Luce in frantumi

Drammatico

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  1. •GABRIEL•
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    CITAZIONE (»Milù Sunshine» @ 11/1/2013, 01:32) 
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    Sembra che questo pezzo ti abbia fatta arrabbiare...

    Diciamo di sì... non per te, naturalmente! :D
    Per la storia in sé, e per il fatto che certe cose capitano anche nella realtà. Insomma, spesso gli abusi, all'interno delle famiglie, non dipendono soltanto dal fatto che c'è una persona che li commette, ma anche dal resto della famiglia che volutamente va in giro con il paraocchi.

    Il paragone della realtà non regge... ci sono persone che ci muoiono a causa degli abusi famigliari... e la cosa più triste e quello che già tu hai detto, quando la famiglia sa, ma non fa niente per salvare quella vita.
    Questa è la cosa più triste.
    E anche se da amica vorresti dare una mano, non puoi, non puoi... il che è davvero atroce, veder morire un amico perchè la famiglia se ne frega di ciò che il padre e i compagni di scuola fanno a quel ragazzo.
    S. aveva solo 15 anni... 15 anni... no, non ci sto.
    Per questo che alla fine questo romanzo lo dedico a lui...
    Per S. che ha deciso di rimettere le ali dopo che gliel'avevano tagliate ferocemente.

    Il mio romanzo è liberamente ispirato alla sua storia... almeno per i primi capitoli...
     
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    E anche se da amica vorresti dare una mano, non puoi, non puoi... il che è davvero atroce, veder morire un amico perchè la famiglia se ne frega di ciò che il padre e i compagni di scuola fanno a quel ragazzo.
    S. aveva solo 15 anni... 15 anni... no, non ci sto.
    Per questo che alla fine questo romanzo lo dedico a lui...
    Per S. che ha deciso di rimettere le ali dopo che gliel'avevano tagliate ferocemente.

    Mi dispiace davvero tanto, non sapevo fosse dedicato a fatti capitati a una persona che hai conosciuto realmente. :(
     
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  3. •GABRIEL•
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    CITAZIONE (»Milù Sunshine» @ 11/1/2013, 01:52) 
    CITAZIONE
    E anche se da amica vorresti dare una mano, non puoi, non puoi... il che è davvero atroce, veder morire un amico perchè la famiglia se ne frega di ciò che il padre e i compagni di scuola fanno a quel ragazzo.
    S. aveva solo 15 anni... 15 anni... no, non ci sto.
    Per questo che alla fine questo romanzo lo dedico a lui...
    Per S. che ha deciso di rimettere le ali dopo che gliel'avevano tagliate ferocemente.

    Mi dispiace davvero tanto, non sapevo fosse dedicato a fatti capitati a una persona che hai conosciuto realmente. :(

    Fa male... credimi fa male... ma penso di rendergli più onore citandolo in un romanzo, piuttosto che portargli fiori che prima o poi marciscono in un cimitero.
    La sua storia per alcuni non dovrebbe essere raccontata, ma per me si, perchè la sua storia vuole essere un'urlo contro questa società.
    Non si può morire così a 15 anni.
    Ricordo che il prete il giorno del suo funerale ha detto:

    "Il suicidio è peccato. E' vero. Ma S. non si è suicidato... siete voi che l'avete ucciso!"

    Questa frase è vera, e me la porterò per sempre nei miei ricordi.

    Ripeto, fa male ricordare... ma la sua storia in qualche modo andava raccontata. Ovviamente prendo solo spunto dalla sua storia, non mi permetterei mai di raccontare la vera storia di S. non sarebbe giusto... però si... Luce in frantumi è liberamente ispirata ad una storia vera...
     
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  4. °°Claudia°°
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    ringrazio infinitamente Claudia, per il suo aiuto!

    :fiori:
     
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  5. Donnie-Darko
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    Leggerò il primo capitolo :)

    CITAZIONE
    n piccolo raggio di sole che timido si affacciava

    avrei scritto: di sole che si affacciava timido, oppure avrei levato l'aggettivo.

    CITAZIONE
    Non riuscii a respirare.

    non riuscivo a respirare. Non ti saprei ben spiegare perché, ma mi sembra sbagliato.

    CITAZIONE
    Dio! Come avrei voluto non essere mai nato. Perché mi hanno fatto nascere se non mi volevano? Non mi hanno mai voluto, in realtà.

    Questo mi sembra banale. Se devi esprimere concetti del genere approfondisci se no è inutile inserirli, secondo me.

    Sulla storia non mi pronuncio, ho letto ancora poco, però la lettura di questo frammento non mi catturato particolarmente.
     
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  6. •GABRIEL•
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    Ringrazio Claudia per il suo aiuto e contributo!

