che razza di mondo vieni tu? Che cazzo fate voi ragazzi ricchi per divertirvi? Giocate a briscola e a tombola come vecchi scontrosi?-
    -Più o meno si.. credo. Quindi l’hai fatto per divertirti?-
    -No..-
    -E allora perché?-
    -Non sono affari tuoi, Mary. Sta zitta e lasciami in pace-
    -E smettila di fare così, tanto lo so che vuoi parlare-
    -Non con te- rispose fredda, e la sua mente si aggrappò a un pensiero che la ferì come la lama di un coltello. – Con Jim non ci sarebbe stato bisogno di parlare, lui…avrebbe capito-
    -Si, ma Jim non è qui, Jim è morto, perciò non mi sembra che tu abbia molte alternative- Jane ci riflettè su. Non aveva tutti i torti, in fondo, e a quell’inutile ragazza ora sembrava che importasse davvero, che non fosse solo la solita ficcanaso, non poteva neanche immaginare che stesse pensando semplicemente al momento di rientrare a casa e farsi una doccia. L’ultimo suo cliente puzzava da far schifo e le aveva imbrattato i capelli di sperma: non desiderava altro che la fine di quella conversazione, di cosa avesse da dire la rossa le importava non più di quanto le importasse il nome dei propri clienti, ma lei era troppo ubriaca, troppo stanca di combattere per accorgersi che la ragazza che aveva accanto non aveva nessuna intenzione di ascoltarla. In fondo anche se se ne fosse accorta non le sarebbe importato, non era necessario che qualcuno ascoltasse, aveva solo bisogno di pararle, avrebbe potuto con chiunque, avrebbe potuto parlare persino con sua madre, il che è tutto dire. Sospirò.
    -Mio padre- disse.
    -Tuo padre cosa?-
    -Quattro… quattro anni fa, quando sono partita… non gli ho neanche detto addio. Neanche ciao. Non ho lasciato biglietti, sono solo…sparita-
    -Bene, hai sbagliato, ma da quel che mi è sembrato di capire hai fatto così con tutti, e poi è tuo padre, ti perdonerà vedrai- sorrise compiaciuta mentre internamente esultava, convinta di essere giunta a una conclusione quasi soddisfacente. Troppo facile. In quel mondo le cose non erano mai così semplici.
    -Tu non capisci..-
    -Cosa non capisco?-
    -L’ho lasciato solo con quella donna, sono.. sono scappata e ho lasciato che lei finisse di rovinargli la vita-
    -Che diavolo blateri adesso? Hai davvero bevuto troppo, le madri non maltrattano i mariti, sono assurdità!-
    -Sei proprio una bambina idiota, certo, dimenticavo che sto parlando con la principessa che litiga con papà e mamma perché non le comprano il vestito per il gran ballo, perché diavolo sto parlando con te, cazzo? Tu non puoi aiutarmi.. - mormorò, tentando invano di alzarsi per poi ritrovarsi con la faccia sul freddo asfalto.
    Mary trattenne il respiro e improvvisamente il suo cervello si accese. Si rese conto che non aveva ascoltato abbastanza, che non erano le solite stronzatine a cui era abituata e forse questa volta valeva la pena di stare a sentire un’altra triste storia di una casa distrutta.
    -Forse hai ragione, ma almeno posso provarci- Jane si tirò su a fatica e tornò al suo posto. Ora il bisogno di parlare era troppo, ed era troppo ubriaca per impedirselo, per quanto frugasse nella sua mente non riusciva a trovare neanche un buon motivo per non farlo. Odiava frignare blaterando della sua stramaledetta storia, non pensarci era più facile, ma era notte e il vento che soffiava lento pretendeva una storia da portare con se lontano, oltre la fine della strada.
    -Mia.. madre ha sempre avuto problemi di.. stabilità mentale, diciamo, anzi, diciamo pure che era una ossessiva, compulsiva, maniaca del controllo, ha.. rovinato la vita a mio padre, l’ha costretto a prendere antidepressivi perché pensava che fosse depresso e forse lo era, ma solo per colpa sua. Incastrato in una vita che odiava, era costretto a vivere con una donna che non sopportava, accidenti, non la rispettava più neanche come persona, era.. squilibrata, venefica. Era ossessionata dalla perfezione, non tollerava la possibilità di non avere controllo del suo corpo. Non mangiava niente, era praticamente anoressica. Faceva tanto, troppo sport. Si pesava tre volte al giorno e diventava matta se saliva anche solo di mezzo chilo. Aveva spesso giramenti di testa e svenimenti per mancanza di zuccheri, spesso era debole per mancanza di proteine e questa fissa per l’equilibrio la rifletteva anche negli altri, pretendo da noi lo stesso maniacale controllo, la stessa maniacale ossessione per l’ ordine e l’equilibrio fisico. Lui lavorava, pagava le bollette, l’assicurazione della macchina e della casa, la barca e le spese di manutenzione di tutto e non aveva neanche il tempo di respirare. lei invece non faceva un dannato accidente e spendeva i soldi per vestiti, viaggi, per andare a teatro, per fare ciò che le piaceva; lui era sempre più imbottito di ansiolitici e Xenax, lei invece sempre più riversa su se stessa nel tentativo di rendere il suo corpo una macchina infallibile. Lui dormiva sul divano perché a lei dava fastidio il suo russare: doveva dormire bene se voleva che la sua pelle non invecchiasse; lui non aveva un armadio in cui mettere i vestiti perché a lei serviva tutto lo spazio nel loro, non aveva una scrivania in cui lavorare, mentre lei ne aveva ben due. Aveva tutto e non meritava assolutamente niente, cazzo, niente di tutto quello che lui le dava, non una briciola del suo tempo, non una goccia del suo sangue. Poi la gente si sorprende se odio le donne.-
    -Perché tuo padre non se n’è andato?- domandò, e d’un tratto iniziò a comprendere, anche se solo superficialmente, il perché dell’astio che Jane dimostrava nei suoi confronti. Rifiutava la vanità perché era stata quella che in parte aveva rovinato la sua famiglia, e l’aveva rivista in Mary, in una ragazzina tutta bellezza e superficialità che aveva preferito fare la prostituta pur di non rovinarsi le mani lavando i piatti in cui qualcun altro aveva consumato un pasto che non poteva permettersi.
    -Forse un po’ per me, forse perchè quella era casa sua, era lei a doversene andare, o forse perché era buono e in fondo l’aveva amata, una volta… era davvero bella, accidenti se lo era, bella e troppo cieca per vedere i propri errori, per vedere lui morire poco per volta, o semplicemente non le importava, così impegnata com’era a tentare di sembrare perfetta, di vedere nello specchio l’immagine di una donna perfetta con una vita perfetta. Il riflesso delle sue illusioni, una bugia nel quale si rifugiava tentando di non vedere la realtà-
    -..e cosa centri tu con tutto questo?-
    -Io l’ho lasciato lì, cazzo, capisci? L’ho lasciato lì! L’unica.. persona che amava nella sua vita l’ha abbandonato al suo destino. La sua fottuta figlia è scappata, cazzo! Io sono scappata cazzo! Pensavo che avrei cambiato il mondo, che sarei tornata a prenderlo, a salvarlo, ma ho semplicemente fallito, vaffanculo!- urlò, lanciando lontano la bottiglia ormai vuota di Gin che si infranse contro il pavimento.
    -Immagino che tu non lo voglia fare e che non ascolterai il mio consiglio, ma dovresti tornare-
    -Si, forse dovrei, ma non basterebbe, non basterebbe a lui, non basterebbe a me, e se scoprissi che mia madre è ancora lì a succhiargli il sangue credo che proverei a ucciderla. No, anzi, dimentica ciò che ho detto, la ucciderei e basta.- Mary non capiva, non concepiva come si potesse odiare un genitore, come lo si potesse disprezzare a tal punto da volerlo morto, ma d’altra parte non comprendeva neanche l’amore che Jane nutriva per il padre, lei non aveva mai amato il suo così. Lei non aveva mai amato nessuno così. Tutto quello che usciva dalla bocca della ragazza era per lei incomprensibile e lontano, una realtà di cui non faceva parte, e ancora una volta si ritrovò a riflettere su quanto quello non fosse il suo posto, su quanto quella non fosse la sua vita. Lei era una principessa, era destinata a molto di più, valeva molto di più, eppure non sapeva cosa significasse amare. Le avevano insegnato a scegliere la posata giusta a tavola, a ballare un valzer e a suonare il piano; le avevano insegnato a scrivere, a tradurre latino e a comportarsi da signora, ma non ad amare.
    -Andrà… andrò tutto bene- sussurrò, non sapendo cos’altro dire, ma esisteva qualcosa da poter dire? Le cose erano così e basta, niente sarebbe cambiato. Jane rise.
    –Si, forse hai ragione, forse penso troppo, è solo che a volte non riesco a non rimuginarci sopra, qui sono davvero troppo vicina a casa, è come un rumore di sottofondo costante, come il ronzio delle api quando sei vicino a un alveare- mormorò alzandosi. Ora riusciva quasi a stare quasi dritta. –Ma in fondo non importa più di tanto. Torniamo a casa e…bè, grazie, suppongo. Grazie Mary-
     
