Il Principe Nascosto

di Agonia.Altrui.Company

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    Mi piace, belle anche le ambientazioni e il tipo di scrittura, molto scorrevole.
    Aspetto il seguito :)
     
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    Grazie, posterò il sesto capitolo il prima possibile.
     
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    -I tuoi vestisti

    Cìè una s di troppo.

    Nel complesso l'ho trovato scritto meglio degli altri, con più attenzione, e la cosa non può che farci piacere.

    Interessante come si svolge la vita al palazzo, almeno per i servi. vermo cosa comierà il protaonita adesso, dato che l'ha scampata, in qualche modo.

    Mi dispiace tanto per il leone...
     
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    Devo fare una confessione... il capitolo 5 lo ha letto prima Niyol e mi ha fatto diverse correzioni, probabilmente è per questo che sembra scritto meglio degli altri :( Mi scuso per aver barato.
    Comunque, nel prossimo capitolo la vita di palazzo verrà approfondita ancora meglio.
     
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    Non mi ero accorta dell'aggiornamento, avevo visto i commenti sotto e pensavo fossero gli ultimi messaggi. Cerco di rimettermi in pari in serata.
    Ad ogni modo far leggere un capitolo a qualcuno e farsi aiutare a correggerlo non è "barare". ;)
     
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    Leggendo il capitolo che hai postato l'altro giorno ho avuto l'impressione che il protagonista volesse guarire il leone ferito per dimostrare le proprie doti e il fatto che il leone sia stato ucciso gliel'abbia impedito.

    Non ho capito bene come mai l'abbiamo portato nell'alloggio dei servi e l'abbiano messo a lavorare, ma gli è andata decisamente bene, viste le sue disavventure precedenti.

    Infine vorrei condividere una sensazione che ho avuto fin dal primo capitolo.
    Ho l'impressione che il principe sia lui stesso.
    So che è una cosa strana da spiegare, ma potrebbe essere quella la ragione per cui è stato rapito / stato fatto rapire all'inizio e che in pochi siano al corrente della sua identità segreta.
    Forse è un po' forzato, però in base agli elementi che abbiamo in mano al momento non mi sembra così tanto impossibile. Dopotutto quello che sappiamo lo sappiamo allo stesso modo in cui lo sa lui. Pensa di essere lì per un motivo, ma magari è lì per un altro a sua insaputa.
     
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    Leggendo il capitolo che hai postato l'altro giorno ho avuto l'impressione che il protagonista volesse guarire il leone ferito per dimostrare le proprie doti e il fatto che il leone sia stato ucciso gliel'abbia impedito.

    Era proprio quella l'intenzione del protagonista.
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    Infine vorrei condividere una sensazione che ho avuto fin dal primo capitolo.
    Ho l'impressione che il principe sia lui stesso.

    Ipotesi molto interessante :D Delle persone che l'hanno letto, credo tu sia l'unica ad aver pensato ad un simile colpo di scena.
     
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    Devo fare una confessione... il capitolo 5 lo ha letto prima Niyol e mi ha fatto diverse correzioni, probabilmente è per questo che sembra scritto meglio degli altri :( Mi scuso per aver barato.

    Non hai barato, tranquillo :D
     
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    Ipotesi molto interessante :D Delle persone che l'hanno letto, credo tu sia l'unica ad aver pensato ad un simile colpo di scena.

    A volte tendo a vedere ancora più misteri di quelli che ci sono davvero. Forse mi sono spinta troppo in là!
     
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    Mah, non sto negando nè affermando nulla ^_^
     
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    Io rimango della mia idea. ;)
     
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    Mi scuso per il ritardo e, siccome l'ho finito ieri in fretta e furia, anche per i possibili errori ortografici.

