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Capitolo 17
Ashya si portò una mano al collo e percorse con le dita la pelle rovinata. Fece ciondolare il capo a destra e a sinistra, godendosi la sensazione di sollievo. -Di quelli cosa vuoi farne?- domandò al fabbro, mentre lo osservava avvolgere i due pezzi di ferro dentro uno straccio bianco, per poi riporli in una cassapanca lì vicino. L’uomo era alto e robusto, senza barba né capelli. -Sono ancora buoni.- gli rispose quello, passandosi una mano sulla faccia nel tentativo di pulirla dalla fuliggine. Il ragazzo corrugò la fronte, immaginando il suo collare chiudersi attorno al collo di un altro schiavo; quell’idea gli causò un senso di malessere. Per un momento, pensò di domandare all’uomo se avesse potuto avere le due lamine gemelle, ma sarebbe certamente parsa una richiesta strana e fuori luogo. Il fabbro era già rimasto abbastanza sorpreso quando, una mezzora prima, Ashya si era presentato da lui per farsi togliere il collare, vestito dei colori del sovrano. Mentre si allontanava dalla forgia, il ragazzo sentì le proprie forze venire meno; le sue gambe tremarono, minacciando di cedere, e lui fu costretto ad appoggiarsi ad una colonna per impedirsi di rovinare a terra. Il suo stomaco emise un gorgoglio sordo, come il lamento di un animale ferito. Mangiare. Sì, prima di tutto doveva mangiare qualcosa. Con un grugnito, il giovane si rimise diritto. Attese un momento, accertandosi di riuscire a rimanere in piedi, poi si avviò verso le cucine. In quel momento i Bianchi dovevano essere impegnati a preparare la cena per l'intero palazzo e lui sperava di poter approfittare della confusione per racimolare qualcosa. Dopo averci riflettuto per un momento, ridacchiò di sé stesso: come servo personale del principe, probabilmente, non avrebbe avuto bisogno di far ricorso a trucchetti e sotterfugi. Il sole, a quell’ora del pomeriggio, iniziava a scivolare e nascondersi oltre le torri e le cupole del palazzo, lasciando all’ombra gli splendidi cortili. L’aria era piacevolmente fresca e molti cortigiani avevano lasciato i loro appartamenti per poterne godere. Ashya, abituato a passare inosservato, si accorse subito di avere troppi sguardi addosso. Iniziò ad avanzare più spedito, tenendo gli occhi incollati alle piastrelle del pavimento, ma quando un uomo vestito di rosso gli si parò davanti, fu chiaro che non sarebbe riuscito a raggiungere le cucine tanto facilmente. -Uh! è bruttino come dicono.- Il ragazzo sollevò lo sguardo. E poi fu costretto a sollevarlo ancora, poiché la persona che aveva davanti era veramente alta. Aveva ampie spalle, una pancia prominente e una testa così grande che avrebbe potuto usarla come ariete. Il suo volto era quasi interamente sepolto sotto la barba, ma ne spuntavano un grosso naso e due piccoli occhi divertiti. Il valletto del nobile Barraq, alle spalle del suo padrone, ridacchiò. -A vederlo sembra un semplice moccioso.- continuò il cortigiano mentre si frugava la folta barba scura, come se non riuscisse più a trovare il proprio mento -Sei sicuro si tratti di lui?