    Capitolo 1

    Osservai accuratamente quell’immagine deformata che si riflesse nello specchio della mia cameretta.
    Mi voltai, ma solo per un istante. Il letto era ancora disfatto, la coperta era caduta sul pavimento, le lenzuola non profumano più di pulito. Sul pavimento di legno scadente c’erano pezzi di vetro e fogli di carta sparsi qua e là. La stanza era eccessivamente piccola e poco illuminata. Si riusciva solo a intravedere un piccolo raggio di sole che timido si affacciava dalle tende scarlatte della finestra e che per un attimo illuminò il mio viso deturpato dal sangue che scendeva incessantemente come a formare delle lacrime.
    Appoggiai lentamente la mano sporca di sangue sullo specchio e abbassai la testa; no, non ero io quello lì, non ero io... quella era solo un’immagine riflessa, senza anima. Ma forse quell’anima non apparteneva neanche a me. Lacrime silenziose si mescolarono al sangue, chiusi gli occhi e una sensazione di buio mi devastò, mi trascinai a terra mentre quell’immagine mi accompagnava. Non poteva dirmi nulla, non poteva sussurrarmi nulla, poteva solamente guardarmi. Lacrime amare continuarono a rigare il mio volto. Strinsi i denti. Non riuscii a respirare. Cercai di confortarmi abbracciandomi da solo, ma non servì a nulla... solo quell’immagine mi fece compagnia, il resto era solitudine. Sono sempre stato solo.
    Da che io ricordi, avevo sempre sofferto e da allora la domanda nacque spontanea: perché vivere? Già, perché? Non sapevo darmi una risposta, ma una cosa la pensai, ero troppo vigliacco per farla finita, non ce l’avevo questo coraggio. Eppure il dolore era così forte, mi stava distruggendo poco a poco, mi portava lentamente alla pazzia. Anche se forse pazzo lo ero già, dovevo solo dimostrarlo a me stesso.
    Guardai in alto e tutto sembrò molto più grande di me; ritornai a fissare quell’estraneo sullo specchio, non potevo essere io, mi ripetei ancora e ancora.
    Con il dorso della mano cercai di fermare, ma con scarso successo, le lacrime miste a sangue che fluivano ininterrottamente.
    Le ferite erano troppo recenti, troppo aperte; ma già lo sapevo, tra qualche tempo ci sarebbero state solo cicatrici al loro posto... c’ero abituato. Erano diciotto anni che vivevo con questo terrore, forse ci sarei persino morto.
    Ma in fondo cos’era la morte? Era solo un distacco da questa realtà; solo un semplice e banalissimo distacco... e allora perché averne paura? Dio! Come avrei voluto non essere mai nato. Perché mi hanno concepito se non mi volevano? Non mi hanno mai voluto, in realtà. E questo lo so per certo, perché avevo solo cinque anni quando iniziò questo scempio.

    Ricordo che tornavo a casa felice dal mio primo giorno di scuola. Il grembiulino blu profumava ancora di lavanda, la cartella con su disegnato il mio personaggio preferito dei cartoni animati era nuova, i quaderni contenevano solo poche parole. I miei compagni erano stati gentili con me e io sorridevo a questo. Mentre percorrevo il viale che mi portava a casa mi voltai e sorrisi a Nathan, mio fratello.
    Nathan era più grande di soli undici mesi, ma era molto diverso da me. Lui voleva tutto e subito, mentre io mi accontentavo di quello che mi davano rare volte i miei genitori.
    Entrammo a casa, poggiai la cartella vicino all’appendiabiti e mi tolsi il grembiule. Dall’ingresso si sentiva un buon profumo di torta appena sfornata, quindi mi fiondai nella sala da pranzo, salutai mio padre che era già seduto a tavola e mia madre con un bacio sulla guancia. Sorrisi quindi tra me e me, ma non potevo sapere che quello sarebbe stato il mio ultimo sorriso in diciotto anni di vita.
    Fino ad allora credevo di avere una bella famiglia che mi amava, ma presto mi sarei reso conto che non era così.
    Mentre eravamo seduti a tavola, guardai per un attimo mio padre. Aveva la fronte corrucciata e mi fissava con sguardo severo. Poi disse a me e a mio fratello: “Un giorno uno dei due prenderà il mio posto nell’azienda dove lavoro. Avete l’obbligo di portarmi solo ottimi voti, voglio che studiate per diventare i migliori.”
    Io guardai Nathan, lui guardava nostro padre e anche se mi dava le spalle potevo avvertire lo scambio di sguardi che si lanciavano. Da quel giorno, solo agonia.
    Pur di non farmi studiare, mio padre mi obbligava ad aiutare mia madre con le faccende di casa: dovevo pulire, lavare i piatti, stirare, cucinare. Non avevo più tempo per studiare. Nemmeno la notte, come all’inizio mi ero proposto di fare. Ma ero solo un bambino, cosa potevo saperne. A volte se sbagliavo la mamma mi dava delle sberle e mi sgridava.
    Se papà non voleva che prendessi il suo posto in azienda perché non lo diceva e basta? Avrei accettato la cosa con dignità e onore. Io ero diverso da Nathan, lui sognava di lavorare un giorno per papà, ma il mio sogno di bambino invece era un altro. A me piaceva la musica, volevo diventare un musicista. Ma sapevo in cuor mio che quel sogno non sarebbe mai uscito da quel cassetto.
    In ogni caso, i giorni passavano sempre uguali, senza alcuna distinzione. Mio padre era sempre più ostile e tutto si frantumò quando portai la mia prima pagella a casa.
    Non c’erano buoni voti, solo qualche sufficienza tirata sparsa qua e là. Sapevo che mio padre non l’avrebbe presa bene. Ma non avrei mai potuto immaginare la sua reazione spropositata.
    Ricordo solo frammenti di quegli attimi. Ricordo che non appena lui lesse la mia pagella si alzò dalla sedia e venne verso di me. Mi colpì in pieno volto e caddi a terra. Iniziai a piangere. Lui farfugliò qualcosa e mi colpì di nuovo. Mi uscì sangue dal naso e dalla bocca. Guardai mia madre, cercavo aiuto in lei, ma lei si girò dandomi le spalle, quindi guardai mio fratello. Lui sorrise.
    Guardai il pavimento sotto di me, era macchiato di sangue, il mio sangue. Lui mi colpì ancora e ancora. Il dolore prevalse su di me, poi capii: quello sarebbe stato il primo giorno della mia oscurità perpetua.

