DREAMLAND

I sogni fanno male. E tu sei masochista che continui a sognare.

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    Stupendo il connubio tra dolcezza e sensualità, tra insicurezza e audacia. La protagonista sembra capace di passare dal ruolo di preda a quello di predatore con una naturalezza disarmante. Il finale è triste, come nelle parti precedenti, ma lascia anche intravedere una piccola luce; è il ritratto di un dolore che fa ancora male, ma che sta guarendo. Mi è piaciuta molto anche la poesia all'inizio del brano.
     
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    Grazie del commento. È molto... riassuntivo del tutto.
    Speriamo che la luce in fondo al tunnel sia una cosa positiva, di solito consigliano di non seguire la luce :D
    Sono contenta ti sia piaciuto
     
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    Mi hai fregata di nuovo! Nonostante il titolo e nonostante il primo post, anche stavolta soltanto all'ultimo ho capito che era un sogno!
     
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    😂lieta di sentirtelo dire Milly 😂
    Perdona se te lo chiedo, hai letto anche la seconda parte?🙈 Perché non hai commentato,ma ci tengo al tuo parere 🙈
     
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    Dopo avere letto la terza parte, perché mi era sfuggita. :lol:
    Anche quella mi è piaciuta e l'ho trovata coinvolgente, anche se tuttavia ho preferito la prima e la terza.
     
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    Grazie^.^
    Eh, qui gioca il fattore sorpresa 😂 chissà se funzionerà una terza volta 🤔😂
     
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    Sento uno scricchiolio d'ossa
    O forse è solo la pioggia
    Che batte sui vetri dell'anima
    Da troppe emozioni percossa.