- -Non ci sono dubbi, padrone.- gli rispose prontamente l'altro -L'ho visto io stesso mentre entrava negli appartamenti reali.- -Mh.- mugugnò l'uomo, continuando a tormentarsi la barba. Ashya iniziava a sentirsi a disagio, oltre che affamato, così rivolse ad entrambi un educato cenno del capo e tentò di defilarsi. Non ebbe grande fortuna: una grossa mano gli piombò sulla spalla come un rapace, bloccandolo sul posto. Lui tentò di divincolarsi, ma Barraq serrò la presa, costringendolo a soffocare un gemito di dolore. -Solleva un po' il mento, marmocchio.- gli ordinò l'uomo -Non riesco a vederti il muso.- Il ragazzo pensò di reagire, ma si accorse subito di non averne le forze; prese un respiro profondo e accondiscese al desiderio del cortigiano, mostrandogli il volto. Dopo un lungo momento il nobile sorrise soddisfatto, mostrando due file di denti bianchi come perle che rilucevano sotto la barba. -Sì, proprio bruttino.- ripeté. -Nobile Barraq.- chiamò qualcuno in quel momento, alle spalle di Ashya. L'uomo distolse lo sguardo da lui e il ragazzo, trovandosi improvvisamente libero dalla sua presa ferrea, si voltò per scoprire chi avesse parlato. In piedi nel corridoio un giovane li guardava; indossava una tunica verde e blu, simile in tutto e per tutto a quella di Ashya. Si avvicinò a loro di qualche passo, tenendo il mento alto e gli occhi fissi in quelli dell’uomo. -Melfari.- lo salutò Barraq, mal celando una smorfia. Gli occhi del nuovo arrivato scivolarono sul ragazzo, lo scrutarono il tempo di un istante e poi tornarono al viso del cortigiano. -C'è qualche problema, mio signore?- gli domandò, arricciando appena il naso. -No, no, nessun problema.- rispose l'uomo, con un largo sorriso -Io e il piccoletto stavamo solo facendo conversazione.- Appoggiò una mano sulla testa di Ashya e gli diede un paio di vigorose pacche, quasi stesse lodando un cane. Melfari annuì. -Mi duole interrompervi, allora, ma temo dovrete trovare qualcun altro che vi intrattenga.- Il ragazzo sentì le grosse dita del nobile Barraq affondare trai suoi capelli; temette che l’uomo avesse intenzione di schiacciargli la testa come se si fosse trattato di una noce, ma si sforzò di restare fermo e non reagire. Dopo un lungo istante di silenzio, il cortigiano sollevò la mano e rivolse al valletto un cenno del capo. -Naturalmente.- rispose affabile. L’altro sollevò il mento e sorrise. -Mio signore.- disse all’uomo, facendo un breve inchino -Vieni con me.- ordinò invece ad Ashya con voce gelida. Il ragazzo, in un primo momento, lo guardò smarrito, mentre quello si voltava e s’avviava spedito lungo il corridoio. Fu la voce del nobile Barraq a spronarlo. -Dovresti affrettarti,- gli disse -come un bravo cagnolino.- Il giovane lanciò un ultimo sguardo al cortigiano, che sorrideva divertito da sotto la barba, poi decise di seguire il suo suggerimento. Mentre si allontanava non riuscì a distinguere le parole dell’uomo, ma lo sentì ridere forte.