    CAPITOLO 6

    A Pathbahea i nobili non avevano stemmi, per questo motivo ognuno di loro aveva i propri colori. Questa fu una delle prime cose che Ashya imparò della vita a palazzo.
    Il colore del nobile Barraq, per esempio, era un rosso scuro ma brillante, come quello di certi vini profumati provenienti dalla zona costiera; quello del nobile Hakim era l'azzurro pallido delle mattine fresche e limpide. I colori del sovrano erano il blu e il verde, gli stessi che decoravano le uniformi dei soldati reali, le mura del palazzo e gli edifici della capitale.
    I nobili, inoltre, avevano dei servitori personali, ognuno tenuto ad indossare esclusivamente i colori del proprio padrone. Non si trattava di lavoratori, ma di dame e valletti. Si capiva da come vestivano: indossavano abiti ampi e vistosi, rivaleggiando per eleganza con gli stessi nobili. Inoltre, erano tutti molto belli.
    Ashya, invece, faceva parte di quelli che venivano chiamati i “Bianchi”, servitori di palazzo responsabili della mansioni domestiche. Non c'era molta differenza, apprese il ragazzo, tra loro e gli schiavi: i Bianchi, infatti, vivevano all'interno del castello e non potevano uscire se non su ordine del supervisore, e soltanto per scendere in città a sbrigare delle commissioni.
    Tuttavia, a differenza degli schiavi, i Bianchi recepivano un salario: ognuno di loro aveva diversi anelli di ferro attorno alle braccia e, ogni dieci giorni, riceveva tre monete di bronzo per ogni bracciale.
    Il giovane non sapeva che fine facesse tutto quel denaro, anche se supponeva che la maggior parte dei servi lo spedisse alla propria famiglia, al di fuori del palazzo.
    Inoltre, ad Ashya non era ancora chiaro come si ottenessero i bracciali, se venissero elargiti per merito o per anzianità. Lui, in ogni caso, non ne aveva nemmeno uno.
    La coordinatrice dei Bianchi si chiamava Sarja: era una donna sveglia e pratica, dimostrava una quarantina d'anni, anche se probabilmente ne aveva di meno.
    Ogni giorno il suo lavoro consisteva nell'affidare a ciascuno le proprie mansioni, proprio come aveva fatto con il ragazzo il primo giorno in cui, ancora confuso, si era improvvisamente ritrovato a lavorare lì.
    C'erano tanti altri Bianchi, troppi perchè Ashya potesse memorizzare tutti i loro nomi, sebbene facesse del suo meglio.
    Lungo i corridoi del palazzo, qualche volta il giovane incrociava il primo cavaliere. Provava per lui un vago risentimento, ma non riusciva a trovarlo veramente detestabile: aveva ucciso il leone, certo, ma gli aveva anche rivolto parole gentili. Soltanto i nomadi erano capaci di togliere la vita in quella maniera e il ragazzo li aveva sempre ammirati per questo.
    Quando non indossava l'armatura, Kveri portava abiti semplici, chiari, che esaltavano la sua carnagione; l'uomo non aveva un suo colore, non ne aveva il diritto. Non era un nobile. Nonostante questo, sapeva incutere timore e rispetto con il solo sguardo, e possedeva la fierezza di un grande guerriero, dote che i cortigiani non avrebbero mai avuto.
    Ashya conosceva la sua storia. Tutti la conoscevano: la storia di un selvaggio venuto dal deserto, diventato primo cavaliere grazie al suo talento senza pari. La pantera di Pathbahea.
    Si diceva che con la spada tra le mani si trasformasse in un dio della guerra, ma che persino a mani nude avrebbe saputo sventrare un uomo.
    Il ragazzo non lo aveva mai visto combattere, ma c'era qualcosa negli occhi di Kveri che pareva sfidare chiunque a dubitare delle sue capacità; quegli occhi sembravano parlare per lui.
    In effetti, l'uomo non parlava mai. Ashya si era spesso domandato se, per caso, non conoscesse la lingua comune, ma dubitava che avesse potuto trascorrere tanti anni a palazzo senza impararla.
    Il vero motivo per cui il ragazzo non riusciva ad odiarlo, era il fatto che Kveri ci somigliasse molto, a quel leone che aveva ucciso; era anche lui un belva, anche lui prigioniero di un luogo che non gli apparteneva e lo aveva anche lui, quell'orgoglio silenzioso e feroce, che niente e nessuno sembrava essere in grado di sopire.