    Camminavo sotto il cielo, plumbeo come me. Non avevo un ombrello, ma non mi importava; se mi fossi bagnata almeno anche il mio corpo sarebbe stato fradicio come la mia anima.
    Un temporale primaverile.
    La mia anima era in fiore, ma percossa dalla tempesta. E, piena di lividi, arrancava nel mondo.
    Non mi importava più di niente, ero grigia come il cielo, in netto contrasto con i miei abiti variopinti dalla foggia stravagante, che spesso mi guadagnarono il titolo di "strega".
    La mia mente vagava, sospinta dal vento dell'acquazzone imminente.
    Tra tutte le cose che affollavano la mia testa, mi soffermai maggiormente su un quesito particolare.
    Quello strano sentimento che, da qualche mese ormai, provavo per una persona che quando la incontrai neanche mi sfiorò l'idea di farmela amica, figurarsi amarla.
    Non sapevo descrivere questo strano sentire. Sapevo giusto che mi faceva ridere come una bambina e al contempo poteva demolirmi con una carezza.
    Ricordai la confusione iniziale, quella paura che accompagnava il solo avvicinarsi a quel pensiero, quel timore a completare la frase nella mia mente. E quella curiosità un poco infantile nell'avvicinarsi in punta di piedi al termine del concetto, così spaventoso e al contempo ipnotico come una sirena, come un miraggio.
    E mano a mano, la situazione intera si fece più ammaliante, più intrigante.
    Iniziai a rivedere con l'occhio della mente la sua figura semiaddormentata, mentre cercavamo di prender sonno a capodanno. Ricordai di averne ammirato la perfezione, che aveva colpito come uno schiaffo, senza preavviso, il mio animo esteta. Tutto iniziò lì, col suo volto disteso e rilassato. Con quel pensiero ricorrente che mi stupì, ma, nonostante ciò, mi fu impossibile fermare. Quel pensiero che continuava a ripetermi quanto quella bellezza fosse come disegnata, quanto fosse divina.
    Impiegai insolitamente un lunghissimo tempo per addormentarmi, alternandomi a fissare il soffitto e poi di nuovo il suo profilo.
    Persi il numero dei sospiri che trassi, un po' per calmare la mia mente galoppante e un po' perché ero ancora rapita da tutta quella meraviglia.
    Convissi con quel pensiero ricorrente per alcuni giorni. Continuava a sbucare nei momenti meno opportuni, negli attimi di tranquillità e in quei secondi di nero vagare che precedono il sonno. Faceva capolino, da dietro gli angoli nei quali lo avevo cacciato, riproponendomi la grazia della sua figura addormentata.
    Un giorno si lasciò sfuggire che mi aveva pensata, di quando in quando, in modi poco convenzionali; ne fui molto lusingata. E, in quel momento, quel piccolo pensiero reietto si considerò autorizzato a piantare radici nel bel mezzo del mio cervello. E quel pensiero crebbe, avviluppando la mia fantasia come tralci d'edera.
    La mia curiosità crebbe di giorno in giorno e ormai non temevo più di completare il pensiero.
    Mi stavo innamorando?
    Inizialmente non ci credevo. Pensavo fosse più una voglia di conoscere, di fare esperienze nuove.
    La presi come un gioco, nel quale ero sia gatto che topo. Anche se, devo ammettere, inizialmente erano più le volte che ero gatto, e il gatto era davvero sensuale. Fin troppo. Così, divenne un filo spiacevole, non per me ovvio, io ero completamente a mio agio, come in una seconda pelle, in quelle movenze melliflue e calibrate.
    Quando notai che trovava il gatto imbarazzante, dovetti rinchiuderlo in gabbia. È ancora lì, che se ti avvicini graffia perché vuole uscire, in fondo lo capisco, non è fatto per stare in gabbia, ma per vagare e conquistare.
    Ecco, questo mio passo indietro mi fece notare un aspetto interessante di tutta la faccenda.
    Se si fosse trattato ancora di un gioco, non mi sarebbe importato. Invece mi importava. Mi importava eccome. Non volevo risultare imbarazzante o invadente. Non volevo certo perdere la sua amicizia, che negli ultimi anni si era fatta sempre più salda.
    Mi posi di nuovo la fatidica domanda.
    Mi stavo innamorando?
    Mi risposi di no. No, non mi stavo innamorando. Perché ero già cotta.
    Tutto nacque come un gioco, una curiosità infantile. E si tramutò, senza che me ne rendessi conto, senza che potessi farci niente, senza che potessi impedirlo, in qualcosa di simile ad amare.
    Ma ora che avevo compreso e accettato la realtà, non potevo fare altro che sopprimerla. Era necessario.
    Non fu facile. Affatto.
    Spesso il gatto riusciva ad evadere, facendomi poi sentire in colpa.
    Spesso il topolino si lasciava coccolare. Fin troppo. Fino a diventare dipendente. Smaniava quel contatto, divino inizialmente, ma che poi si faceva fonte di terribile depressione. Perché quel contatto non combaciava con i significati che il topo vi attribuiva.
    Da parte sua, di quest'essere meraviglioso, non c'era alcun desiderio, ma solo la voglia di sottrarsi a questa situazione.
    Non ero ben'accetta, me lo disse chiaramente. Eppure queste parole non bastarono ad estirpare l'edera che ormai aveva avviluppato ogni anfratto della mia mente.
    Eppure, altri suoi comportamenti lasciavano presagire il contrario.
    Ero bella, e lo sapevo, ma quando me lo diceva, sfuggito per sbaglio dalla sua bocca, sapevo lo pensava davvero. E il fatto di piacergli mi riempiva l'animo, concimava la mia edera.
    Eppure, di nuovo, non ero ben'accetta.
    Non lo sarei mai stata.
    Avrei dovuto rassegnarmi.
    Ma non sono esattamente il tipo che si rassegna così facilmente. E, anche se avessi voluto rassegnarmi, non sarebbe stato facile estirpare tutti quei rampicanti che nel mio cervello sussurravano il suo nome.
    Non sarebbe stato facile, soprattutto perché questi suoi comportamenti ambivalenti non terminarono e un po' me ne nutrivo e un po' fungevano da diserbante.
    Quando provai ad estirpare l'edera, dove aveva messo radici, inizialmente sembrò funzionare. Ma solo perché non ci incontrammo per quasi tre settimane. Quando uscimmo di nuovo, quando rividi quella bellezza cesellata, il mio animo esteta tornò a mormorarmi cose all'orecchio e una nuova edera prese il posto di quella vecchia.
    Soffrii molto, come non credevo possibile. Soffrii come quando un nostro caro viene a mancare, perché di questo si trattava: un lutto. Ero costretta ad assassinare il mio sentire.
    Devo dire, che non sarebbe stato così problematico, se non si fossero aggiunti i sogni. Sogni che mi rendevano felice, che mi fecero capire quanto effettivamente mi fossi innamorata contro tutte le mie aspettative. Sogni che appena sveglia mi colpivano come una scure, in pieno petto, impedendomi di respirare. Sogni che mi fecero piangere. Sogni che rappresentavano speranze. Sogni impossibili da realizzare.
    Sogni, che per quanto dolorosi, smaniavo di avere. Erano le nostre notti rubate alle stelle, erano tutto ciò che non potevo avere, ma che, in quegli attimi di REM, erano tutto per me.
    Sogni che continuavano ad occhi aperti. Sognavo prima di addormentarmi, sognavo un bacio, sognavo il contatto. Sognavo ogni volta che ci incontravamo, ogni volta che i nostri gesti superavano appena quella linea invisibile che demarca l'amicizia dall'amore.
    Una goccia cadde sulla mia guancia. Iniziava a piovere. E la pioggia si mescolò alle mie lacrime.
    Continuai a camminare. Non sapevo quale fosse la mia meta. Non era importante. Ciò che importava era camminare, come se fosse bastato a portarmi via da quei pensieri.
    Il vento rinforzò e la pioggia iniziò a battere più forte. L'odore dell'asfalto bagnato e bollente mi colpì le narici.
    Continuai a camminare. La mia meta? La bellezza. Ed era tutta in quella persona, irraggiungibile e bellissima.
    Provai più volte ad estirpare l'edera, addirittura a bruciarla. Ma ogni volta ritornava, sorgendo dalle ceneri ancora più forte.
    Ancora la sua bellezza mi tormentava, impedendo alla ferita di richiudersi. Ma in fondo, non mi dispiaceva. C'era un lato positivo in tutta questa sofferenza.
    Ci sguazzai nella sofferenza e ci pescai parole che poi misi in fila. Giocai col dolore come il dolore giocava con me.
    I miei vestiti iniziarono ad inzupparsi.
    Il vento scemò e la pioggia batté in verticale. Col vento che si era ritirato, le nuvole vinsero la battaglia e quelle più basse si fecero foschia.
    Vagai ancora un po', nel bianco latte che pareva avere una luce propria, godendo del fatto che ora la mia anima e il mio corpo erano entrambi fradici. L'unica differenza era che il mio corpo era stato bagnato dalla pioggia, invece il mio spirito era annegato nelle sue stesse lacrime.
    Piano piano, anche la pioggia si fece più lieve. La nebbia si fece più compatta e mi ritrovai circondata dal bianco.
    Dove mi trovavo?
    Non seppi rispondere alla mia domanda.
    Mi guardai intorno, nel nulla.
    Lasciai uscire un urlo di dolore e caddi in frantumi.
    Mi domandai perché mai non fossi la benvenuta. Perché?
    Ma i frammenti di vetro non parlano.