Melfari. Ashya ricordava di aver sentito diverse volte quel nome, lì a palazzo, sebbene non vi avesse mai prestato troppa attenzione. Ora, mentre lo seguiva, notò come il valletto fosse alto più o meno come lui. Pensò anche che quella fosse, probabilmente, l’unica cosa che avessero in comune. Il valletto aveva i capelli corti e riccioluti, di un castano chiaro, e indossava un fez blu con ricami dorati. Aveva un viso grazioso, seppur piuttosto comune, e una carnagione leggermente ambrata. Sarebbe potuto facilmente passare per il figlio di un qualche nobile. O per il suo giovane amante. Al contrario lui, anche con addosso quel caftano elegante, continuava a sembrare un figlio di nessuno, un ragazzino cresciuto tra sabbia e stenti. Sì, potevano anche avere la stessa statura e gli stessi abiti, ma Ashya e Melfari non avrebbero potuto essere più diversi. Il valletto si fermò all’improvviso e il ragazzo per poco non gli finì addosso. Fece un passo indietro quando l’altro si voltò a guardarlo. Si trovavano in un corridoio deserto; le torce non erano ancora state accese, ma presto i Bianchi se ne sarebbero occupati. Il giovane lo scrutò con occhio critico ed infine arricciò il naso. -Non sembri un dottore.- decretò. -Me lo dicono spesso.- ribattè lui. L’altro sembrò rifletterci sopra per un momento, poi alzò le spalle e cambiò discorso. -Cosa voleva il nobile Barraq?- gli domandò. -Non saprei.- rispose Ashya. A dire il vero era certo che il cortigiano non fosse interessato a lui, quanto invece al principe nascosto. Melfari rimase zitto per un momento, prima di annuire. -La prossima volta evita di dargli troppa confidenza.- lo rimproverò -Non sei tenuto a parlare con i nobili.- Il ragazzo sollevò le sopracciglia. -E se me lo ordinassero?- Il valletto lo guardò come se la domanda che gli aveva fatto fosse stata la più stupida a cui riusciva a pensare; sospirò e incrociò le braccia al petto. -Quelli che indossi sono i colori del sovrano e non di un qualunque nobile.- gli ricordò, indicando con un gesto della mano la tunica che il ragazzo indossava -Dovrai obbedire esclusivamente agli ordini del re e a quelli di sua Altezza, sono stato chiaro?- Ashya ne prese distrattamente nota, più concentrato sul proprio stomaco che si contorceva per la fame; tuttavia l’altro sembrava aspettarsi una qualche risposta, così si mise più dritto e si affrettò ad annuire. Vide Melfari sollevare un sopracciglio e temette che lo avrebbe trattenuto ancora più a lungo. -Bene.- concluse invece quello, pur non sembrando troppo convinto -E cerca di fare qualcosa per quei capelli. E per la faccia che c’è sotto. Sua Maestà odia tutto ciò che non è di bell’aspetto.- -Allora deve avere un pessimo rapporto con gli specchi.- si sentì dire il ragazzo, forse guidato da un impulso masochistico, o soltanto troppo affamato per riuscire a ragionare. L’altro sgranò gli occhi poi, dopo quel primo momento di stupore, arricciò il naso. -Hai appena fatto una battuta di spirito?- -Ci ho provato.- rispose Ashya. Il valletto rimase in silenzio ancora per qualche istante, lo sguardo tremendamente serio. -Beh, non farlo più.- disse infine, tornando a dargli le spalle. Il ragazzo aspettò che si fosse allontanato lungo i corridoi, scomparendo alla vista, e finalmente trasse un sospiro di sollievo. Si voltò e tornò a dirigersi verso le cucine.