    Battei i pugni con violenza sul pavimento. Il mio corpo era adagiato sul pavimento quasi come paralizzato. Non volevo piangere ancora, ma le lacrime non riuscirono a fermarsi.
    Mi voltai nuovamente verso quello specchio, verso quell’immagine che mi faceva una solitaria compagnia. Trattenni i singhiozzi, li soffocai, ma il nodo che avevo alla gola si fece ancora più doloroso. Mi rannicchiai su me stesso; avrei voluto tanto urlare, ma dalla mia bocca non uscì alcun suono.
    Improvvisamente sentii sbattere la porta d’ingresso e, con le ultime forze che mi restavano, mi tirai su a fatica. Se mio padre mi avesse visto in quelle condizioni, per me sarebbe stata la fine; così presi un fazzoletto e tornai allo specchio. Passai sul mio viso quel pezzo di stoffa di un bianco candido, l’avevo fatto come fossi un robot, i miei movimenti erano molto limitati, ma lui non doveva vedermi conciato in quello stato. Il fazzoletto si macchiò e ne presi un altro, che fece la stessa fine dell’altro. Continuai a osservare quell’immagine... ero io, sì, ero proprio io. Ora mi riconoscevo. La mia faccia era nuovamente pulita. Chiusi gli occhi, abbassai la testa e, quando sentii aprire la porta, mi voltai. Davanti a me, mio padre!
    Cominciai a tremare violentemente. Il suo sguardo si posò prima sulla cameretta in disordine e poi si spostò su di me. Mi resi conto, solo dopo, che stringeva nelle mani un foglio. Lo guardai in viso e notai il suo disprezzo e la sua rabbia, ma per me non era una novità, ero abituato a ricevere quel trattamento, sempre e comunque. Lui non disse nulla e mi mostrò il foglietto che aveva in mano. Era il risultato del primo quadrimestre del mio quarto anno di liceo, i voti erano pessimi, ma d'altronde lo immaginavo. Silenziosamente abbassai lo sguardo, e mi girai, dando le spalle a mio padre. Mi tolsi la maglietta, consapevolmente, e mi adagiai sul letto; poggiai il mio sguardo sullo specchio e riuscii a intravedere il mio corpo ricoperto da cicatrici e ferite. Poi guardai mio padre che nel frattempo si era sciolto la cintura e la stava attorcigliando alle mani. Chiuse la porta e si avvicinò a me. Io strinsi gli occhi e il dolore cominciò a farsi presente su tutto il mio corpo. Piansi.
    “Che fai? Piangi? Solo le femminucce piangono a questo mondo!” Urlò, mi prese per i capelli, mi sbatté a terra e riprese a colpirmi ancora e ancora e ancora.
    Quando si stancò, mi buttò addosso il foglio delle mie valutazioni ed uscì dalla stanza. Io rimasi immobile. Avrei voluto chiamare aiuto, ma sapevo che non sarebbe servito. Non era la prima volta dopotutto. Anzi non aveva mai smesso. Eppure io avevo stima di lui, gli volevo bene; rimaneva comunque mio padre.
    Mia madre entrò nella stanza mentre ero ancora a terra. In assoluto silenzio, cominciò a pulire incurante di tutto. Sulle pareti c’erano macchie di sangue e, anche le lenzuola erano intrise allo stesso modo. Cambiò anche quelle e poi si occupò di me. Mi aiutò ad alzarmi e medicò le mie ferite. Provai un bruciore lancinante quando me le disinfettò. Poi mi aiutò a rimettere la maglietta. Io la guardai speranzoso, sperai in qualche sua parola di conforto, anche solo in un gesto che mi facesse sentire meno solo, ma non arrivò. Rimase in silenzio, mi voltò le spalle ed uscì dalla mia stanza, sbattendosi la porta dietro.
    Rimasi a fissare la porta per un po’ di tempo, i miei pensieri scorrevano veloci; chiusi gli occhi e le lacrime silenziose tornano.
    Ancora una volta il buio mi attirò a sé.