    I servi non parlavano mai del principe. Beh, a dire il verso, non parlavano mai più dello stretto necessario, di nessun argomento; parevano formiche operaie, troppo concentrate sul proprio lavoro per pensare ad altro. Per questo motivo al ragazzo era tanto difficile reperire informazioni, trovare indizi. Era piuttosto frustrante essere tanto vicino, ma al contempo ancora distante.
    Questa volta, però, non avrebbe fatto passi falsi, sarebbe stato paziente. Niente colpi di testa, niente più pazzie. Questo promise a sé stesso. Inoltre, diversamente da quando era rinchiuso nelle segrete, lavorando a palazzo il giovane non si annoiava. Gli piaceva lavorare, lo teneva impegnato, allontanava i pensieri cupi.
    La vita nel castello era molto diversa da quella che Ashya aveva condotto nel deserto, immerso nell'accogliente silenzio delle dune di sabbia, ma non la odiava: ogni giorno aveva occasione di osservare tante facce, ognuna diversa dall'altra. Erano infinite le emozioni che vedeva delinearsi su quei volti.
    Le dinamiche della corte continuavano a sembrargli assurde, contorte, ma era affascinante osservarle in quel modo, dall'interno; la sensazione di fare parte di qualcosa, di essere la tessera di un mosaico, aveva qualcosa di nostalgico agli occhi del ragazzo.
    Così come il piccolo tempio del Grande Padre, nella parte settentrionale del palazzo.
    Sorgeva al centro di un cortile tranquillo e si trattava di un piccolo edificio dalla forma circolare, costruito con un marmo così candido da ferire gli occhi; il soffitto a cupola era sostenuto da quattro cerchie di colonne, concentriche tra loro, le cui immagini andavano a sovrapporsi per impedire a chiunque di potervi vedere all'interno. Non senza entrarci, almeno.
    Nel suo cuore, la struttura custodiva una splendida statua di Azhil, anch'essa di marmo. Il dio era rappresentato come un uomo nel fiore degli anni, dalla bellezza enigmatica e quasi androgina; aveva quattro ali piumate che gli spuntavano dalla schiena, realizzate con tanta cura da sembrare reali. Era seduto, a gambe incrociate, e teneva le mani davanti a sé, con i palmi rivolti verso l'alto. E, proprio lì sopra, sedeva un piccolo uomo, insignificante al confronto di Azhil, ma grande abbastanza da stringere il sole in una mano e la luna nell'altra. Si trattava del messia, Ashya.
    Il ragazzo sorrise a quel piccolo uomo di marmo, seduto tra le mani del Grande Padre.
    Non era una raffigurazione tanto originale, ma così ben realizzata da mozzare il fiato anche a chi non ne apprezzasse il soggetto.
    I sacerdoti si recavano al tempietto ogni mattina, per accendere incensi ed officiare preghiere, e ogni sera, per illuminare il luogo con centinaia di candele, affinchè il loro dio non venisse mai avvolto dalle tenebre.
    Vestivano tutti con lunghe tuniche, quei sacerdoti, e avevano questa bizzarra usanza di rasarsi le sopracciaglia e, al loro posto, dipingersi sul viso due piume, che partivano dalla base del naso per poi allungarsi verso le tempie.
    Ashya si domandava spesso quanto quegli uomini dovessero sembrare ridicoli, a chi non conosceva il significato di quel tatuaggio. In ogni caso, aveva altro a cui pensare: non era lì per occuparsi di Azhil e non voleva mai più avervi a che fare.



