We've got to get in to get out

Avevano combattuto fino allo stremo contro se stessi per dimenticare tutto ciò che avevano passato, tutto il tempo che avevano lasciato indietro e ora non ricordavano neanche il perché.

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  1. Matthew970
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    Allora, Jim mi e piaciuto molto, un personaggio forse non originalissimo ma scritto molto bene.
    Jackie credo che deve ancora esprimere fino in fondo il suo lato peggiore ma anche quello che si è visto non fa presagire niente di buono. Anche lui è reso bene.
    Brat l'hai ben delineato nei suoi difetti e nelle sue insicurezze nelle uscite e nel rapporto con Mary.
    Lui mi è risultato parecchio piacevole, e in un certo senso ci rimani male quando con Mary ha delle difficolta'.
    Giusto in quei momenti escono fuori le sue debolezze perché sennò è abbastanza tosto.
    Spike e Casper non me li ricordo molto bene, scusami.
    Sul finale non ne ho la più pallida idea, ma se continua a questo livello potrebbe succedere di tutto.
     
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  2. Brat Fitzparker
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    Non scusarti, anzi, scusa per la massa di domande. Mi piace un sacco come la vedi, e non lo so, grazie, comunque.
     
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  3. Matthew970
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    Ho letto gli ultimi due capitoli.
    Spike in fondo è buono, intelligente, taciturno, direi che mi appare cosi.
    Max invece è una stronza, ma in un certo senso rappresenta anche il tipo di stronzismo che ti nasce quando come nel suo caso vieni piantato in asso da una persona che ami o a cui tieni. Poi aggiungici il suo carattere e la droga ed ecco il risultato.
    E' più una cattiveria di facciata che è nata dal dolore, in questo e' simile a Jane.
    Mary e' purtroppo ingenua, e si va a fidare di Jackie, questo penso che sia un evento importante nella storia.
    Che dire di Casper? E' un po' piu' tranquillo delle persone in quella casa forse.
    Ma leggendo mi è sorta un domanda.
    Jane ha la patente?
    Faccio fatica a immaginarmela mentre studia le regole stradali 😂
     
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  4. Brat Fitzparker
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    Si, sta fecendo il suo dovere la cara vecchia storia, o almeno sembra da come parli, ma comunque no, non ce l'ha. A parte che non avrebbe mai studiato per una cosa simile, ma poi non se lo sarebbe potuto permettere e... Si, è importante e Mary è un'idiota, ma serve a quel che serve. Però diciamo che in un certo senso io stesso penso che sarei stato incuriosito da uno come Jackie, certo, non da lavorarci insieme, ma sarebbe stato come, che so, la fiamma nel camino: colorata, viva, interessante e vorresti toccarla, ma sai che se allungherai la mano ti brucerai. Mary semplicemente non lo sa, quella puttanella. Io e Jane abbiamo la tessa opinione su di lei.
     
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  5. Matthew970
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    Da dove è nata l'ispirazione per il personaggio di Mary?
    A dir la verità sono curioso anche di come è nata quella per gli altri personaggi.
    Sono basati su persone che hai conosciuto, li hai inventati o hanno aspetti della tua personalità?
     
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  6. Brat Fitzparker
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    Aspetti della mia. Alcune cose si basano su persone che conosco, ma si tratta di caratteristiche singole aggiunte giusto per colpletare la psicologia del personaggio, ma sono tutti pezzi di me. Ho sempre usato la scrittura come una terapia, se qualcosa non va in me, se mi sento perso e non so più dove sbattere la testa, allora scrivo. È come se mi facessi a pezzi per studiarli uno ad uno. Mary nello specifico è il lato (e qui lo pseudonimo maschile se ne va al diavolo per trenta secondi) femminile di me, quello che voglio sopprimere, quello che vuole essere carina, apprezzata, quella superficiale e banale, quella egocentrica e stupida. È un lato che in me è del tutto recessivo, ma lo so che c'è. Quando mi guardo allo specchio c'è qualcosa che mi fa venir voglia di restare lì e fare la femminuccia a farmi carina. Sono arrivata a prendermi a schiaffi da sola, quando succede. Odio lei, il suo atteggiamento, è tutto ciò che odio delle donne e anche di me stessa.