    Una luce abbagliante ferì i miei occhi. Feci fatica ad aprirli, ma quando ci riuscii, vidi Nathan fermo immobile all’entrata della mia camera con la mano appoggiata ancora sull’interruttore della luce.
    “Devi scendere! Aiuta mamma a preparare la cena!” Mi ordinò. Poi scomparve lasciando la luce accesa.
    Mi alzai su a fatica, mi faceva male tutto, ma ancora di più la mia anima che bramava una sorta di liberazione che il corpo non poteva darle.
    Guardai il calendario un momento. Eravamo a dicembre. Il venti. A breve sarebbe arrivato il Natale. Scossi la testa con disapprovazione e con un gesto secco spensi la luce e chiusi la porta.
    Scesi le scale ed entrai in sala da pranzo. Mio padre era seduto a capotavola, accanto a mio fratello. La stanza era piena della fragranza di cibi diversi, avrebbero dovuto stuzzicarmi l’appetito, ma la sensazione che arrivò fu solo un tremendo voltastomaco. Per un attimo guardai mio padre che ricambiò il mio sguardo con sdegno, poi mi diressi in cucina, da mia madre.
    Mi avvicinai a lei, indaffarata come sempre, e mi porse un piatto pieno di chissà quale cibo che non avevo il coraggio di guardare.
    “A tuo padre.” Disse solamente. E, come fossi un cameriere, portai la pietanza a mio padre. Cercai di non guardarlo di nuovo, per non incorrere in quello sguardo freddo ancora una volta; tornai in cucina e feci lo stesso con il piatto di mio fratello e di mia madre.
    Il mio piatto, invece, era pieno di scarti, erano avanzi o quello che ne rimaneva. Lo esaminai e andai a sedermi al mio posto. Ma qualcosa non andò per il verso giusto. Sentii qualcosa impigliarmi i piedi e caddi insieme al mio piatto con la faccia a terra.
    Quando mi ripresi, era troppo tardi... il pavimento era sporco e il mio piatto vuoto. Guardai sopra di me. Mio padre mi fissava furente. Riuscii solo a pronunciare un silenzioso “Scusa.”, ma non servì.
    Lui mi ordinò: “E adesso... mangia!”
    Non ci riuscivo, sembrava l’ennesimo incubo, guardai mia madre che si girò dall’altra parte, poi guardai lui con una supplica scritta a chiare lettere negli occhi, ma tutto ciò che fece fu ripetere con ancor con più vigore. “Ho detto: mangia!”
    Ero come paralizzato, non riuscivo a muovere un muscolo, non riuscivo ad obbedirgli. Strinsi gli occhi solo per un momento e poi un dolore lancinante mi ferì lo stomaco, mi aveva dato un calcio. Mi urlò di mangiare, ma la mia unica risposta erano le lacrime che mi rigavano il volto.
    Gli occhi mi si appannarono e riuscii solo a percepire la su presenza, si mise a cavalcioni su di me e, con entrambe le mani mi prese la testa e me la sbatté a terra, dove c’era il cibo rovesciato. Continuò a urlarmi di mangiare, così tante volte che persi il conto. Ma la mia ostinazione nel mangiare lo costrinse a prendermi per i capelli, mi alzò con forza da terra, mi diede due schiaffi e mi spalancò la bocca. Chiamò mio fratello che, quasi sorridendo, m’infilò il cibo caduto per terra in bocca. Poi mio padre con entrambe le mani mi chiuse la mascella. Ingoiai a fatica. Ripeterono per altre due volte la stessa scena. Guardai mio fratello nella speranza che smettesse, ma la mia preghiera non fu esaudita. Quando mi lasciarono, poco era rimasto sul pavimento, mio padre mi ordinò di pulire tutto e di lavare i piatti. Con la morte nel cuore, eseguii i suoi ordini.
    Loro andarono a sedersi in salotto a guardare la tv. Appena ebbi finito di sistemare tutto, chiesi il permesso di andare in bagno. Fortunatamente mi fu concesso.
    Quando entrai in bagno, riuscii a rigurgitare ciò che mi avevano fatto mangiare con forza. Se mio padre mi avesse visto, non avrebbe tardato a punirmi. Feci scorrere l’acqua e andai verso il lavandino. Mi lavai la bocca e la faccia. Mi bruciava tutto, mi faceva male tutto. Spensi la luce e mi diressi in salotto. Li guardai per un attimo, spiandoli dall’entrata. Mia madre percepì la mia presenza ma, prima che potesse voltarsi verso di me, mi nascosi e salii le scale verso la mia stanza.

    Appena entrai mi sedetti alla scrivania, aprii il cassetto e presi il mio quaderno. Ci scrivevo di tutto, semplici frasi, poesie... pensieri. Era l’unico modo per sentirmi meno solo e mi aiutava.
    Guardai un po’ la copertina del quaderno, sopra c’era disegnata una tigre con sfondo arancione, non mi si addiceva molto, però non importava, l’importante era prendere la penna e far scorrere le parole.
    Era inevitabile non pensare. Era inevitabile non pensare a lei. Quella ragazza dai lunghi capelli biondi con grandi occhi verdi che mi avevano rapito il cuore. Ma lei ovviamente non sapeva nemmeno che esistevo. Come tutti del resto.
    Scorsi per un po’ le pagine del mio quaderno. Mi fermai solo quando trovai quella che cercavo. Quella che raccontava quando la vidi per la prima volta.

    Ventinove settembre.
    Andai a scuola come tutte le mattine. Il terzo anno era appena cominciato. O perlomeno ricominciato. Sì perché l’anno precedente ero stato bocciato. Certo, mio padre non mi aveva dato tregua per tutta l’estate, però alla fine anche quello era passato. Qual è quella parola che fa tanto paura? Ah sì, abitudine. Sì, ci sono abituato. Come sono abituato ai continui soprusi da parte dei miei compagni. Ma d'altronde che posso farci? Nulla. Non posso farci nulla. Devo solo resistere. Sopravvivere. Ma in questo sono esperto.
    L’unica cosa che non m’immaginavo oggi era quella che potessi perdere il respiro.
    La campanella trillò e avvisò tutti gli studenti che la ricreazione era appena iniziata. Poco male. Odio il momento della ricreazione. Non c’è giorno che non me ne capita una. In ogni caso, non volevo farmi trovare in aula, così andai a sedermi sulle scale. Fu lì la prima volta che la vidi.
    Era bellissima. Non riuscivo a guardare altrove. Ma lei apparteneva a un altro ceto sociale. Era distante da me. Lo si capiva da come parlava, da come si muoveva, da come vestiva. E più la guardavo, più ero attratto da lei, più il mio cuore appassiva. Ogni volta che la guardavo una pugnalata, mi raggiungeva nel petto, sanguinavo e da allora il mio cuore... smise di battere.