    Quel giorno Ashya era stato incaricato di pulire l'armeria.
    Si trattava di una stanza ampia e ben illuminata, che si affacciava sulla piazza d'armi. Il ragazzo camminava lento, barcollante; sulla schiena portava un grosso bastone alle cui estremità erano appesi due secchi pieni d'acqua. Mentre attraversava il cortile, sotto il sole cocente del primo pomeriggio, si fermò ad osservare il grosso buco che si apriva tra le lastre di pietra, proprio al centro della piazza. Si trattava di una fessura profonda e circolare, dalla quale si dipartivano alcune piccole crepe. Lì era stato fissato l'anello di ferro al quale il leone era stato incatenato.
    Il giovane proseguì, con un lungo sospiro.
    L'armeria, a quell'ora del giorno, era completamente deserta, silenziosa e tranquilla; spade e archi riposavano su rastrelliere di legno, ordinatamente disposte lungo tutto il perimetro della stanza. Ashya posò il suo pesante carico, sollevò il primo secchio e gettò l'acqua sul pavimento, con un gesto ampio e deciso; poi prese lo straccio che aveva con sé, si mise in ginocchio e iniziò a strofinare vigorosamente le piastrelle scure.
    Lì il pavimento era stato realizzato con una pietra porosa, che asciugava molto velocemente; il ragazzo era distratto a guardare le macchie bagnate che si stringevano in fretta, fino a scomparire, quando si accorse che qualcuno lo osservava. Si voltò di scatto verso l'ingresso e lì vide Kveri, le braccia incrociate, una spalla appoggiata allo stipite della porta. Alle sue spalle, la luce del sole iniziave ad assumere le tinte infuocate del tramonto.
    Si guardarono in silenzio per un lungo istante; avevano entrambi gli occhi scuri anche se, tanto il colore quanto il taglio delle palpebre erano completamente diversi. Nonostante questo, i due continuarono ad osservarsi a vicenda, come se avessero riconosciuto di avere qualcosa in comune, di appartenere alla stessa specie. Parevano incuriositi l'uno dall'altro.
    Fu Ashya a spezzare quello strano silenzio.
    -Prego.- disse con un cenno del capo -Il pavimento è asciutto.-
    L'altro continuò a guardarlo dall'alto in basso, limitandosi a sollevare un poco le sopracciglia. Seguirono altri lunghi e silenziosi momenti, prima che il ragazzo si schiarisse la voce.
    -Il pavimento è asciutto, potete attraversarlo.- ripetè, questa volta nella lingua dei nomadi. Si trattava di una lingua difficile, dai suoni aspri e gracchianti; per poterla parlare correttamente, non bastava servirsi della lingua, ma bisognava usare anche il petto, la gola, i polmoni. Era da tanto tempo che il giovane non la parlava, e sperò di non essersi arrugginito troppo.
    Kveri corrugò la fronte -Dove hai imparato la mia lingua?- domandò, utilizzando il linguaggio comune con grande maestria, senza commettere alcun errore di pronuncia.
    Ormai aveva perso quasi del tutto il suo accento originale e Ashya si domandò se anche lui se ne fosse accorto. Il servo si alzò in piedi, ma anche così rimase molto più basso rispetto al cavaliere.
    -Nel deserto.- rispose, alzando le spalle, come se quelle due parole fossero bastate a rispondere alla domanda.
    L'uomo annuì e parve accettare quel compromesso; finalmente si scostò dalla soglia e si diresse verso una rastrelliera di legno, fissata alla parete di sinistra. Prese in mano, una alla volta, diverse spade e le soppesò, valutandone il peso e la fattura.
    Nel mentre, il ragazzo si era rimesso al lavoro, in ginocchio sul pavimento, prestando però attenzione ad ogni piccolo movimento o gesto che l'uomo compiva.
    Quando ebbe trovato un'arma che gli fosse gradita, una scimitarra dall'elsa lunga, Kveri uscì dall'armeria e si posizionò al centro della piazza d'armi. Sollevò alta la spada, impugnandola con entrambe le mani, e iniziò a menar fendenti con un rigore magistrale. Si allenava così, da solo, contro nemici immaginari; Ashya si domandò se fosse costretto a farlo poiché nessuno dei soldati del re era alla sua altezza.