Questa volta la fortuna accompagnò Ashya sino alla sua meta, impedendogli di fare altri spiacevoli incontri. Varcando la soglia delle cucine, il ragazzo si era aspettato un qualche genere di reazione. Certo, non credeva che tutti i presenti avrebbero interrotto le loro mansioni per guardarlo con occhi sgranati, ma si aspettava quantomeno degli sguardi fugaci, dei commenti sussurrati. Invece i Bianchi erano così indaffarati a cucinare che di lui non si accorsero nemmeno. L’aria era satura di odori deliziosi, come quello della carne cucinata e l’aroma delle spezie, e il ragazzo sentì la fame farsi più impellente. Allora si mosse a disagio tra i servi, quasi aspettandosi che da un momento all’altro qualcuno lo avrebbe rimproverato, ma ovviamente non accadde; così il giovane recuperò un paio di pagnotte da una cesta che ne era stracolma e un’arancia che stava su un vassoio di frutta. Fece per allontanarsi, poi ci ripensò e ne agguantò un’altra. Mangiò in gran fretta, appena fuori dalle cucine; il suo stomaco, vuoto da giorni, gorgogliò e si contrasse per il disappunto, ma affondare i denti nel pane caldo era una sensazione paradisiaca. Le arance, invece, non le mangiò. Le fece sparire tra le ampie pieghe del caftano, usò il dorso della mano per pulirsi il viso dalle briciole e si guardò attorno, da una lato all’altro del corridoio, cercando di decidere da che parte andare. In fin dei conti, si disse, non aveva importanza: prima o poi si sarebbe comunque imbattuto in qualcuno che sarebbe stato in grado di aiutarlo. Così si incamminò senza una meta precisa, lungo i corridoi invasi dal fermento delle attività serali. Pareva quasi che i vassoi volassero lungo i corridoi, mentre i servitori facevano del loro meglio per restarvi aggrappati. Mentre camminava, Ashya si rese conto che le altre persone si muovevano attorno a lui con l’impeto di un fiume che scorre, ma facevano attenzione a non urtarlo e a non intralciare il suo cammino. Era una sensazione nuova e un po’ disorientante. Non passò molto prima che il giovane incrociasse lo sguardo di un soldato reale, nella sua livrea verde e blu. L’uomo se ne stava di guardia accanto a una colonna e osservò il ragazzo avvicinarsi senza mostrare che un vago interesse; aveva un volto severo, segnato dal tempo, e Ashya ricordò vagamente di aver percorso insieme a lui le strade di Jaharra. -Qualcuno ha fatto carriera.- lo apostrofò la guardia, quando furono abbastanza vicini da poter sovrastare il tramestio del corridoio senza dover alzare troppo la voce -E anche piuttosto in fretta.- Il giovane decise di ignorare quelle parole e qualunque sotteso potessero nascondere. -Sto cercando Kveri.- affermò. L’altro digrignò i denti, nel sentire quel nome. -Beh, non lo troverai qui.- Quando il ragazzo corrugò la fronte l’uomo sbuffò, sollevò una mano e si grattò il petto, facendo tintinnare la maglia di ferro; concesse un lungo sguardo annoiato al viavai di servitori, poi tornò a guardare il proprio interlocutore. -Si è recato nella regione di Dassad a capo di un manipolo di soldati.- spiegò -Sembra che laggiù ci siano stati dei disordini. Una scaramuccia, nulla più- un angolo della sua bocca si piegò verso l’alto -ma in fin dei conti a che serve tenere un cane feroce, se ogni tanto non lo mandi in giro a mostrare le zanne?- Il soldato ridacchiò, grugnendo, ma il valletto non si sentì affatto di condividere la sua ilarità: anche mettendo da parte il fastidio per quel commento ingiurioso, quella che aveva appena ricevuto restava una pessima notizia. -Quando tornerà a palazzo?- si trovò a domandare. La guardia si strinse nella spalle. -Potrebbe essere questione di giorni, così come di settimane.- Ashya si portò una mano al mento, ponderando l’entità del problema. Era un contrattempo non indifferente, questo sì, ma non avrebbe sconvolto i suoi piani; li avrebbe soltanto rimandati. Avrebbe dovuto chiedere ai due di aspettare ancora, ma sembrava non esserci altra scelta. -Ti ringrazio.- disse al soldato, voltandogli le spalle.