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    Direi che Mary e Jane si stanno avvicinando sempre più. Anche Jacky sta avendo dei cambiamenti nell'animo. Certo, all'inizio gli dà fastidio, chissà se poi durerà o si evolverà in qualcos'altro.
     
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  8. Brat Fitzparker
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    Si, è un errore, in ogni caso si, le due sembrano avvicinarsi, ma fa attenzione, Jackie è nato così, nel senso, nei capitoli precedenti lo mostra in modo solo velato, qui semplicemente fa vedere chi è lui in realtà. Riguardo a come è scritto il nome, in parte è un errore, perché da quando mi sono abituato a scrivere Billie con la ie per i Green Day, ho iniziato a metterla in tutti i nomi con la y, tipo, appunto Jackie, Shaggie e tutto il resto, ma spiegherò anche perché è scritto così
     
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    No, no. Non è un errore. Quel nome può essere scritto in entrambi i modi.
     
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    Mi è piaciuto questo capitolo. Mi viene da pensare che forse Mary è il tentativo inconscio di Jane di avere un rapporto più umano e accettabile con sua madre. Visto che gliela ricorda.
     
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    Beh, ma alla fine avrebbe anche senso. Metti caso tu odi tua madre incontri una ragazza che te la ricorda. Ovviamente ti viene da odiarla. Però essendo la fonte di odio una figura genitoriale inconsciamente c'è sempre un desiderio di mettere le cose a posto. Non dico che è una cosa pratica, ma secondo me succede. Poi certo, non sono uno psichiatra, però ci ho pensato.
    Magari Jane odia Mary ma sarebbe contenta se fosse più come lei perché così è come se facesse un po pace con quell'idea di donna o di quell'odio.
     
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  13. Brat Fitzparker
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    è una figata leggere le teorie che ci vedete sopra, cazzo, anche perché in parte è così, nel senso, Jane non vuole risolvere con Mary, ma non può fare a meno che occuparsene e spingere nel modo più stronzo che conosce per aiutarla a crescere, per insegnarle, per non farla essere come la madre, perché non lo sopporta e in fondo pensa che ci sia speranza. Crede che Brat, Spike, Eddy e Frank (lo conoscerete) possano insegnarle a essere diversa, ma questo è... di contorno, diciamo.
     
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  15. Brat Fitzparker
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    Mad world.