    Mentre Kveri si allenava, diversi cortigiani si erano alternati, lungo il perimetro del cortile, in qualità di suo pubblico; ma, con l'avanzare del buio, erano tutti scomparsi.
    Dopo aver terminato il proprio lavoro, Ashya aveva acceso diverse torce, rischiarando l'armeria e la piazza d'armi. Dopodiché era rimasto lì, seduto sul pavimento di pietra, ad osservare il cavaliere, provando ammirazione e una sorta di timore reverenziale. Si domandò se avrebbe potuto sconfiggerlo e, senza nemmeno rendersene conto, aveva iniziato ad immaginare il loro duello, proprio in quel luogo, sotto lo sguardo perennemente annoiato del sovrano. Osservava ogni movimento dell'uomo e immaginava come avrebbe potuto reagire, quale fosse il modo più efficiente e sicuro per schivare, quale il modo giusto per aggirare la sua guardia e riuscire a colpirlo.
    La verità era che vedere Kveri brandire la sua scimitarra, trasmetteva ad Ashya una forte scarica di adrenalina, gli faceva venire voglia di impugnare un'arma a sua volta.
    Eppure, il ragazzo provava anche una vaga delusione, di fronte a quello spettacolo: guardando i movimenti dell'uomo, constatò che la sua tecnica di spada era praticamente perfetta, la più pura e magnifica incarnazione della scherma reale di Pathbahea. Il primo cavaliere non aveva perso soltanto il suo accento. Ormai combatteva come un soldato, non più come un nomade.
    All'improvviso Kveri si fermò. Aveva la fronte imperlata di sudore e il respiro leggermente affannoso; abbassò la spada e si voltò verso il suo unico spettatore. Ancora una volta, i due si studiarono a vicenda, prima che il cavaliere si avvicinasse al ragazzo, che nel frattempo si era rimesso in piedi.
    -Qual'è il tuo nome?- domandò l'uomo.
    -Ashya.- rispose l'altro, sostenendone lo sguardo.
    Il cavaliere annuì -Sei un guerriero, Ashya.-
    Sembrava più un'affermazione, che non una domanda, ma questo non impedì al giovane di rispondere.
    -Non un guerriero.- disse -Un guaritore.-
    Kveri inclinò la testa di lato e il suo sguardo si fece un poco turbato, mentre continuava a scrutare dentro i neri occhi di Ashya.
    -Allora, dimmi.- ribattè -Dimmi cosa è venuto a fare, Ashya il guaritore, qui alla corte del sovrano.-
    Per un breve attimo, il ragazzo pensò di raccontargli ogni cosa; com'era fuggito dalle segrete, come vi era stato rinchiuso, come lo avevano trascinato a Jaharra senza chiedere il suo parere e persino ciò che era accaduto prima, molto prima. Tuttavia si trattò, appunto, solo di un breve attimo.
    -Sto cercando il principe.- rispose soltanto.
    L'altro parve riflettere un momento -Vorrei poterti aiutare, Ashya il guaritore- disse, lasciando il cortile -ma non so nulla, a proposito del principe.-
    Il servo lo seguì dentro l'armeria -Voi mi avete già aiutato.- ribattè, mentre guardava l'uomo riporre la scimitarra là dove l'aveva trovata -E' grazie a voi, che adesso mi trovo qui. Non è vero?-
    Kveri scosse piano il capo -Il nobile ambasciatore ha molto gradito lo spettacolo che hai offerto.- spiegò -A lui dovrebbe andare la tua gratitudine.-
    Ashya provò una certa amarezza, ascoltando quelle parole. Avrebbe voluto dire al cavaliere che, il vero spettacolo, non era nemmeno potuto iniziare; dirgli che non avrebbe dovuto uccidere il leone. Però, da qualche parte dentro di sé, sapeva bene che la colpa non era di Kveri, ma soltanto sua: aveva agito senza pensare abbastanza e aveva gestito male la situazione.
    Il ragazzo chiuse gli occhi e prese un lungo respiro; poi si accorse che il cavaliere se ne stava già andando.
    -Invece, per quanto vi riguarda?- gli domandò, alzando la voce per farsi sentire -Perchè Kveri il guerriero si trova qui, così lontano dalla sua casa?-
    L'uomo si fermò un momento sulla soglia e alzò lo sguardo in cerca della luna -A differenza tua- rispose, continuando a dare le spalle al suo interlocutore -io ero venuto a cercare una principessa.-
    Ashya sollevò un sopracciglio e lo guardò allontanarsi senza capire di cosa stesse parlando.