Ashya si allontanò dal trambusto, cercando rifugio nella zona del palazzo che ospitava l’armeria; lì i corridoi erano più tranquilli, a quell’ora della sera. Infatti, eccetto alcune sporadiche sentinelle, il ragazzo non incontrò nessuno. Si avvicinò ad un arazzo decorato con un’ordinata composizione di forme geometriche e floreali; si assicurò che nessuno lo stesse guardando e scivolò velocemente dietro il drappo. L’oscurità della galleria lo accolse da subito come qualcosa di familiare e rassicurante e lui si lasciò sfuggire un sospiro. Iniziò a spostarsi con cautela, cercando di non rovinare il proprio caftano. Si diresse verso il Formicaio dove, ne era piuttosto sicuro, avrebbe trovato radunati gli schiavi. Erano passati solo pochi giorni dall’ultima volta che Ashya aveva percorso quei cunicoli, eppure aveva la sensazione che fosse passata una vita. Si domandò se Falangar ed Eo stessero bene, se avessero mangiato abbastanza, se il cibo avariato li avesse fatti stare male durante la sua assenza. Allungò il passo, riprendendo velocemente dimestichezza con le strette gallerie, impaziente di raggiungerli. Quando finalmente raggiunse l’ampia sala circolare, gli schiavi erano ancora lì. Molti, tra loro, si voltarono verso di lui, vagamente allarmati; tuttavia dovettero riconoscerlo, o semplicemente non gli diedero troppa importanza, perché tornarono presto al loro muto raccoglimento. Il ragazzo si guardò attorno ma, in un primo momento, non riuscì a trovarli. Gli passò per la mente l’irrazionale pensiero che Falangar ed Eo potessero trovarsi all’affumicatoio; che fossero rimasti là ad aspettarlo per giorni, fiduciosi di vederlo presto arrivare. A quel punto, però, notò due figure minute sollevarsi da terra e andargli incontro, facendosi strada tra gli uomini e le donne che affollavano il Formicaio. Ashya tirò un sospiro di sollievo. I due si fermarono a pochi passi da lui e lo scrutarono in silenzio. La ragazza aveva in volto un cipiglio persino più cupo del solito mentre Eo lo guardava diffidente, quasi stentasse a riconoscerlo. All’improvviso il valletto percepì la mancanza del proprio collare non più come un sollievo, ma come un tradimento; si sentì arrossire mentre Falangar squadrava il suo caftano, e dovette combattere l’impulso di nascondere il viso. -Dobbiamo parlare.- le disse sottovoce dopo aver lanciato uno sguardo al cancello, all’altro capo della sala, per assicurarsi che non ci fossero guardie in ascolto. Dopo un istante lei annuì e gli fece cenno di seguirla dentro uno dei cunicoli. Mentre obbediva, il ragazzo vide Eo correre appresso alla fanciulla e aggrapparsi alla sua logora tunica, come se avesse paura di essere lasciato indietro. -Chiederò aiuto a Kveri.- spiegò Ashya, una volta che i tre furono al sicuro nelle tenebre -Lui vi farà fuggire dal castello.- Falangar sollevò le sopracciglia e dischiuse le labbra. Portò una mano sulla schiena del bambino. -Il primo cavaliere?- recitò il piccolo -Perché il primo cavaliere dovrebbe aiutarci?- -Lo farà.- sentenziò il giovane -Lasciò il deserto per cercare la principessa Shaknaari. Quando gli parlerò di te e di Eo, vi aiuterà senza dubbio.- Se prima la schiava era sembrata sorpresa, ora era a dir poco allibita. Allungò le mani verso il valletto, e quando lui gli porse la sua iniziò a tracciarvi sopra delle parole. “È suo padre?” Ashya deglutì e lanciò un’occhiata al piccolo schiavo, che se ne stava ancora aggrappato alle vesti della giovane. -Credo di sì.- rispose, tornando a guardare lei. E fu allora che, per la prima volta, vide il viso di Falangar illuminarsi un poco. Un flebile spiraglio, qualcosa di molto simile alla felicità. E forse alla speranza. All’improvviso, al ragazzo parve che il volto della schiava fosse il più bello che avesse mai visto. Lei tracciò svelta alcune parole sulla schiena del bambino e anche gli occhi di lui si illuminarono. -Mi sorella dice che dovremmo sbrigarci!