    Era il 19 Dicembre del 1990 ed era passato un mese e mezzo da quando erano scappate da Seattle e arrivate a Berkeley.
    Le case cominciavano a essere addobbate e l’aria fredda iniziava a profumare di agrifoglio e biscotti alla vaniglia o alle noci. Qualche camino fumava già, tossiva denso fumo grigio nel cielo invernale.
    Brat e Spike facevano doppi turni in pizzeria al 2033 su San Pablo Ave. Jane si era dovuta trovare un lavoro: faceva la sguattera all’Hotel Downtown Berkeley Inn, al 2001 di Bancroft Way, tutti i giorni dalle sei alle quattro e mezza di mattina. Era un lavoro infimo e la paga era minima, certo, ma era già qualcosa. Eddy proseguiva con i suoi studi, era tornato momentaneamente dalla madre e stava dando i primi esami universitari e Mary, bè, tutti sapevano cosa facesse, ormai.
    Nessuno le aveva detto niente, nessuno l’aveva sbeffeggiata o criticata, ma lei iniziava a odiarlo, quel lavoro, in fin dei conti pensava che avrebbe potuto anche lavare qualche piatto, ogni tanto. Era stanca di essere stretta da tutti e riscaldata da nessuno. Ora si rendeva davvero conto di quanto fosse scesa in basso e in più era quasi Natale.
    Guardava fuori dalla finestra, scrutando il cielo. A Seattle nevicava in quel periodo, tutto diventava bianco, lucente, ti faceva capire che i bambini stavano per scartare i loro regali, che Babbo Natale sarebbe sceso giù da tutti i camini del mondo per portarglieli; che avresti fatto l’albero e un pupazzo di neve, che saresti rimasta tutta la notte sveglia a fissare il cielo, nella speranza di intravedere una slitta trainata da renne.
    Ma a Berkeley non nevicava e le luci stonavano sui pergolati asciutti e sopra l’erba verde . Tutto ciò faceva scivolare sulla sua testa un velo di malcelata malinconia.
    -Tutto bene?- chiese Brat, avvicinandosi alla biondina. Lei sospirò e si riscosse, annuendo.
    -Solo scemenze. Non sono più una bambina- sarebbe stato bello credere che lo fosse e che stesse solo facendo la dura, ma non era così. La sua pelle si era indurita, la sua anima ora dormiva. Quel mondo la stava uccidendo, non era abituata, quell’infezione di cui il suo corpo non riusciva a liberarsi la stava infettando ogni giorno di più. Non era cambiata, solo ora non urlacchiava, ne le importava di quale aspetto avesse, ne si lamentava della vita che aveva lasciato indietro, semplicemente la piangeva in silenzio. Era sempre una principessa viziata, ma aveva accettato di il fatto di non poterselo permettere. L’aveva preso come un affare di stato, come un ostacolo invalicabile, una sensazione che altro non era che la condizioni umana media.
    -Bè, ti va di.. venire con me dopo il lavoro? Sta sera smonto alle sette, vorrei.. farti vedere una cosa-
    -Cosa? Dove vuoi portarmi?- lui rise.
    -Hey, non mordo mica! Dimmi solo che ci stai- disse, guardandola di sbieco con quel sorrisetto arrogante da ragazzino di periferia, così che Mary non poté fare altro che accettare. Era davvero carino quando faceva quella faccia. Neanche volendo sarebbe riuscita a dirgli di no. Quel ragazzo le faceva un effetto strano e ora non aveva più alcun motivo per nasconderlo: le piaceva.
    Avevano parlato spesso nell’ultimo mese, lui le aveva raccontato della sua famiglia, di suo padre, della sua musica e le aveva fatto domande che non si era mai posta neanche da sola. Le stava insegnando a pensare. Diverse volte erano stati così vicini da sentire l’uno il respiro dell’altra, ma non era mai successo niente fra i due, eppure lui ora stava impazzendo per lei e si tratteneva a fatica. In effetti era abituato a tutt’altro tipo di ragazza, spesso le conosceva alle feste e non ci mettevano troppo a chiudere la bocca e ad aprire le gambe, ma per lui valevano meno di zero, non si sforzava neanche a ricordarne il nome. Quella dolce ragazza così morbida e bionda, invece, si strava trasformando nell’angelo che di notte tormentava i suoi sogni e il giaccio che di giorno congelava la sua anima. Forse voleva solo aiutarla, forse non era altro che un’infatuazione, ma a Brat non importava, si lasciava trascinare perché qualsiasi sentimento era una canzone e qualsiasi canzone era degna di essere ascoltata.
    -Si, verrò-
    -Fantastico, allora passa a lavoro alle sette, appena ho finito andiamo-.