    Qualcosa non va in me
    Che cos'è?
    Se fossi perfetta
    Non sarei qui sola
    A chiedermi perché
    Non vado bene per te.
     
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    Questo testo mi è parso più curato degli altri, scritto meglio. Non che gli altri fossero scritti male, sia chiaro, ma quest'ultimo ha davvero una splendida forma. Le riflessioni della protagonista s'intersecano alla perfezione con la scena di lei che cammina senza una meta. Il testo evoca piccoli momenti di dolcezza, che sembrano però perdersi in una profonda tristezza che accompagna tutto il brano.
    Le descrizioni della persona amata dalla protagonista sono esagerate, surreali, e in qualche modo mi lasciano intendere che l'aspetto di questa persona venga distorto dai sentimenti della protagonista stessa.
     
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    Sì, in effetti mi sono impegnata molto per questo testo. Proprio per rendere al meglio la coincidenza tra realtà e pensieri, tra il paesaggio e le digressioni.
    QUOTE
    Le descrizioni della persona amata dalla protagonista sono esagerate, surreali, e in qualche modo mi lasciano intendere che l'aspetto di questa persona venga distorto dai sentimenti della protagonista stessa.

    Ho volutamente esagerato un poco questo aspetto. Penso che in ogni innamoramento si tenda ad idealizzare l'altro. Anche se, ciò non vuol dire che sia troppo esagerato: ci terrei a sottolineare l'animo esteta della protagonista che in quanto tale è una cultrice del bello.
     
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    È evidente come ci sia stato un netto miglioramento rispetto al pezzo precedente. Personalmente, non ho molto apprezzato tanta enfatizzazione sull'innamorarsi. Ma è solo una mia personale opinione.

    Per il resto va bene :D
     
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    Grazie per l'opinione Aster! :D
     
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    Anche i sogni hanno una fine.

    Una bambola di vetro
    Ci puoi guardare attraverso
    Rendendo la realtà più vera
    Fragile che puoi ucciderla
    Che una carezza la incrina
    Bellezza abbagliante
    Nulla la può opacizzare
    Sarà rotta
    Ma ancora brillante.