    Ok, non tutto, la parte che odio di più. Detto questo torno al mio amato maschile e al mio pseudonimo. In ogni caso, ognuno di quei personaggi ha un suo senso, è un pezzo di quello che ho nella testa eche cerco di buttare fuori.
     
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  7. Matthew970
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    Ognuno è come sceglie di essere alla fine. L'importante è non essere come vogliono gli altri. Poi hai creato un personaggio, e una storia dietro a un lato della tua personalità che detesti quindi alla fine ti è tornato utile :D
     
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  8. Brat Fitzparker
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    Per esperienza personale ti dico che non è sempre così, ho sempre la sensazione di non poterlo scegliere, ma di certo hai ragione, non come dicono gli altri, non come vogliono e... Si, in effetti mi torna sempre utile, ma lo diremo che lo è stato solo a fine storia
     
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  9. Brat Fitzparker
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    I wanna know, have you ever seen the rain?

    Il lavoro per Mary si rivelò abbastanza semplice. Tutti i pomeriggi usciva di casa quando Brat tornava a lavoro, andava al vecchio magazzino, si sedeva sulla sua poltrona e annotava nomi e numeri finché non era stanca. A quel punto rientrava semplicemente a casa.
    I suoi guadagni erano terribilmente aumentati, tanto da permetterle di ricominciare a curarsi di se, a comprare gioielli, bei vestiti; scarpe nuove, manicure e tutto quello che voleva, tutto quello che le sembrava importante. Ogni singolo passo che aveva fatto incontro a quel mondo così ostile ora si annullava e non sembrava neanche un vero ricordo, quanto più un incubo durato troppo a lungo.
    Quel pomeriggio era arrivata leggermente in anticipo per godersi il suo posto al sole sul trono con indosso una sottile camicetta bianca che si infilava in una lunga e morbida gonna verde acqua che profumava ancora di negozio: un nuovo regalino che si era recentemente fatta e che la faceva sentire affascinante, signorile.
    Lavorava come contabile dello spacciatore da quasi un mese e ora rifletteva su quanto la sua condizione fosse incredibilmente migliora. Certo, con Brat le cose sembravano andare sempre peggio poiché, nonostante lui facesse tutto il possibile per essere dolce e accondiscendente, lei era fredda, distaccata, ma questo era ormai diventato un dettaglio irrilevante. Non lo faceva certo con cattiveria, era solo una principessa viziata e ora che poteva di nuovo permettersi di pensare a se, o meglio di non pensare, nessun altro le sembrava importante, nessun altro pensiero rilevante. Ricordava i suoi genitori e per quanto sapeva che non sarebbero stati orgogliosi della sua posizione sociale, di certo immaginava che avrebbero apprezzato le sue scelte, “un ottimo affare”, avrebbe asserito il padre, mentre la madre le avrebbe fatto i complimenti per ciò che indossava. In fin dei conti non le mancavano più di tanto, ne le erano mai mancati quanto la vita che le permettevano di fare, ma a volte ci pensava. Il loro non era mai stato un vero rapporto, nessuno le aveva mai chiesto cosa le piacesse e cosa no, nessuno si era mai posto il problema di cosa le andasse di fare, ma a lei andava bene così, non aveva mai voluto ne desiderato di più. Erano sempre stati piuttosto posati anche nel dimostrarle affetto, magari al suo posto chiunque altro avrebbe detto di non averne proprio ricevuto, ma il punto era che lei non ne aveva avuto bisogno. Si amava a sufficienza da sola.
    Ai suoi occhi i sogni e le vite di quei ragazzi di periferia, prima così tanto toccanti e intensi, non apparivano in altro modo se non patetiche. L’unico per cui riusciva ancora a provare interesse e curiosità era Jackie, ma d’altronde la prima cosa che le avevano insegnato era a puntare in alto e in quel minuscolo girone infernale il massimo grado era rappresentato da lui.
    La porta del magazzino si spalancò e l’eccentrico ragazzo entrò canticchiando, felice come non mai.
    Tutto andava secondo i suoi piani e gli eventi sembravano non potere che volgere a suo vantaggio.
    -Buondì, meravigliosa damigella. Vederti allieta ogni mia giornata- disse, esibendosi in un vistoso e regale inchino.
    -Ciao Jackie. Sembri di buon umore oggi, più del solito intendo, che succede?- Lui si avvicinò rapidamente alla poltrona e si sedette su uno dei braccioli che scricchiolò e si piegò sotto il suo esile corpo.
    -Ebbene si, son proprio di buon umore e per una volta non lo devo alle mie pessime seppur piacevoli abitudini: gli affari vanno a gonfie vele e stamane ho rincontrato dopo lungo tempo la mia madre adottiva-
    -Madre adottiva?-
    -Esattamente. Gretchen. Una vecchia signora che supera le duecentosettanta libre ma che fa le torte più buone a questo mondo-