    Jackie, dal canto suo, osservava quei due piccioncini inseguirsi senza mai prendersi. Li reputava stupidi, patetici, accidenti, quasi nauseanti e poco gli sarebbe importato se quel ragazzino con gli occhi verdi non stesse rapendo la sua principessa, complicando la realizzazione del suo piano e facendolo sentire ancora una volta fottutamente solo. Il regno non gli bastava più e lentamente anche il più aspro dei lavori era diventato noioso, aveva smesso di soddisfarlo. L’aveva scelto per questo, no? A quindici anni Miky Mckoy, un ragazzetto di terza, era stato arrestato per possesso di droga e spaccio. Jackie a quel tempo rubacchiava per sopravvivere e viveva in uno dei vecchi magazzini dimessi nella periferia di Berkeley. Piccoli furti insignificanti che all’inizio erano divertenti, ma dopo qualche anno qualsiasi cosa smette di esserlo, così, quando Miky Mckoy era stato arrestato, aveva deciso che avrebbe fatto lo spacciatore. Tutte le stronzate sulla liberazione dell’essere umano dalla realtà erano state pensate dopo, presentandosi come ottime scuse per il proprio passatempo.
    Ora si ripresentava la stessa situazione, la sua mente si ribellava al ristagno ed era solo, fottutamente solo. Voleva solo qualcuno con cui sprecare il suo tempo, qualcuno che, come lui, non sognasse altro che non fosse riavere indietro quello che gli spettava.
    Rifletteva quindi su cosa avrebbe potuto fare perchè lei lo notasse e su come avrebbe potuto liberarsi della questione di Brat. Certo, aveva in sospeso un discorso con lei, ma non sarebbero bastate due parole a cambiare l’idea da frivola sciocca ragazzina innamorata che Mary si stava facendo. Tuttavia preoccuparsi serviva a poco, in fondo le principesse non stanno con i ragazzi senza futuro che non hanno niente da dargli, e lui aveva un regno, un trono e una corona, prima o poi la biondina avrebbe aperto gli occhi. Se c’era una cosa in cui Jackie era bravo, era aspettare. E corrompere, anche. Alla lunga diventavano tutti quello che voleva lui.
    E ora aspettava, giacendo sul divano del 1403 sulla sesta, qualsiasi cosa che lo spingesse ad alzare il culo.
    Jane irruppe nella stanza sbuffando una nuvoletta di fumo. La lunga camicia scivolava fino a metà coscia, accarezzandone la nuda pelle olivastra.
    -Buongiorno!- salutò. Aveva dormito abbastanza da era insolitamente allegra. Forse lo era perché si avvicinava il Natale. Una festa stupida per bambini e per chi crede nelle fate, non c’è dubbio, ma a lei piaceva. Magari era tutto quel parlar dell’amore per il prossimo, o le luci colorate che facevano sembrare tutto così surreale, ma la rendeva felice.
    -Alla buon ora! Come mai così arzilla, stamane? Hai forse tenuto a mente il mio saggio consiglio di dormire dopo una massiccia dose di vino e erba?-
    -No Jackie- sbuffò –Sono solo felice-
    -Ah! Quale idiozia!-
    -Oh, che cazzo, ma mi dici perché diavolo parli così? Sembra di sentire Gesù che tenta di parlare slang da periferia- il ragazzo sorrise.
    -In effetti mi diverte, non c’è un perché, già, ma trovo alquanto buffo se non addirittura interessante il fatto che tu ti ponga quesiti sul mio linguaggio invece che sul mio abbigliamento, ad esempio-
    -Oh, ma su quello non c’è bisogno. Sei uno spacciatore, uno spacciatore deve attirare il cliente. Con i più piccoli basterebbe un cappello a cilindro, ma tu sei una miscela esplosiva che genera curiosità in chiunque. Per quanto riguarda il linguaggio, invece, è stupido. Probabilmente nessuno di loro ti capisce- lui rise sguaiatamente.
    -No, probabilmente no, ma è comunque divertente, mi fa sentire intelligente-
    -Ti fa sentire migliore di loro-
    -Si, e che c’è di male?-
    -Il fatto che tu creda davvero di esserlo- rispose lei semplicemente per poi avvicinarsi al giradischi e rovistare fra i vinili. –Non avete niente di natalizio? Tipo qualche pezzo di Natale rifatto in chiave Punk?-
    -Temo di no, in questa casa il Natale non si festeggia-
    -E perché? Sentiamo-
    -Perché è una festa stupida-
    -Anche il tuo cappotto è stupido, ma lo indossi comunque. Anche questa conversazione è stupida, ma la stiamo portando avanti, anche il punk è stupido, ma ci piace, sbaglio?- Jackie rise ancora.
    -No, non sbagli- quella ragazza gli piaceva e al contempo lo irritava enormemente. Era sveglia, furba, certamente, ma forse era proprio questo a infastidirlo, a disturbarlo. Lei sembrava vedere un po’ di più, capire un po’ di più e questo minava il suo senso di superiorità. O forse era solo perché non riusciva affatto a impressionarla.
    -Potremmo ascoltare i The Cure, che ne dici?-
    -Non è una cattiva idea, mettilo su- Jane sorrise ed eseguì, per poi sedersi accanto a lui accendendo un’altra sigaretta.
    -Da dove vieni?- chiese.
    -Sono cresciuto qui, a Berkley-
    -Con i tuoi genitori?-
    -Dovresti sapere che a quelli come noi non si chiede mai della famiglia, no? Suppongo che anche a te dia fastidio l’argomento, come a tutti-
    -In effetti si, ma nulla mi vieta di fare la ficcanaso e poi un’altra deprimente storia da bambino di periferia è proprio quello che ci vuole, come un bicchiere di whiskey a pancia vuota, amaro e meravigliosamente caldo-
    -Bè, se proprio vuoi saperlo sono cresciuto da solo-
    -Oh, non avevo dubbi, che è successo? Mamma faceva la prostituta e papà non l’hai mai conosciuto?-
    -No, ma quando avevo sei anni mio padre si faceva di eroina e cocaina. È impazzito, ha ucciso mia madre. L’ha bastonata fino alla morte, hai mai visto una cosa del genere? Il sangue schizza e il cranio si piega come una bottiglia di plastica riscaldata con il fuoco. Spaventoso per un bambino di dieci anni, no? Sei abbastanza grande da capire, da ricordare, ma non abbastanza da sopportarlo- fece le spallucce, come se quella storia non gli appartenesse, ma Jane guardava nella cenere che colmava il suo sguardo e la vedeva scurirsi e sciogliersi lentamente.
    I tried to laugh about it, cover it all up with lies.
    -Quella notte stessa sono scappato, insomma, gli assistenti sociali, le case famiglia, quelle stronzate non facevano per me, così ho corso fino alla periferia ovest di Berkeley per rifugiarmi in uno dei vecchi magazzini. Le prime notti sono state terribili, faceva freddo e quel posto puzzava da far schifo, ma ci si abitua e Katie mi ha fatto da madre-
    -Chi diavolo è Katie?-
    -Una prostituta che viveva lì, era bellissima, puoi credermi, sfiorava l’anoressia, capelli corti rossicci nascosti sotto parrucche colorate da due soldi, sempre con quella minigonna in pelle bianca e quella canottiera a rete viola. Io la ricordo così. Era un dannato sogno perverso, cavolo, non c’è da sorprendersi se sono diventato un porco!- Rise, ma era una risata roca, amara, e quel linguaggio strano che lo caratterizzava ora era stato messo da parte.
    I tried to laugh about it hiding the tears in my eyes ‘cause boys don’t cry.
    Jane si morse il labbro. Era peggio di quanto pensasse e ora quell’egocentrico idiota sembrava solo un cane abbandonato sotto la pioggia. –Oh, al diavolo!- esclamò lui, all’improvviso, scattando in piedi e andando a prendere la piccola scatoletta in legno dalla sua giacca. La aprì ed estrasse l’ago e il laccio emostatico, per poi legarselo sul braccio.
    -Quindi lo fai perché sei fottutamente depresso?- Jackie rise ancora mentre spingeva lo stantuffo giù per il canale iniettandosi il veleno.
    -No, lo faccio perché non ha senso esserlo, la realtà è un brutto posto e a me non interessa affatto viverci-
    Boys don’t cry.
    -Parli come un bambino che ha paura del buio-
    -Si, e anche se fosse? Facciamo così, tu mi lasci in pace e io eviterò di farti domande, ci stai? Cambiamo argomento-
    -Ci sto, parliamo di Mary-
    -Perché non parliamo di te, invece?- sbottò, improvvisamente irritato. Era difficile irritare visibilmente Jackie, certo, ma quell’espressione arrogante, sul viso di Jane, avrebbe potuto far incazzare un santo.
    -Suppongo che anche tu abbia una lacrimosa storia da raccontare-
    -Supponi bene, ma per scappare dalla mia non devo rendere il mio sangue un venefico cocktail da overdose- il ragazzo aprì la bocca per rispondere ma la dovette richiudere, ammutolito.
    -Sei davvero una dannatissima stronza-
    -E tu un egoista bastardo, la questione si fa interessante, non credi?- il sorriso sul suo viso si allargava sempre di più: quel gioco la divertiva da matti.
    -No, non credo- rispose, ma sorrideva. –Però credo che l’aria stia diventando troppo pesante, sai, le storie strappa lacrime mi fanno venire una certa voglia di vomitare. Potremmo cambiare aria, già, potremmo organizzare una festa!-
    -Dove?-
    -Qui naturalmente-
    -Così? Su due piedi? Sei diventato totalmente scemo?-
    -Nah, oggi è venerdì, non ora, ma domani!- era tornato improvvisamente euforico mentre le sue pupille iniziavano a dilatarsi –Domani sera! Si, non è una brutta idea, affatto, magari gli Sweet Youth ci faranno l’onore di allietare la nostra serata con la loro inebriante musica, tu che ne dici?-
    -Dico che sei un idiota-
    -Sapevo che saresti stata d’accordo, chissà, magari potresti trovare qualche altro povero disgraziato da importunare!- la ragazza sbuffò, osservandolo mentre si infilava il cappotto e usciva dall’appartamento.
    Quel ragazzo ora non sembrava più così strano, non sembrava più un pazzo con un orologio da taschino fermo, un bastone da passeggio e delle scarpe in cuoio lucido che parlava in modo strano, no, ora lei riusciva quasi a compatirlo, a provare pena per lui. In quegli occhi grigi aveva visto qualcosa non del tutto diverso da quel qualcosa che c’era negli occhi di Jim: la cicatrice infetta di un sogno infranto. Ora la questione di salvare un uomo dalla sua realtà acquistava un significato, quello sproloquio che prima sembrava solo la farneticazione di un pazzo o la giustificazione di un drogato, ora aveva senso.