    Misi assieme i pezzi di vetro con un po' di colla, alla bell'e meglio. Mi dissero che il kintsugi abbellisce le cose, così decisi di non fondere il vetro, ma di ricostruire come possibile la mia forma di cristallo.
    Mi guardai allo specchio.
    Rotta, piena di cicatrici, ma ancora lucente.
    Sospirai.
    Non sembrava così male, dopo tutto. Anche se le mie membra ancora tremavano per il dolore delle cuciture.
    Cucii addirittura il mio subconscio. Non sarebbe più uscito così insistentemente. Alla fine, avevo vinto io. Come sempre. In fondo, tutte le bestie si possono domare, se si ha la giusta mano ferma.
    Ripresi la mia vita come nulla fosse, calandomi nella monotona routine. Fredda come un robot. Buffo, come una volta mi dedicarono, con molta poca fantasia, una canzone che tipicamente i ragazzi dedicano alla loro morosa; però in una cosa diceva il vero: "forse perché non sei quel freddo robot che noi tutti pensavamo tu fossi".
    Eppure per quanto fredda potessi essere o sembrare, robot o cristallo che si voglia, ancora non mi guardavo allo specchio.
    Ho sempre amato le cicatrici, penso siano storie. Ogni cicatrice corrisponde ad una storia e io amo le storie. Se si vuole davvero conoscere una persona, è meglio chiedergli di raccontare come si è procurata le cicatrici che ha.
    Ma per quanto amassi le cicatrici, non riuscivo ad apprezzare le mie. Non quelle.
    Avrei dovuto fondere il vetro e darmi una forma nuova. Ormai quella iniziava a starmi stretta. Iniziava ad essere vecchia.
    Però, i miei frammenti, così pieni di colla, non potevano essere fusi. Sarebbero stati uccisi dai fumi tossici del mastice.
    Alla fine, coprii lo specchio enorme che adornava una delle pareti della mia camera con un vecchio lenzuolo impolverato.
    Vidi dentro me una bambina impaurita, ma al contempo consapevole dei misteri del mondo a me ancora sconosciuti. Mi sarebbe piaciuto imparare da lei, mi sarebbe piaciuto coccolarla e rassicurarla. Ma il collante che avevo applicato alle porte del mio subconscio era troppo forte, così non riuscii a raggiungerla. Potevo solo guardarla e provare pena per me stessa.
    Vidi fuori dalla finestra un sole accecante, che si infranse sulla mia superficie cristallina. La luce venne rifatta, come al solito, ma l'arcobaleno che ne uscì non fu bello come al solito. Fu più opaco.
    La monotonia della vita mi aveva opacizzata. Mi ero rinchiusa in una gabbia dorata, mi ero impedita di vivere mille avventure, soltanto per non soffrire.
    Cercai di scollare il portone che conduceva nelle profondità della coscienza, dove non arriva la luce del senno.
    Grattai, tirai e scaldai il mastice. Senza risultato.
    Sfinita, mi sedetti di peso, sbattendo la schiena contro il legno di betulla, che da bianco si era ingrigito, e l'uscio si spalancò, facendomi catapultare nell'oscurità dell'inconscio.
    Vidi la regina, la montanara, la pirata, la sguattera e la bambina. Mi fissavano. E io fissai loro.
    Eravamo come in cerchio. Non c'era né inizio né fine. Eravamo un tutt'uno. Eravamo noi. Ogni singola parte di me, col suo preciso punto nella matrix universale. Tutte tese, più o meno consapevolmente, più o meno in grado, verso il Nirvana, la pace dei sensi, l'assenza di dolore.
    Amavo la vita, ma questo non era vivere. Nella mia condizione, era più sopravvivere che vivere. Inaccettabile.
    Mi ero troppo opacizzata per poter vivere. Me lo aveva fatto capire, come in un'epifania, quel piccolo arcobaleno.
    Corsi in camera. Tirai un lembo del lenzuolo e scoprii lo specchio.
    Il mio riflesso mi ferì lo sguardo, mi schermai il volto. Con non poco timore, sbirciai nuovamente la figura nello specchio.
    Ero davvero io?
    Com'era possibile?
    Come potevo essermi ridotta così?
    E, come un Dorian Gray, non riconobbi me stessa per ciò che ero diventata.
    L'ira montò dentro di me. Lottai contro essa, ma ero troppo debole e presto prese il sopravvento.
    La rabbia guidò il mio pugno verso lo specchio e un rumore di vetri infranti lo accompagnò subito dopo.
    Mi guardai le nocche, sanguinanti. Poco male: cosa vuoi che sia, una cicatrice in più?
    Lo sguardo mi cadde a terra. Lo specchio era rotto, ma ancora mi rifletteva. O meglio, ancora rifletteva una figura che pretendeva di essere me. Una figura che aveva preteso, invano, di vivere di illusioni.
    Non potevo essere io. Io, così corretta, così vera. No. Non potevo, non dovevo, essere io.
    Ancora una volta il sole attraversò le mie membra. Questo volta non si formò nessun arcobaleno.
    Mi ero rovinata con un'ultima illusione: ero io. Ero io eccome, quella riflessa nello specchio.
    Attraversai nuovamente le porte del subconscio. Le quattro donne erano ancora lì, con la bambina.
    Mi unii nuovamente a loro, con lo sguardo basso, conscia del loro, pieno di giudizio, su di me.
    Stavamo tutte pensando la stessa cosa: che vita era, quella?
    Guardai singolarmente ognuna delle astanti. Donne forti dalla vita piena. Chi ero io, se non una loro mera ombra? Chi ero io al loro cospetto, chi ero se non nessuno?
    Con delle grandi storie come le loro, mai avrei potuto eguagliarle. Non sarei mai stata all'altezza. Sarebbe stato meglio uscire di scena, in grande stile, invece che guardare continuamente al passato e vivere di ricordi, che poi vivere non era.
    Si vive meglio da ignoranti. Si vive meglio con un'amnesia. Non mi fu dato il dono, purtroppo, di nessuna delle due condizioni.
    Ero troppo rotta per continuare.
    Guardai ancora una volta il mio riflesso nei frammenti di specchio. Il mio riflesso. Sì. Mio.
    Guardai ciò che ero diventata.
    Scossi la testa, rassegnata. Non c'era più nulla da aggiustare, nulla da rendere più bello. Non si può aggiustare e abbellire ciò che è ormai una cicatrice unica.
    Non avevo più nulla da dare, nulla che mi mandasse avanti.
    Un'altra epifania giunse, come un lampo, nelle tenebre della notte del mio io. E tutto fu chiaro.
    Guardai le regina e quella annuì, incoraggiante.
    Ero in pezzi, inabile a vivere, tenuta insieme da illusioni opache e scomode. Non ero più la bambola di vetro di un tempo. Ero solo un ammasso di cristallo, spento e vuoto.
    Questa non era vita. Io amavo la vita, così decisi di guardare a quella futura. Mentre mi avviavo, iniziai a sognare di ciò che sarei stata. Ma meglio non farsi troppe aspettative, in fondo io adoro le sorprese e questa sarebbe stata meravigliosa.
    Aprii la finestra e saltai.
    Il mio corpo giacque, in frantumi come la mia anima.