    -Sei stato adottato?-
    -Non esattamente. Vedi, mia madre era del Kansas. Era una prostituta con una gamba sola, una donna meravigliosa quando non era sbronza, in effetti. Di mio padre non ho mai saputo granchè, magari l’avrò anche incontrato, qualche volta, ma di certo non sapevo fosse lui. Ne passavano tanti, uno dopo l’altro. In ogni caso, quella donna mi ha abbandonato all’età di cinque anni, sostenendo che assomigliassi troppo a lui, così sono stato messo su un treno diretto in California e sono finito a Berkeley, dove la signora Gretchen ,che avrà avuto al tempo una sessantina d’anni, mi ha accolto e cresciuto-
    -Mi dispiace, Jackie. Dev’essere stato terribile, essere abbandonato così giovane…-
    -Oh, non darti pena per me, mia cara. Ho avuto tanto affetto dalla signora Gretchen da non sentire la mancanza della mia madre naturale, ne di un padre, tuttavia ciò non significa che non sia in cerca d’amore, talvolta mi sento così terribilmente solo..- adesso sussurrava, in tono quasi soave, lasciandosi scivolare lentamente sul cuscino accanto alla biondina. In fondo non era del tutto una bugia, quella, ma anche se se ne fosse reso conto non l’avrebbe mai ammesso a se stesso.
    -Bè, di certo le tue compagnie notturne sapranno soddisfare al meglio questo tuo bisogno…- ora anche Mary sussurrava, mentre le sue guance diventavano rosse e il suo respiro caldo e pesante. Quel ragazzo le faceva un effetto strano che oscillava fra la paura e il desiderio. Pensò che dovesse sentirsi così il topo nelle mani del leone.
    -No, dolcezza, credimi. Nessuna di loro riesce a…- fece una pausa, avvicinandosi ancora al viso di lei, dopo aver dato una rapida e languida occhiata al suo corpo -… rendermi felice. Nessuna di loro ha l’amore che cerco, o mi fa sentire meno solo. Il sesso non è altro che un mero strumento per non pensare, come qualsiasi altro- mugugnò.
    -E di chi avresti bisogno? Hai mai conosciuto qualcuna che pensi potrebbe alleviare le tue sofferenze?- vorrei poter dire che non v’era malizia nella sua voce e che la domanda fosse stata posta senza pensare alle conseguenze, ma la ragazzina sapeva con esattezza dove sarebbero andati a parare e non desiderava altro.
    -Ne ho conosciuta una ma è una principessa e io solo un umile ragazzaccio di strada, non potrei mai…- quella parte lo divertiva incredibilmente. Era un attore formidabile, non c’è che dire. Tutto stava andando nel migliore dei modi e non doveva fare altro che dare una lieve spinta, ora, per capovolgere gli eventi.
    -Magari lei non aspetta altro, magari vorrebbe solo che tu…- mormorò la ragazza, e quella parola fu l’ultima che disse. Le labbra di Jackie si erano ormai dolcemente posate sulle sue. Avrebbe voluto trattenersi e sarebbe certo stato più da signorina farlo, ma il desiderio era troppo forte. Passò le mani fra i capelli di lui, afferrandoli, e lo strinse a se, baciandolo con tutta la passione di cui disponeva, una passione che fino a quel momento non aveva conosciuto, quasi istintiva, rabbiosa, animale.
    -Jackie! Brutto figlio di puttana senza scrupoli, che cazzo stai facendo?!- La voce di Brat irruppe nello silenzio statico di quel bacio proibito, rimbombando fra le vuote mura del magazzino. I due si separarono e il cuore di Mary parve fermarsi. Non aveva pensato alle conseguenze, anzi, veramente non aveva pensato a niente, ma probabilmente anche se l’avesse fatto non le sarebbe importato. Il suo istinto l’aveva guidata a fare ancora una volta la cosa sbagliata, ma di certo non era pentita, no, forse più sollevata e in gran parte dispiaciuta. Sapeva che le cose adesso sarebbero cambiate, sapeva di aver piantato uno stiletto di piombo così a fondo nel cuore del nanetto dagli occhi verdi che difficilmente sarebbe riuscito a togliersi, ma era meglio così, meglio che fosse successo in quel modo perché sapeva che non sarebbe mai riuscita a dirglielo, a spiegarglielo. Era troppo codarda per affrontare le proprie scelte e i propri errori, in questo modo lei non doveva fare ne dire assolutamente niente, solo restare immobile a guardare, lasciare che gli eventi le scivolassero intorno ancora una volta e fu grata per questo. Così era tutto più semplice.
    -Leva le tue sudice mani dalla mi ragazza, verme!- intimò, avvicinandosi a grandi falcate. L’eccentrico ragazzo si alzò lentamente, senza dare segni di turbamento. In verità lui, ancora una volta, si tratteneva a malapena dallo scoppiare a ridere. Andiamo, come poteva essere stato così facile? Se prima rimaneva un interrogativo il come sbarazzarsi di quel patetico, infimo pivellino, ora era tutto più chiaro. Quell’insulso ragazzino che gli veniva incontro come una furia non avrebbe potuto fare a meno di essere impulsivo, magari avrebbe anche provato colpirlo e a lui sarebbe bastato non difendersi, rendendo la scena ancor più teatrale e spingendo la biondina a intromettersi in sua difesa. Quante probabilità c’erano che lo sfigato entrasse proprio nell’istante in cui aveva baciato la sua bella? Pochissime, anzi, erano quasi nulle, ma così era stato e non poteva chiedere di meglio.