    Era dannatamente bella, come lo era sempre stata. La linearità del viso e la pelle morbida non erano cambiate, il tempo sembrava non averla sfiorata. Ero totalmente ossessionato da lei. Mi sembrava di vedere il suo viso dappertutto. Avrei potuto morire per lei ogni giorno e sarebbe stato molto più bello che continuare quella vita nell’ombra.
    Appoggiai il mento sulla mano, mentre con l’altra, scarabocchiai il foglio cercando di disegnare i suoi occhi. Non ero mai completamente soddisfatto e ripetevo lo stesso gesto come un mantra. Senza prevederlo sentii le mie guance umide; stavo piangendo e non avrei saputo dire neppure il perché. O forse lo sapevo ma non volevo ammetterlo a me stesso.
    Con un gesto lasciai cadere la penna e poggiai la testa sul quaderno.
    “Blaze!” Riuscii a sussurrare tra i singhiozzi.
    Sì, Blaze era il suo nome e significava splendore.
    Già, splendore. Se non fosse stato così simile al mio non ci avrei fatto tanto caso. Ma cosa importava? Non potevo averla, lo sapevo. E non l’avrei avuta mai.
    Improvvisamente sentii aprire la porta e con un gesto repentino mi sollevai, chiusi il quaderno e ci misi sopra le mie braccia. Mi voltai. Era mia madre.
    Istintivamente abbassai la testa, non volevo guardarla. Lei si avvicinò a me. Rimasi davvero sorpreso quando la guardai, sembrava quasi commossa e non ne capivo il motivo.
    “Perdonaci... sai com’è tuo padre!” Mi disse.
    Mi sembrava davvero dispiaciuta, ma perdonarla era impossibile. Non le credevo, tutto ciò che usciva da quella bocca non significava niente per me. Erano solo le parole vuote di una donna che non aveva avuto il coraggio di ribellarsi alla vita, neppure per amore di suo figlio.
    Le rivolsi uno sguardo privo di espressione e non parlai.
    “Lu... mi dispiace, davvero.” Usò il diminutivo del mio nome. Piangeva, ma non m’importava.
    “Vattene!” Fu la mia risposta.
    Lei tentennò, non poteva pretendere altro da me, non dopo tutto quello che era stato.
    “Non voglio le tue scuse, non mi servono più.” Continuai, alzando il tono di voce. La rabbia avrebbe preso il posto della rassegnazione e non volevo che accadesse.
    “Ma non sono scuse. Non posso fare niente contro tuo padre.” Mi disse quasi pregando.
    “Smettila!” Mi alzai di scatto e mi misi davanti a lei guardandola fissa negli occhi.
    Impulsivamente mi tolsi la maglietta scoprendo il mio corpo. Ero davvero esausto e quella stessa stanchezza mi portò a compiere quel gesto.
    “Dimmi una cosa, mamma...” Marcai la parola. “Sono dodici anni che sopporto le sue ire, sopporto il mio corpo fatto a pezzi. Non so come faccio, ma sopravvivo. Tu non ti sei mai preoccupata di me, perché dovresti farlo solo adesso, dopo dodici anni. Dimmi, perché?”
    Lei prese la maglietta che avevo gettato a terra e me la rimise nelle mani.
    “Lu... so quello che passi da dodici anni. Io ci vedo.” Mi disse avvicinandosi a me. E quando fu vicina una sua mano mi sfiorò il volto. Io presi quella mano e con forza la tolsi dal mio viso.
    Restammo in silenzio per un po’, poi in preda alla rabbia e alla frustrazione, incapace di trattenermi ancora, le urlai: “ Io non credo che tu ci veda. Non hai mai mosso un dito per aiutarmi, nemmeno quella volta in cui...” Mi bloccai di colpo, mi venne da piangere ma ricacciai indietro le lacrime e continuai: “Di una cosa però sono sicuro... e puoi credermi: un giorno me ne andrò da questo inferno! Ma per adesso, esci dalla mia stanza!”
    Lei rimase immobile ad ascoltarmi; piangeva. Poi abbassò la testa, si girò lentamente e uscì chiudendo la porta.
    La guardai uscire, e non appena la porta fu chiusa un impeto d’ira mi scosse, con un gesto buttai tutto ciò che c’era nella scrivania a terra. Il quaderno degli appunti si aprì proprio dove c’era una sua foto.
    Non era molto nitida, gliela avevo scattata furtivamente, però riuscivo a coglierne anche i tratti che restavano nascosti agli occhi di chiunque.
    Istintivamente mi inginocchiai guardando la foto, la presi nelle mani e la strinsi al petto. Cercai di fermare quel dolore che sembrava una voragine nel mio cuore, ma con scarso successo.
    Qualche minuto dopo mi ritrovai rannicchiato sul letto. Le lacrime per quel giorno le avevo finite.