    Si era fatto molto tardi. Ashya spense le torce, lasciando che la piazza d'armi cadesse nell'oscurità, poi si incamminò verso l'alloggio dei Bianchi. Durante la notte il castello era molto silenzioso, ad eccezione dello sferragliare dei soldati di ronda e dei suoni che provenivano dagli appartamenti dei nobili, perlopiù risate e gemiti di piacere.
    Il ragazzo non avrebbe mai potuto chiamare “casa” quel luogo, ma ormai iniziava a conoscerlo davvero bene e poteva muoversi sicuro anche nell'oscurità. Proprio per questo fu tanto incauto da non accorgersi di essere seguito.
    Il primo colpo lo raggiunse alla testa. L'impatto fu doloroso e il giovane cadde a terra, stordito. Mentre lottava per non perdere i sensi, un calcio alla spalla lo fece voltare verso l'alto; Ashya gemette dal dolore e impiegò un lungo momento prima di mettere a fuoco il suo aggressore. Non fu particolarmente stupito nel riconoscere, anche al buio, il volto affilato di Taliban.
    Ah, aveva portato con sé un paio di amici. Questo poteva solo significare che aveva intenzione di divertirsi a lungo.
    Mentre veniva colpito, ripetutamente e con ferocia, il ragazzo cercò di chiudersi su sé stesso, proteggendosi come meglio poteva; sentiva le testa pulsare e, davanti a sé, ogni cosa gli sembrava sempre meno nitida. Era come se la sua coscienza fosse fuggita via, andandosi a nascondere nell'angolo più buio e tranquillo che aveva trovato, lasciando solo il corpo in preda al dolore.
    Taliban stava dicendo qualcosa e rideva, rideva. Quella risata andava smarrirsi nel fischio acuto che Ashya sentiva nelle orecchie.
    Anche quando i tre soldati se ne andarono, il dolore che il ragazzo provava era talmente forte che gli pareva stessero continuando a colpirlo. Iniziava ad essere veramente confuso, tanto che l'unico pensiero coerente che riuscì a formulare tornò al pavimento dell'armeria, alle macchie bagnate che spariva in fretta.

    Edited by Agonia.Altrui.Company - 19/12/2017, 14:18
     
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    Trovo sempre più interessante il personaggio di Ashya, non solo il fatto che lo sento molto vicino sotto certi aspetti, ma soprattutto per il fatto che si chiami come il Messia e che, pe certi versi, sembra proprio che sia il foglio del Grande Padre.
    Inoltre sto rivalutando il personaggio di Kveri. Mi sembra quel personaggio in gabbia ma con potere, non so se mi sono espressa correttamente. Però mi sembra che in un certo senso odi e apprezzi al contempo la propria carica. E le sue ultime parole ad Ashya mi hanno fatto pensare ad un background complesso e triste.
    Molto originale l'idea dei colori al posto degli stemmi!
    Sono sempre più curiosa rispetto a come svolgerai questa trama, quindi continua a scrivere! (Altrimenti ti mangio :chair: )

    Edited by Niyol - 19/12/2017, 23:55
     
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    Io rimango sempre convinta del fatto che Ashya possa essere segretamente il Principe.
    Kveri mi sembra un personaggio molto interessante, che ha varie cose da nascondere.

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    alle macchie bagnate che spariva in fretta.

    Va bene che spariscono in fretta, ma passerà un po' prima che ne rimanga solo una. :P
     
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    Il background di Kveri non è stato lasciato al caso, così come quello di Ashya, ma verranno entrambi rivelati a tempo debito :D Detto questo, sono felice che Kveri vi piaccia ^_^
     
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190 replies since 9/11/2017, 21:52   1676 views
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