    -Calma, fratello, mi dispiace tanto, non volevo che…-
    -Non chiamarmi fratello, brutto pezzo di merda, io non sono un tuo fottuto fratello!- sbraitò Brat, colpendolo con un forte pugno allo zigomo. Jackie cadde a terra, inerme, sollevando una densa nuvola di polvere che danzò contro lo lame di luce che illuminavano la scena come fossero su un palco. Si asciugò il sangue che fuoriusciva lentamente dal sottile squarcio che si era creato sulla sua pelle con il dorso della mano, tentando di mantenere la calma. Forse la parte più complicata, ora, era il trattenersi dal restituire il pugno. Non sopportava d’esser colpito ne l’avrebbe sopportato a lungo, la violenza era forse l’unico stimolo davanti al quale non riuscisse a restare impassibile. Il ragazzino lo afferrò per la pelliccia nera che foderava il colletto del cappotto e lo sollevò da terra, portandosi a un palmo dal suo viso. –Devi stare lontano, hai capito?- grugnì, per poi scaricargli un altro pugno sulla guancia.
    -Fermo!- Mary, che fino a quel momento era rimasta immobile senza sapere cosa fare, si gettò in avanti, mettendosi fra i due. Ecco, orchestrazione perfetta, atto finale: la principessa entra in scena in difesa del suo amante e il pubblico trattiene il respiro. Lo spacciatore sputò un grumo di sangue e fortunatamente nessuno vide il sottile sorriso che deturpò il suo viso per appena un istante.
    -Mary, cosa stai facendo…- domandò il ragazzino, arretrando in un passo come fosse disorientato, come se fosse stato lui ad essere stato colpito, adesso.
    -Non… non è stata colpa sua. Io volevo che lo facesse-
    -Tu… non devi difenderlo solo perché…-
    -Non lo sto difendendo. è così. Mi dispiace, Brat- disse con voce ferma. Mentiva, non le dispiaceva davvero, ma non desiderava altro che lui se ne andasse e che quell’incubo finisse. In fondo la lusingava vedere due uomini combattere per lei, ma quel macabro spettacolo di violenza era durato anche troppo.
    -Sei una puttana Mary, ecco cosa sei. Una stramaledetta puttana!- urlò lui. Di certo avrebbe voluto sembrare più rabbioso che ferito, ma la voce spezzata e roca e le lacrime che annebbiavano il suo sguardo non lasciavano alcun dubbio. –Pensavo ci fosse di più in te, pensavo… non ha importanza, adesso. Avevi ragione, sono deluso, non c’è niente in te.- sussurrò per poi voltarsi e percorrere lentamente il magazzino. I suoi passi rimbombavano nel silenzio carico di suoni che il sordo tonfo dei suoi pugni avevano lasciato. Non avrebbe voluto sembrare così patetico, non avrebbe voluto sembrare così distrutto, ma non dipendeva da lui. Avrebbe voluto essere meno impulsivo, ma non era mai stato bravo a mentire o a nascondere le proprie emozioni. Lanciò un ultimo sguardo alla ragazza e adesso quelle che prima sembravano lacrime avevano lasciato spazio a una fredda maschera di finta indifferenza, per poi uscire, sbattendosi la porta alle spalle.
    La biondina si voltò all’istante, chinandosi sullo sventurato bastardo che ancora giaceva al suolo mentre provava a nascondere al meglio l’espressione tronfia che tentava disperatamente di farsi strada sul suo viso.
    -Va tutto bene? Accidenti, ti fa molto male?- domandò, dolcemente. Ora neanche uno dei suoi pensieri erano rivolti a Brat, concentrata com’era su di lui e sulle sue ferite. Di certo non sapeva quanto i gesti o le parole potessero ferire più d’un colpo ben assestato, ne si rendeva conto che, anche se non sanguinava e non era steso a terra in mezzo alla polvere, le ferite che aveva lasciato impresse appena sotto lo sterno del ragazzino erano ben più gravi. In fondo era solo una principessina vuota, in lei non c’era niente che poteva essere ferito, come poteva comprenderlo?
    -Sto benissimo, credimi. Ho subito di peggio. Tu, piuttosto, come stai? Mi sembri scossa. Ecco…mi dispiace, ma proprio non sono riuscito a trattenermi… sei così bella- mormorò il ragazzo, accarezzandole la guancia.
    -Tranquillo, è solo… non immaginavo che Brat potesse essere così violento, così cattivo-
    -Bè, forse in fondo me lo sono meritato, anche io avrei dato di matto se avessi perso una come te-
    -Smettila di difenderlo, davvero, non c’è bisogno. La rabbia non giustifica le sue azioni, anche tu avresti potuto difenderti, avresti potuto colpirlo, ma non l’hai fatto, non hai niente di cui rimproverarti- mormorò e lui sorrise, facendole pensare che fosse un silenzioso ringraziamento per ciò che gli aveva detto, ma non era vero. La verità era molto più profonda, molto più oscura: sorrideva perché era soddisfatto, appagato. Certo, ora aveva un livido e una ferita allo zigomo, ma ne era valsa la pena: aveva definitivamente e irrimediabilmente vinto.