    -Spike, che diavolo mi prende?- Era l’ora di pranzo e il sole riscaldava i rugginosi binari della Christie road, i due ragazzi chiacchieravano guardando lontano, verso il punto in cui le rotaie sparivano dietro una curva, seduti sul cofano di una vecchia Dodge del 68. Brat l’aveva comprata con i soldi che le aveva lasciato Ollie quando se n’era andato di casa. Era un catorcio di macchina, la vernice giallo canarino era mezzo scrostata e lasciava spazio a vistose macchie di ruggine. Le mancava lo specchietto di destra e per far entrare la retromarcia si doveva tirare la leva del cambio con entrambe le mani, ma almeno camminava.
    Erano lì da qualche ora e osservavano le verdi colline riflettere la luce di un freddo sole invernale. La radio gracchiava pigramente The passenger di Iggy Pop.
    -Oh, se non lo sai tu..-
    -È praticamente una fottuta principessa e io un dannatissimo..-
    -Sfigato? Oh, andiamo, ti sei incastrato in situazioni peggiori-
    -Accidenti, ma perché a te queste cose non capitano?-
    -Perché ho una cosa chiamata istinto di sopravvivenza, e poi di che ti preoccupi? Ha accettato di uscire con te sta sera-
    -Si, lo so, ma è comunque un bel problema. L’ennesimo calcio dei denti dall’amico Dio-
    -Andiamo, non dare la colpa a lui se sei nato imbecille- rise –Punti sempre troppo in alto, ricordi Misty Drake, al liceo?-
    -Accidenti se me la ricordo, quelle gambe facevano da qui a Toronto e ritorno-
    -Si, ed era di quinta quando noi eravamo i seconda. Per lei eri il ragazzo invisibile. Brat J.B. Fitzparker nella sua testa poteva essere il tizio che aveva piantato la bandiera degli Stati Uniti sulla luna, o che aveva scoperto l’antitetanica-
    -Si, bè, non era troppo intelligente- Spike rise ancora.
    -No, neanche per sogno. Era un’oca bionda, accidenti, e tu un bambino idiota-
    -Hey, senza questo bambino idiota non staresti per incidere un disco-
    -Non hai tutti i torti, se non ti innamorassi delle peggiori ragazze passate su questa terra che non fanno altro che passeggiare sul tuo povero e ingenuo cuoricino non avrei delle canzoni su cui suonare-
    -Dio, quanto sei cattivo-
    -Sono solo sincero- disse, ingurgitando un sorso di birra. –In ogni caso quando possiamo iniziare a registrare?-
    -Il mese prossimo e cazzo, avevo promesso che mi sarei fatto prete se la Lookout ci avesse fatto un contratto-
    -Questo perché sei un idiota, ora ti tocca diventare casto e astemio-
    -Ti diverte insultarmi?-
    -Oh si, da matti. In ogni caso ci serve un nome nuovo-
    -Che vuoi dire?-
    -Ci sono altre band che si chiamano Sweet Youth, e poi se dobbiamo dirla tutta questo nome fra proprio cagare-
    -Andiamo, non esagerare-
    -No, accidenti, non esagero! Sembra una marca di pannolini! “Compra anche tu gli Sweet Youth, proteggono il tuo bambino da perdite indesiderate e da quel maleodorante dannatissimo odore di cacca che lo caratterizza”!- Brat rise di gusto. Voleva bene a Spike, si, glie ne voleva davvero. Erano cresciuti insieme, avevano suonato insieme: condividere un sogno con qualcuno è la cosa migliore che possa capitare, con il suo caratteraccio e la tendenza a innamorarsi di tutto ciò che sospira e cammina su lunge gambe affusolate, senza di lui non sarebbe mai andato oltre gli stretti confini della California, e di questo ne era più che certo.
    -Senti una cosa, tu avresti mai pensato che.. bè, che ce l’avremmo fatta?- chiese.
    -Noi non ce l’abbiamo ancora fatta, ma no, non pensavo che saremmo arrivati neanche a questo punto, e se credessi in Dio lo ringrazierei tutti i giorni, cazzo-
    -Ma non è merito suo, Spikey, è merito nostro- sorrisero, facendo cozzare il vetro delle bottiglie in un sonoro brindisi e mandando giù un sorso infinito.
    Quel tintinnio rimbalzò sulla collina davanti a loro e risuonò per tutta la zona. Quello era il loro grazie a chiunque li avesse aiutati, ora dovevano solo.. andare avanti, la strada era chiara ed evidente come quei vecchi binari, e loro erano un treno che non aveva tempo per fermarsi.