    Morta per amore
    Morta per orgoglio
    Morta per non pensare
    Morta per continuare a sognare.
     
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    Ci sono rimasta molto male, perchè il racconto ha smentito completamente la poesia iniziale che, a proposito, mi piace molto. In ogni caso, il rifiuto della protagonista verso sè stessa, o meglio verso ciò che è diventata, è molto ben rappresentato e rende davvero facile immedesimarcisi. Credo comunque che la protagonista avrebbe dovuto tenere testa alle altre "sè stessa", anzichè lasciarsene sopraffare.
     
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    il racconto ha smentito completamente la poesia iniziale

    Oh sì, adoro i paradossi!

    Sono contenta che sia così facile immedesimarsi, non è stato facile scrivere in modo così impersonale e al contempo profondo.
    Per quanto riguarda ciò che tu dici essere "sopraffatta dalle altre sé stessa", mi spiace sia passata così. Non è un esserne sopraffatta, per quel che ho pensato, dato che sono di fatto la stessa coscienza; è più una scelta comune, se così si può dire. O forse tu intendi il fatto di sentirsi inferiore?
     
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    come al solito, ma l'arcobaleno che ne uscì non fu bello come al solito.

    Ah, mi ero dimenticata di segnalare che qui c'è una ripetizione poco gradevole.
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    O forse tu intendi il fatto di sentirsi inferiore?

    Sì, esatto. Sembra più che le altre la plagino, spingendola a fare quella scelta.
     
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