    Jane giaceva sul pavimento del 1403 sulla sesta. Sbuffava soffici nuvole di fumo mentre la puntina scorreva a vuoto sulla fine del primo lato di London Calling dei Clash. C’era solo quel suono a riempire l’aria, insieme al vento che fischiava rabbioso appena fuori la finestra. La casa era vuota ed il sole stava ormai quasi per tramontare all’orizzonte, illuminando l’ambiente con una luce che faceva sembrare poetiche e interessanti anche le macchie di muffa sul soffitto. Avrebbe dovuto alzarsi, girare il vinile o qualcosa di simile, ma quel crepitio faceva un rumore che le teneva compagnia, quasi più della musica.
    Le parole di Lost in Supermarket ancora rimbombavano nel suo cervello stanco. Si sentiva come in un dopo sbronza, come quando la notte non hai dormito niente e il giorno dopo tutto appare surreale, così ti ritrovi a incantarti su particolari inutili e a rimuginare.
    I wasn’t born so much as I fell out
    nobody seemed to notice me
    we had a hedge back home in the suburb
    over which I never could see.

    Era passato un mese dall’ultima volta che aveva visto Max e non faceva che pensarci. Non l’aveva chiamata, ne era andata a cercarla; non si era fatta vedere ne aveva intenzione di farlo, per qualche strano motivo ora credeva che fosse meglio così, ma le mancava. Aveva perso il lavoro da circa due settimane, ma non le importava assolutamente niente. Si era presentata sbronza una volta di troppo e aveva mandato al diavolo il suo capo ancora e ancora perché si era permesso di farglielo notare. Ora in compenso aveva un sacco di tempo per pensare a quanto la sua esistenza fosse inutile, incastrata e persa nel suo utero privato. Le sembrava di essere tornata a casa, dove tutto era iniziato. Dalla strada ora arrivava un vociare sommesso dei ragazzini che rientravano, le sembrava di sentire i vicini litigare sopra il mormorio di un telegiornale ignorato, come si sentiva ignorata lei. Anche quando era piccola le cose andavano così, sigarette a parte. Quando era piccola se ne stava stesa nel pavimento di camera sua e quelle litigate malcelate sotto il rumorio sommesso di un qualche programma televisivo erano stati la prima emozione che avesse mai provato.
    I heard the people who lived on the ceiling
    Scream and fight most scarily
    Hearing that noise was my first ever feeling
    That’s how it’s been all around me.