    Mary entrò al 2033 su San Pablo Avenue. Il Round Table era una pizzeria modesta, non c’era che dire. Dentro due o tre camerieri correvano nel poco spazio che intercorreva fra i pochi tavoli apparecchiati alla rinfusa e avanti e indietro dalla cucina. Uno le si avvicinò per chiederle se volesse un tavolo, ma lei rispose che stava semplicemente aspettando un amico.
    Erano le sette e dieci, era arrivata in ritardo e ora scrutava attentamente tutti i presenti alla ricerca di quei caldi occhi verdi. Si era vestita bene per l’occasione, ed era tanto che non lo faceva. Aveva riordinato i capelli, che ormai sembravano aver dimenticato cosa significasse essere spazzolati, e aveva indossato l’unico vestito buono che le era rimasto, nero e attillato con le spalle scoperte e le maniche lunghe. Piccole scarpe nere con il tacco grosso nascondevano i piedi, evidenziando la sinuosa silouette delle sue gambe. Era bellissima, in fin dei conti non meno di quanto fosse sempre stata, certo, ma per la prima volta non se ne compiaceva facendo di questo la sua massima aspirazione per la sperata, no, per la prima volta, nonostante fosse vestita e agghindata come una principessa, non aspettava altro che incontrare il ragazzo.
    Un campanello trillò dal bancone del pizzaiolo e la testa di Brat spuntò da dietro il muro.
    -Funghi e prosciutto pronta!- chiamò. Allora si volse, vide Mary e lei vide lui. La guardò e il suo cuore perse un colpo, o magari due, comunque abbastanza da fargli mancare il respiro. Era davvero stupenda, sembrava così.. fuori posto in quella piccola pizzeria, come sarebbe stato fuori posto un fiocco di neve nel deserto. Immaginava di accarezzare quella candida pelle, di sentire il profumo dei suoi capelli. Ancora una volta si sentiva come se quella fosse la prima volta che provava quella sensazione alla bocca dello stomaco e, come sempre, pensava che sarebbe stata l’ultima.
    -Fitzparker! Non ti pago per restare lì impalato con quell’espressione da ebete, torna a lavoro!- un signore nerboruto e grasso con il grembiule sporco di sugo e farina ricosse il ragazzo dalla sdolcinata e patetica linea dei suoi pensieri sbattendogli la tozza mano callosa sulla spalla.
    -In effetti con la miseria che mi paga non dovrei fare altro, capo- mugugnò acido, sfuggendo a quel contatto. -In ogni caso il mio turno è finito, perciò se vuole scusarmi..- disse sfilandosi con aria di sufficienza il grembiule e scivolando fuori dalla cucina. Tentò di riavviarsi i capelli come poteva, di darsi una sistemata. Li aveva finalmente tagliati, qualche giorno prima, e ora si passava le dita fra i boccoli scuri per sistemarli senza riuscirci. Era emozionato, ed era in difficoltà. Non sapeva cosa dire, come comportarsi, diavolo, non si parlava di una ragazza qualsiasi, si parlava di una principessa, e lui non era altro che un fottutissimo clown, come avrebbe potuto.. piacerle? Era teso come una corda di violino, come un bambino al suo primo giorno di scuola, mentre camminava lentamente verso di lei, tentando di sembrare sempre il solito ragazzino idiota della periferia di Rodeo. Tutto quello non era da lui, quella ragazza non era da lui, accidenti.
    Quando le fu davanti trattenne il respiro. Nella sua testa un groviglio di pensieri correva avanti e indietro rimbalzando rumorosamente fra le pareti del cranio. Si chiedeva cosa stesse pensando, se fosse felice; si chiedeva se le sarebbe piaciuta la sorpresa che aveva in serbo per lei e se fosse tesa, come lui.
    -Sei.. bellissima, Mary- sussurrò. Lei arrossì appena e sorrise.
    -Dove.. dove andiamo?-
    -Perché, hai fame?-
    -Si, un po’- ammise -..quale ristorante hai..- Brat rise.
    -Scusa biondina, ma non sono uno dei principi a cui sei abituata, non posso permettermi un ristorante, ma credo che ti piacerà comunque il posto in cui andremo- disse.