    Passò qualche giorno, le mie giornate scorrevano tutte uguali. Iniziavano e finivano allo stesso modo: picchiato da mio padre, anche per motivi banali come rispondere ad una domanda di mio fratello. La cosa cominciava a pesare, ero davvero esausto.
    “Lu... dai su preparati, stasera siamo dai Jordan. Non dobbiamo fare tardi.” Urlò mia madre passando di sfuggita dalla mia stanza.
    I Jordan – pensai tra me e me. Non riuscivo a crederci. Rimasi per un attimo paralizzato cercando di analizzare quel cognome. Mia madre non poteva essersi sbagliata. Avremmo passato la vigilia di Natale con i Jordan. Questa si, che era una novità.
    Quando mi ripresi andai dritto nel mio armadio, lo guardai e abbassai la testa... non avevo niente di adatto per la serata. L’armadio conteneva poca roba e tutta con le tonalità del nero. Feci un respiro profondo e cominciai a cercare. Trovai un paio di pantaloni neri seminuovi, una maglietta e una giacca dello stesso colore. Andai quindi in bagno a farmi una doccia. L’acqua scorreva sul mio corpo. Era rinfrescante, soprattutto per il bruciore delle ferite. Quindi andai a vestirmi. Guardandomi allo specchio cercai di essere ironico lanciando una battuta a me stesso – sembra che mi sia morto il gatto! – ma sapevo in cuor mio, che la morte non era del gatto. Chiusi gli occhi e quando li riaprii mi riguardai. Madre natura non era stata tanto cattiva con me... mi aveva regalato un fisico snello, asciutto e centottantasei centimetri di altezza. Ero il più alto della famiglia. Non che mi fosse servito a molto.
    Mi sistemai i capelli castani, sempre molto lisci, spostando il ciuffo tutto da un lato. Guardai i miei occhi. Erano blu. Ero così diverso dalla mia famiglia. Come nella storia del brutto anatroccolo, ma la mia vita non era una favola e io non sarei diventato un cigno. Ero semplicemente un rifiuto umano da cui la gente doveva stare lontana. Meglio. Io odiavo le persone. Amavo invece la solitudine.
    “Sei pronto?” Domandò mia madre entrando nella mia stanza.
    Feci un cenno restando in silenzio.
    Lei mi esaminò. “Tutto vestito di nero... sembra ti sia morto il gatto! No, così non va!”
    Io la guardai perplesso. Doveva essere importante questa cena se mi stava addirittura consigliando di cambiarmi. Non si era mai preoccupata del mio vestiario.
    “Aspetta qui!” Mi disse. “Vado a prenderti una maglia.” Poi la vidi uscire.
    Tornò pochi minuti dopo con una maglietta arancione con dei disegni astratti argentati. Odiavo l’arancione, ma per evitare ogni sorta di discussione la presi e la indossai.
    Non mi stava male, lo dovevo ammettere.
    “Ecco, così va meglio.” Disse lei compiaciuta.
    Rimisi la giacca nera sopra la maglia, mi guardai per un attimo allo specchio, feci una smorfia e scesi all’ingresso, dove già mi aspettavano.
    “Sempre il solito ritardatario!” Disse furente mio padre.
    Io abbassai la testa, colpevole. Quindi li seguii verso l’auto. Mi sedetti nel sedile posteriore, accanto a mio fratello. Vista da fuori la mia famiglia poteva anche essere normale, perfetta. Ma io di perfetto non ci vedevo proprio nulla. Anzi... amavo e odiavo la mia famiglia allo stesso modo.
    Guardai fuori dal finestrino pensando a tutto e a niente. In breve tempo, o almeno così mi sembrò, arrivammo dai Jordan. Ma una sensazione prepotente di oscurità di fece largo nella mia mente. Il mio animo avvertiva qualcosa che, senza poterlo prevedere, sarebbe cominciato quella stessa sera.
    Gli avvenimenti si sarebbero sovrapposti tra loro e avrebbero modificato l’evolversi delle cose. Avrebbero sconvolto tutto; era come se sentissi che la mia vita stesse arrivando alla fine. Una fine forse agognata e desiderata, nonostante fosse prematura.

    Mio padre fermò l’auto su di un vialetto. Scesi e mi guardai attorno. C’erano moltissime auto parcheggiate, pochi i posti liberi. Era una festa.
    Guardai la casa, altrettanto enorme in stile vittoriano. Non mi piaceva granché, ma non era importante. Mentre guardavo perplesso quel mondo, distante anni luce da me, mia madre mi riportò alla realtà dandomi uno strattone e facendomi cenno di seguirla. La seguii e arrivammo al portone d’ingresso, ad attenderci c’era una cameriera che ci fece strada verso il salone principale. Appena entrati venimmo accolti dal marasma più totale. Se avessi potuto sarei indietreggiato, ma non potevo. Odiavo i posti pieni di gente. Avremmo dovuto salutare i Jordan e non potevo incorrere nell’ira di mio padre ancora una volta.
    Sentii i miei porgere il saluto mentre biascicavano un grazie per l’invito. Io rimasi a testa bassa per tutto il tempo. E forse sarei dovuto rimanere a testa bassa, perché quando toccò a me a salutarli dovetti trattenere il respiro per un minuto buono.
    Avrei dovuto immaginare che sarebbe andata a finire così, ma pensavo di farcela. E invece feci la figura dell’idiota. Quando alzai lo sguardo riuscii a farfugliare il mio saluto ai signori Jordan, ma mi bloccai non appena incrociai il suo sguardo.
    Davanti a me, la donna delle mie ossessioni. Blaze.

    Edited by •GABRIEL• - 11/2/2013, 21:03
     
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    Ho visto che hai aggiunto una parte e... che cosa dire? Ottimo finale di capitolo! *_______*

    Complimenti, hai saputo realizzare il colpo di scena giusto al momento giusto!
    Ottimo lavoro! *-*
     
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  8. •GABRIEL•
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    CITAZIONE (»Milù Sunshine» @ 14/1/2013, 23:55) 
    Ho visto che hai aggiunto una parte e... che cosa dire? Ottimo finale di capitolo! *_______*

    Complimenti, hai saputo realizzare il colpo di scena giusto al momento giusto!
    Ottimo lavoro! *-*

    Grazieee!

    Sorpresina:

    CAPITOLO 2

    Mi ci vollero dieci minuti buoni prima di riprendermi. Cavoli, mi toglieva il fiato. Era davvero uno splendore. Per l’occasione aveva lasciato sciolti i suoi capelli biondi e indossava un abito bianco immacolato che faceva risaltare il colore cangiante dei suoi occhi. Lei mi fissò per un attimo, rise e andò verso le sue amiche che erano dall’altro lato della sala.
    Sentii qualcuno prendermi il braccio e quando mi voltai lo sguardo di mio padre era fisso su di me.
    “Cerca di non far danni!” mi sussurrò all’orecchio.
    Sapevo cosa volesse dire, quindi gli feci un cenno con il capo.
    Pochi secondi dopo ero seduto sul divano da solo a guardarla. Cercavo di non fare in modo che se ne accorgesse, come facevo quando ero a scuola. Ma era difficile, perché non riuscivo proprio a staccarle gli occhi di dosso. Era come una calamita.
    Mi guardai attorno. Alla festa c’erano decine di invitati, sembravano tutti di un certo livello. Scorsi mio padre e mia madre parlare con alcuni di loro. Mio fratello era con alcuni amici e io volevo solo andarmene.
    Poco dopo la signora Jordan fece accomodare tutti nell’altra sala, dove sarebbe stata servita la cena. Era un salone altrettanto enorme, arredato per la festa con un albero di Natale pieno di lucine, al centro della sala. Sotto di esso tanti regali impacchettati. Era davvero sfarzoso, quasi rivoltante per me.
    Andai a sedermi accanto a mia madre e rimasi in silenzio.
    Della cena che fu servita non riuscii a mandare giù nulla, ero sicuro fosse ottima, ma io avevo lo stomaco chiuso.
    I miei pensieri erano tutti per la persona che stava seduta a qualche metro da me. Non riuscivo proprio a pensare ad altro.
    “E adesso... i regali!” sentii dire a qualcuno, e subito ci fu un via vai verso l’albero, la gente si scambiava i vari pacchetti con il sorriso stampato in faccia; erano felici come non mai e guardavo a loro con tristezza e forse anche con un pizzico di gelosia. Quanto avrei voluto essere come loro, con quell’entusiasmo attaccato addosso.
    Brusii e urlatine di compiacimento riempivano l’intera sala e me ne sentivo escluso, come se fossi stato in una stanza completamente diversa dalla loro e li sentissi da lì, le voci attutite da quel muro enorme. Un muro che, forse, avevo costruito da solo.
    Io non avevo mai ricevuto regali, né per Natale, né per il mio compleanno né per nessun’altra occasione.
    Anzi, a dirla tutta, dimenticavano che esistevo, specie quando era il giorno del mio compleanno. All’inizio mi faceva male, ma con il tempo avevo imparato a convivere con la cosa.
    Guardai i miei genitori scambiarsi dei regali, anche con mio fratello, poi spostai nuovamente il mio sguardo verso lei. Sembrava felice, aveva ricevuto una collana o un bracciale, era davvero felice.
    “Oh cavoli! Scusaci Lu... abbiamo dimenticato di prendere il tuo regalo!” disse mia madre con un falso dispiacere.
    Io per tutta risposta scrollai le spalle e restai in silenzio. Non mi importava nulla di ricevere regali, l’unica cosa che volevo davvero non l’avrei avuta mai, quindi mi rassegnai.
    “Papà! Grazie mille! Sono felicissimo.” Quasi urlò mio fratello stringendo delle chiavi nelle mani.
    “Te lo meriti Nathan! Tu si che sei degno di essere mio figlio.” Disse mio padre marcando la parola figlio.
    Mio padre aveva regalato a Nathan un’auto nuova, e a me l’unica cosa che regalava erano le cicatrici sul corpo.
    Mi alzai istintivamente dal mio posto e andai verso il giardino. Avevo bisogno di prendere una boccata d’aria.
    Mi sentivo morto. Forse per riuscire a vivere un altro po’ avrei dovuto inventarmi un mondo roseo. Ma non era per niente facile.
    Camminai per un po’ verso il viale centrale adornato di statue marmoree e mi sedetti vicino una fontana che faceva strani giochi d’acqua.
    Da lì si riusciva a vedere la sala agghindata e persino le luci colorate. Si riusciva a sentire il brusio di voci, la musica, le risate in compagnia.
    Che destino di merda – pensai. Ma d'altronde cosa mi aspettavo? Era soltanto un altro fottuto Natale. Una festa bugiarda, dove le persone fingono di essere buone.
    Alzai la testa verso il cielo, e un brivido mi corse lungo la schiena. Sentivo il freddo glaciale, quello che mi impediva anche di respirare.
    Dopo alcuni secondi di smarrimento totale decisi di tornare dentro. Quando entrai nulla si era mosso, come se il tempo si fosse fermato.
    Raggiunsi in pochi passi mia madre che mi guardò severa.
    “Saresti dovuto rimanere, tuo padre è furioso!” mi disse.
    Passai la mano sui miei capelli scompigliandoli un po’ quindi cercai con gli occhi mio padre. Dovevo chiedergli scusa. Quando lo trovai mi avviai verso di lui. C’era anche il padre di Blaze con lui. Stavano discutendo di lavoro, ne ero certo. Convenni che era meglio ritardare le mie scuse per evitare di incappare in un'altra figuraccia quindi mi voltai e andai a sbattere con quello che sembrava il corpo di una donna. Blaze.
    “Scusa.” Riuscii soltanto a dire. Ero pietrificato.
    Lei sorrise senza ironia e io riuscii con fatica a spostarmi.
    “Non voglio più incrociare i tuoi passi, stammi alla larga.” Mi sussurrò.
    Poi se ne andò lasciando il suo profumo e la sensazione di fiele sulla gola.

    Non immaginavo quella sua reazione, mi fece davvero male, più dei colpi inflitti da mio padre quella stessa sera.
    Avevo perso ogni speranza.
    A breve sarebbe ricominciata anche la scuola, le vacanze erano finite e io non sapevo che farne della mia vita.
    Mi sentivo perso e solo, avevo tanta voglia di piangere ma non ci riuscivo più, era come se d’un tratto avessi finito le lacrime. E questo non era un bene. Se non avevo più lacrime come sarei riuscito a sfogare tutto ciò che avevo dentro? Non mi restava che stare in silenzio nel mio angolino al buio e aspettare che prima o poi finisse tutto.