    Aveva fatto parecchia strada da allora, ma non era cambiato molto. Ora tutto ciò che aveva erano i rumori delle rugginose tubature nei muri e di quei mocciosi odiosi oltre la sua finestra, le sigarette e un po’ di tempo da perdere. Aveva di nuovo sedici anni. Non le era rimasto altro che il silenzio e la puntina che aveva raggiunto il limite, proprio come lei. Non voleva pensare che la sua esistenza non avesse senso senza Miss testa blu e anche se l’avesse pensato avrebbe mentito a se stessa, no, il punto non era quello, il punto era che aveva solo bisogno di un po’ di autocommiserazione, tutto qui. Gli adulti non se la possono permettere, è vero, ma lei non era mai cresciuta e dubitava che sarebbe successo. Se rimani bambino per sempre o realizzi i tuoi sogni o ti devi ridurre a fare lavori di merda fino alla fine. Jane apparteneva al secondo tipo di persone e si dava per morta prima di aver vissuto, in momenti come quello. Se avesse potuto si sarebbe presa a schiaffi da sola, ma era troppo stanca, troppo pigra anche solo per sollevare un braccio, anche se di certo avrebbe voluto. Quando è così il silenzio ti fa sentire solo finisce che ascolti suoni che prima ignoravi, cercando di riempirlo.
    The kids in the halls and the pipes in the walls
    Make me noises or company
    Long distance callers make long distances calls
    And the silence makes me lonely

    In ogni caso il mal di testa era troppo forte per sopportare ancora la musica, quindi rimase stesa lì, nel suo nulla.
    Il campanello trillò e la rossa strizzò gli occhi, stizzita.
    -Ma chi diavolo…?- mormorò. Il campanello suonò ancora. Una, due, tre volte. Si potrò le mani alle tempie. –Basta, cazzo, basta, chiunque tu sia vaffanculo, lasciami in pace!- urlò, ma il campanello non voleva star zitto, così la ragazza si alzò come una furia e raggiunse l’ingresso a grandi falcate.
    -Chiunque tu sia ti conviene che sia importante, altrimenti giuro che…- quando aprì la porta la voce le morì in gola, così come la rabbia precipitò al suolo dissolvendosi. Una piccola ragazzina minuta dai capelli blu la stava fissando in silenzio, immobile, ma niente in lei lasciava pensare che fosse calma, no, era elettrica, dinamica, come una bomba a orologeria pronta a distruggere tutto o una molla che sta per scattare. –Che cosa ci fai…- iniziò a chiedere, ma non poté finire la frase che l’ennesimo pugno le si abbatté e contro il naso.
    -Sei una stronza!- sbraitò Max. -È tutta colpa tua, fanculo, io non dovrei essere qui!- Jane sapeva che avrebbe dovuto essere infuriata, accidenti, era l’ennesimo pugno che si prendeva in un lasso di tempo ridicolo, o quantomeno irritata dal comportamento scostante di quella stronzetta, il suo naso sanguinava ancora e le faceva male da impazzire, ma era così contenta di vederla che avrebbe potuto sopportare questo ed altro, quindi non disse niente.
    –Dovevi starmi lontana! Dovevi stare alla larga da me, perché cazzo non potevi restartene a Seattle o dove cazzo eri andata a cacciarti?! Tu con le tue arie da puttana arrogante e quegli occhi… questo non è giusto! Non è giusto!- gridò ancora, per poi afferrare la sventurata per il colletto della vecchia camicia di flanella e baciarla con tutta la rabbia e l’amore di cui disponeva. Due sentimenti contrastanti che ora si infrangevano in quel gesto, mentre la rossa afferrava Miss testa blu per le gambe e la sollevava, prendendola in braccio. Non capiva che diavolo stesse succedendo, ma si disse che non aveva nessuna importanza. La gettò sul divano nella stanza comune e quasi le strappò di dosso la maglia dei Misfits. Le morse il collo e le spalle. Ogni gesto, ogni sospiro sembrava gridare che si odiavano e al contempo che si erano mancate. Avrebbe dovuto preoccuparsi del fatto che se fosse rientrato qualcuno tutto quello sarebbe andato a puttane e conoscendo Max magari sarebbe sparita ancora, pentendosi di quello che aveva fatto, ma non c’era spazio per pensare, ne avevano a malapena per respirare.
    Avrebbe voluto dirle che l’amava, ma sarebbe stato inutile, ridondante e la puntina del giradischi crepitava ancora sul limitare del piatto.