    La macchina filava veloce sulla Route 80. La radio suonava Friday I’m in Love dei The Cure mentre lui tentava di finire il suo hot dog. Lei aveva finito da un pezzo il suo e rimestava nervosamente nella carta unta tentando invano di non sporcarsi le mani.
    I don’t care if Monday’s blue
    Tuesday’s gray and Wednesday too
    Thursday I don’t care about you
    It’s Friday I’m in love.

    -Dove mi stai portando?-
    -Oh, presto lo vedrai- Mary riconosceva la strada. La sua mente l’aveva assimilata, stavano andando a Rodeo, questo lo sapeva, ma non era abbastanza.
    -Dio, perché dovete essere sempre così misteriosi…- Brat la guardò di traverso, osservava la sua espressione imbronciata da bambina con un mezzo sorriso divertito. Era così carina quando faceva quella faccia… faceva fatica a tenere d’occhio la strada, e in cuor suo sperava che non ci fossero macchine in giro, o avrebbe rischiato di ucciderla. Il fatto che anche lui fosse in quella macchina e che avrebbe potuto farsi davvero male non sembrava così importante. Era un dettaglio.
    -Che vuoi dire?-
    -Anche Jane. Quando stavamo venendo da te non mi voleva dire dove stessimo andando. Accidenti, proprio non la sopporto- il ragazzo rise.
    -Hai fratelli o sorelle, Mary? Suppongo di no-
    -No…perché?-
    -Perché se ne avessi sapresti che il tuo rapporto con Jane è più simile di quanto pensi a quello fraterno-
    -Che vuoi dire?-
    -Bè, fra fratelli non ci si sopporta mai, eppure non si può fare a meno di continuare ad aiutarsi a vicenda e per voi due è la stessa cosa, o sbaglio? Ci hai mai pensato?- la ragazzina sbuffò.
    -…Tu la difendi sempre-
    -Nient’affatto, ma la conosco e vi vedo- Sorrise e lei si voltò a guardare fuori. Ripensava alla notte in cui quella stronzetta rossa le aveva raccontato la sua storia, la sera in cui l’aveva dovuta riportare a casa. Ancora non comprendeva pienamente il dolore che doveva esserci dietro quel racconto, ma lo percepiva in parte come se fosse suo. Qualcosa in lei.. in parte le sembrava di comprenderlo. Ma perché? No, Mary era troppo superficiale per chiederselo, o troppo pigra per pensarci e ora ascoltava il respiro del ragazzo accanto a lei, lo ascoltava canticchiare.
    Saturday wait
    And Sunday always comes too late
    But Friday never hesitate.

    -..Di cosa parla questa canzone?- chiese all’improvviso. Non sapeva esattamente di cosa parlare, ma il silenzio coperto solo dalla musica non la imbarazzava, la faceva anzi sentire protetta, semplicemente aveva paura che imbarazzasse lui.
    -Parla d’amore- rispose semplicemente. –Ti piace?-
    -Si, è.. allegra. Mette il buon umore- Mary sorrise. –Quindi.. ti stai innamorando?- domandò poi, quasi a tradimento. Magari potremmo dire che non pensò esattamente al peso che quella domanda poteva avere, perché in effetti non ci riflettè su, ma qualcosa dentro di lei lo sapeva e desiderava la risposta. Lui sospirò. Era una domanda difficile e non voleva rispondere, cazzo, non a lei. L’avrebbe finita per rovinare tutto, per combinare un casino, come ogni volta. Era sempre stato un disastro con le ragazze quando doveva parlare di sentimenti, le parole non venivano mai fuori nell’ordine giusto, o al momento giusto e questa doveva giocarsela bene.
    -Non lo so, cosa significa essere innamorati?- lei rimase immobile, come congelata. Provò a frugare nella sua mente per trovare una risposta, ma effettivamente non la conosceva.
    -Non lo so, per te cosa significa?- lui rise ancora.
    -Significa diventare pazzi. Significa diventare degli idioti-

    La macchina si fermò davanti a un grande edificio su Garreston Avenue. Il blu della scritta Rodeo Hills Elementary School si nascondeva nel buio della notte.
    -Una scuola elementare?- chiese Mary, senza nascondere la sua delusione. Non si aspettava il paradiso, ma di certo neanche quello.
    -Si, proprio una scuola elementare-
    -Tu hai studiato qui?-
    -Si, bè, non che a Rodeo ci siano molte altre alternative. Abbiamo studiato tutti qui-
    -E che ci facciamo noi adesso?- lo disse con un tono quasi da snob, da bambina viziata che fa i capricci. Ci mancava solo che facesse la linguaccia e sarebbe stata perfetta, pensò Brat, ma in lei c’era di più di questo e lo sapeva. Ne era convinto.
    -Tu fidati di me. Dai, andiamo-