    L’inizio del nuovo anno non promise nulla di buono, per l’ennesima volta ero stato picchiato da mio padre per non essere stato veloce a stirargli la camicia. Silenziosamente pregavo. Non che credevo in Dio, avevo smesso di crederci quando anche lui mi aveva abbandonato, però pregavo perché qualcuno prima o poi mi tirasse fuori di lì, come una sorta di liberazione dalle tenebre.
    Ogni giorno che passava era sempre più difficile respirare, ogni giorno che passava mi sentivo sempre più morto.
    Avevo persino smesso di scrivere, neanche quello mi aiutava più. Era come se fossi caduto in un baratro buio e non riuscissi più a liberarmene, ormai c’era solo dolore. Un tempo sarei riuscito a controllarlo, ma in quell’istante non c’era nulla che potesse aiutarmi a uscire dal baratro.
    Mi sentivo insignificante, più il tempo passava, più le ferite sembravano non volessero guarire, ero in un oblio senza l’anima. Stavo annegando nel mio dolore e sembrava non ci fosse più tregua.
    Gli incubi mi tormentavano, ogni volta che chiudevo gli occhi morivo, mi distruggevo silenziosamente.
    Io amavo Blaze, per lei sarei stato disposto tutto, le avrei donato il mio ultimo respiro, avrei venduto la mia anima se fosse stato necessario, ma a lei non sarebbe importato. Ora lo sapevo, ora ne ero cosciente.
    Il mondo che mi ero creato con lei nei miei sogni ora si era frantumato in tanti piccoli pezzi taglienti, e anche se solo cercavo di toccarli per rimetterli al loro posto, mi ferivo e sanguinavo... riprendevo a morire.
    Non c’era nient’altro da fare, avrei dovuto dimenticarla. Ma non ci riuscivo. Dovevo vivere di lei, dovevo sentire battere il suo cuore nel mio, per poter continuare a respirare. E se cercavo di non pensare a lei, il suo viso tornava nitido nei momenti meno aspettati. Avevo bisogno di lei per sopravvivere. E anche se non avrei mai potuto averla, il mio cuore sarebbe rimasto per sempre intrappolato nei suoi occhi.
    Lei sola era la vita in mezzo alla mia morte. Senza di Blaze era una vita a metà, una vita che avrei chiamato bugia per sempre. Era l’amore che provavo per lei che mi teneva in vita.
    Se fossi morto non avrei potuto più vederla, amarla, e non avrei potuto sopportarlo, quindi optai per vivere una vita a metà.

    Sentii trillare la sveglia, ma io ero già sveglio da un pezzo. Non avevo dormito neanche quella notte, avevo paura di dormire, gli incubi mi tormentavano.
    In poco tempo fui pronto, mi misi lo zaino sulla spalla e scesi di sotto, pronto ad andarmene.
    “Lu... ” mi chiamò mia madre.
    Io non risposi, ma ascoltai.
    “Stasera non ci siamo, i Jordan hanno invitato me e tuo padre per una cena di lavoro. Mi raccomando, quando torni pulisci, prepara la cena a tuo fratello e vai a fare la spesa, quando torniamo deve essere tutto in ordine!”
    La mia risposta fu un cenno. Poi uscii.
    Arrivato a scuola, mi resi conto che era presto, c’erano poche persone. Meglio, non sopportavo la confusione.
    Entrato nella mia aula, andai a sedermi al mio posto, e con aria malinconica e stanca mi misi a guardare fuori dalla finestra, pensando a lei.
    Mi resi conto di quanto fossi patetico e cercai di pensare a qualcosa di più felice... si, ma cosa? Non mi ricordavo nulla di felice, e questo mi rese ancora più triste.

    Edited by •GABRIEL• - 8/2/2013, 01:16
     
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    Sorpresina:

    :woot: Leggo subito! *-*
     
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    Avrei alcune cose da segnalarti:
    CITAZIONE
    Cercavo di non fare in modo che se ne accorgesse, come facevo quando ero a scuola.

    Credo che suonerebbe meglio così:
    CITAZIONE
    Cercavo di non fare in modo che non se ne accorgesse, come facevo quando ero a scuola.

    CITAZIONE
    Silenziosamente pregavo. Non che credevo in Dio,

    Ti suggerisco una di queste due forme:
    - non credevo in Dio;
    - non che credessi in Dio.

    CITAZIONE
    quando torni pulisci, prepara la cena a tuo fratello e vai a fare la spesa, quando torniamo deve essere tutto in ordine!”

    Cambierei l'ordine di queste azioni, nell'ordine in cui il protagonista presumibilmente le eseguirà, ovvero preparare la cena dovrebbe essere l'ultima azione, suppongo.

    CITAZIONE
    si, ma cosa? Non mi ricordavo nulla di felice, e questo mi rese ancora più triste.

    Manca l'accento.

    Per il resto, passando ai fatti... L'inizio del secondo capitolo mi lascia pensare a quali potrebbero essere i successivi sviluppi. Al momento non ho le idee molto chiare, ma ho l'impressione che Blaze non sia una cattiva persona, probabilmente gli ha dato quella risposta perché è un po' scontrosa, ma che in realtà non avesse intenzione né di offenderlo né di ferirlo...
    Questa, almeno, è l'impressione che ho avuto. ^^

    Sono felicissima che tu abbia scelto di andare avanti!
     
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    Grazie dei consigli... li ho subito messi all'opera!

    Beh, io non svelo nulla... comunque si Blaze non è cattiva, questo posso dirlo.
     
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    Di nulla. ^^
    Almeno su una cosa ho fatto centro! :D
     
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  13. •GABRIEL•
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    CITAZIONE (»Milù Sunshine» @ 15/1/2013, 00:52) 
    Di nulla. ^^
    Almeno su una cosa ho fatto centro! :D

    Ovvio sei il capitan congettura! :xD:
     
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    Ovvio sei il capitan congettura!

    E Claudia dove la metti? :P
     
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  15. •GABRIEL•
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    CITAZIONE (»Milù Sunshine» @ 15/1/2013, 01:37) 
    CITAZIONE
    Ovvio sei il capitan congettura!

    E Claudia dove la metti? :P

    Claudia è il vicecapitano! :ombrell:
     
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