- disse, dimenticando quasi di trattenere la voce -Il momento migliore per fuggire è questo, durante la confusione della sera.- Ashya sentì un peso sul petto, nel sentire quelle parole, e le sue labbra si strinsero per un istante in una linea pallida e sottile. -Non possiamo.- mormorò con rammarico -In questo momento Kveri non si trova a palazzo.- Ed ecco che quel barlume di speranza si spense. Falangar si lasciò sfuggire un sospiro che era il suono stesso della rassegnazione, mentre il suo sguardo scivolava via lungo le pareti del cunicolo; gli occhi di Eo si riempirono di lacrime e lui nascose il viso nella stoffa, le mani che vi si aggrappavano così forte da tremare. Il valletto credette che il suo cuore si sarebbe spezzato. -Ma tornerà!- si affrettò a rassicurarli -Potrebbe volerci del tempo, ma tornerà. Vi chiedo solo di aspettare ancora un po’!- Sentì la propria voce incrinarsi alla fine della frase e si scoprì molto vicino alle lacrime. Tuttavia non avrebbe pianto. Quei due avevano bisogno che lui si mostrasse tranquillo e sicuro. La schiava scosse piano la testa e ancora una volta gli prese la mano. “Non c’è più tempo. Domani verrò portata al mercato.” -Il mercato?- ripeté lui. Sembrava che la sua mente si rifiutasse di elaborare quell’informazione. Falangar annuì. “Per essere venduta.” Ashya rimase stordito da quella notizia. Si appoggiò con la schiena al muro di pietra e si portò la mano libera alla testa, poiché all’improvviso sentiva una forte emicrania. Il mercato. Per essere venduta. Falangar stava per essere portata via. Immagini terrificanti gli balenarono alla mente; scene di ciò che avrebbero potuto farle, di quello che avrebbero potuto costringerla a fare. Il ragazzo non riuscì nemmeno a prestare attenzione alle dita della schiava, che avevano ricominciato a tracciare parole sopra il suo palmo. “Eo” “Prenditi cura” “Per favore” Probabilmente gli stava chiedendo di proteggere il bambino, quando lei non avrebbe più potuto occuparsene. Lui annuì distrattamente, mentre nella testa aveva già iniziato a considerare ogni possibile soluzione: non avrebbe permesso che la ragazza fosse venduta e portata via chissà dove. Sarebbero potuti scappare anche senza l’aiuto del primo cavaliere. Evitare le sentinelle non sarebbe stato difficile, sfruttando i cunicoli. Però c’era il problema dei cancelli: era improbabile che i soldati li lasciassero incustoditi. Forse avrebbero potuto sfruttare il cambio della guardia. Sì, poteva funzionare. Si sarebbero nascosti da qualche parte in città, in attesa che Kveri facesse ritorno a Jaharra. Tuttavia, Ashya cos’avrebbe fatto dopo? Di certo non sarebbe potuto tornare a palazzo come se niente fosse, ma anche andarsene sembrava sbagliato. In fin dei conti, aveva un accordo con il principe. Falangar gli mise una mano sulla spalla e lo scosse gentilmente, strappandolo ai suoi pensieri. -Il principe.- mormorò il ragazzo sollevando lo sguardo su di lei, che corrugò la fronte senza capire. -Il principe!- ripeté trionfante. Si staccò dal muro e prese la schiava per le spalle. Lei sussultò, sorpresa da quel gesto improvviso, ma non tentò di divincolarsi. -So di non essere stato di grande aiuto sino ad ora.- le disse lui, cercando i suoi occhi nel buio -Anzi, sei stata tu ad aiutarmi più di una volta. Però ti chiedo di lasciarmi fare un ultimo tentativo.- La ragazza lo guardò titubante, poi scambiò uno sguardo con Eo, ancora aggrappato alla sua tunica. Infine, tornò a guardare il valletto e annuì. Lui rispose a sua volta con un cenno del capo e si voltò, incamminandosi lungo il corridoio. Fece solo pochi passi, però, prima di tornare dai due schiavi. Tirò fuori dalle maniche un paio di arance e, dopo aver depositato la prima tra le mani di Falangar, si chinò a porgere la seconda al bambino. Il piccolo si asciugò gli occhi con il dorso della mano, accettò il regalo e, in cambio, regalò al giovane un piccolo sorriso.
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