    -Come facciamo a entrare, Brat?-
    -Ho le chiavi-
    -E perché accidenti hai le chiavi della tua scuola elementare?- il ragazzo sfoderò l’espressione più saccente che aveva in repertorio. Se al posto della biondina ci fosse stata Jane, probabilmente si sarebbe beccato un pugno dritto sul naso.
    -Un bravo ladro non svela mai i suoi trucchi-
    -Hai pagato un bidello o qualcosa del genere?- Lui sorrise.
    -Esattamente- ammise.
    Erano entrati dalla porta della scala antincendio e ora davanti a loro si distendeva un lungo corridoio scuro. Le porte aperte delle aule rendevano quel posto terribilmente inquietante, pensava Mary, mentre tentava di tenersi il più vicino possibile a lui, ricordando tutti quegli stupidi film horror che alle sue amiche piaceva tanto guardare. Che idiozie.
    -Hai paura?- chiese il ragazzo.
    -…un po’- ammise lei.
    -Bè, non devi, l’aula di musica non dev’essere lontana, se la memoria non m’inganna dovrebbe essere…- sussurrò, avvicinandosi all’ultima porta del corridoio. –Questa- concluse soddisfatto, aprendola. Accese la luce.
    Si ritrovarono in una piccola stanza quasi completamente spoglia. Contro le pareti e sotto le saracinesche abbassate c’erano piccole sedie rosse accuratamente disposte in file ordinate. L’aria puzzava di sgrassatore e sapone per pavimenti. Al centro dell’aula c’era un vecchio piano a coda. Era nero, lucido, rifletteva la luce della lampada al centro del soffitto, proprio sopra di lui. Mary rimase senza parole. Certo, aveva visto piani più belli, ma ora quello le sembrava davvero stupendo.
    Era un po’ che non suonava. Forse in fin dei conti era l’unica cosa che le mancava davvero della sua vecchia vita e se ne rendeva conto solo adesso. Aveva speso ore accostata a quello strumento, lasciando che le sue dita danzassero fra nero e bianco con grazia, emettendo quel caldo suono che sembrava riscaldarle l’anima. Si avvicinò lentamente.
    Brat invece, dal canto suo, la osservava soddisfatto. Era uno sciocco ragazzino di periferia e non era mai stato troppo bravo con le parole, in inglese, a scuola, aveva raramente e difficilmente raggiunto la sufficienza. La sua lingua era la musica, e ora aspettava che la sua principessa gli parlasse in quella lingua.
    La ragazza si sedette davanti al piano e per un istante tutto cessò di esistere, per un istante fu da sola, da sola dove? Non ne aveva idea, non le interessava. Con lei non c’era altro che la melodia che leggera si sollevava dallo strumento, avvolgendola delicatamente.
    Le note che riempivano la stanza erano quelle di Mad World, Brat la conosceva bene. Aprì la bocca, e iniziò a cantare piano, mentre guardava nell’anima di Mary e vedeva il ghiaccio del suo sguardo sciogliersi e lasciare che si riempisse di lacrime e di malinconia. Ora non era più lei. Quella canzone una come lei non avrebbe dovuto capirla, una prigioniera di una gabbia dorata non avrebbe dovuto percepire le sbarre poco più in là, intorno a se, ma quando suonava invece le percepiva eccome. La stupida principessa di un regno che aveva sempre voluto vedere come perfetto non era poi così stupida e qualcosa, dentro di lei, aveva sempre sentito l’odore di marcio che proveniva dalla sua esistenza. Si mise anche lei a cantare e la voce le tremava. Era una voce dolce, una voce da bambina.
    All around me are familiar faces
    Worn out placet
    Worn out faces
    Bright and early for the daily races
    Going nowhere
    Going nowhere

    E al loro canto si unì una piccola lacrima che solcò la guancia della ragazza, ma lei quasi non la sentì. Non era triste, era solo consapevole. Non aveva paura di ammetterlo e ora vedeva tutte le sbarre, vedeva la sua piccola gabbia d’oro. La vedeva lontana e, per la prima volta nella sua intera vita, non la riteneva perfetta, ne la rimpiangeva.
    La musica cambia l’anima, chiarisce cose che la gente a volte non riesce a vedere, chiariva quello che lei non era mai riuscita a vedere.
    And I find it kind of funny
    I find it kind of sad
    The dreams in which I’m dying are the best I’ve ever had.

    Ripensò a quando aveva trovato i cadaveri dei suoi genitori, ripensò a quando si era quasi ammazzata, a cosa aveva provato. Ora lo capiva, ora si capiva e sapeva che quando la musica sarebbe finita non sarebbe più riuscita a capire, a spiegare.
    I find it hard to tell you
    I find it hard to take
    When people run in circle it’s a very very
    Mad world.

    La musica si esaurì e l’aria si riempì di niente, diventando insopportabilmente pesante. Non si era accorta che Brat si fosse seduto accanto a lei e ora sentiva la sua mano calda accarezzarle la guancia, ma non riusciva ad alzare lo sguardo, ancora colmo di lacrime.
    -Grazie- sussurrò.
    -Sai, credo che una cosa piccola e inutile come una canzone, a volte possa fare la differenza. Pensi sia stupido?-
    -No, non lo è.. tutte le volte che suono mi sembra di…capire. Capire delle cose, è come volare e arrivare alle stelle e dura solo finché suono, come un sogno e… e questo si che è stupido- disse, alzando lo sguardo. Il viso del ragazzo ora era così vicino al suo da poterne percepire il respiro caldo.
    -No, non lo è- mormorò e, delicatamente, posò le sue labbra su quelle di Mary e un fastidiosissimo stormo di farfalle invase il suo stomaco, facendole il solletico.
    Ora credeva di conoscere la risposta alla domanda di Brat, credeva di sapere cosa significasse innamorarsi.
     
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