    -Dannazione, Brat! Ti ho cercato ovunque! Hai saltato le prove, cazzo, registriamo fra una settimana e adesso tu inizi a saltare le prove?- Spike parlava, sedendosi sullo sgabello accanto al suo, ma il ragazzetto non ascoltava una parola. Era rintanato al Donkey & Goat Winery da un tempo indeterminato scandito solo dai bicchieri vuoti abbandonati sul bancone del bar che come carcasse lo fissavano con sguardo vitreo. Era al settimo sorso di Bourbon e non aveva nessuna intenzione di fermarsi. Ricordava ancora il proprio nome e tanto bastava per persuaderlo a continuare. –Che accidenti stai facendo? Ho girato mezza città per trovarti, che sta succedendo?- Brat finalmente spostò lo sguardo sull’amico senza dire niente, ma sapeva che non ce ne sarebbe stato bisogno: gli occhi rossi gonfi di lacrime e rabbia, la bocca distorta in una smorfia di acido disgusto e il respiro flebile erano un messaggio sufficientemente chiaro. Qualcosa non andava come doveva. –Mary?- chiese l’altro ed egli si limitò ad annuire, per poi fare cenno al barista di portargli ancora un bicchiere.
    -Jackie è un figlio di puttana, ma questo lo sapevo, quello che non sapevo e che lei fosse merda almeno quanto lui- la voce con cui pronunciò queste parole era piatta, atonale, spenta. Quasi come lui. –Mi infilo sempre in queste situazioni del cazzo, ma questa volta pensavo fosse diverso, pensavo che sarebbe andata meglio, lei non era come le altre, mi dicevo e no, non lo è, lei è peggio.-
    -Che cosa è successo esattamente?- Brat sogghignò.
    -Lascia perdere-
    -Si, come vuoi, ma in tutto questo bere non ti impedirà certo di essere un idiota che si innamora delle peggiori stronze che questa terra abbia mai visto e non ti permetterà di dimenticarlo, quindi ora possiamo tornare a…- Spike fece per afferrarlo per le spalle e aiutarlo ad alzarsi, ma questi lo spinse via con forza, rigettandolo sullo sgabello.
    -Non bevo per dimenticare queste puttanate, bevo per non sentire la nausea che tutto questo mi da-
    -A si, ottimo piano, e poi? Saltiamo anche la registrazione perché ti viene la nausea a stare sobrio?-
    -Hey, andiamo, ti vuoi rilassare? Proviamo tutti gli stramaledetti giorni. Domani sarò di nuovo in sala, se è questo che ti preoccupa e ora puoi anche levarti dai piedi, voglio restare solo-
    -Oh no, bello mio, te lo scordi che..-
    -Cosa non ti è chiaro?!- urlò Brat, facendo girare tutti i clienti del locale. La sua voce risuonò ancora per qualche secondo nelle sorde pareti e contro il soffitto basso, facendo vibrare le vecchie lampade al neon. Tutto parve fermarsi per un istante per poi ripartire, come se Dio avesse messo in pausa il film giusto il tempo necessario per prendere fiato.
    –Voglio stare solo. Va’ via di qui, è meglio. Non ho bisogno di sentirmi ancora più patetico di quanto non sia-
    -Ti ho visto in situazioni peggiori-
    -No, non è vero- il bassista fece per dire qualcosa, certo, avrebbe voluto smentirlo, ma purtroppo aveva ragione. L’aveva visto piangere e arrabbiarsi, l’aveva visto prendere a pugni il muro e urlare, bere, fumare e andare a puttane un giorno si e l’altro pure. L’aveva visto diventare il peggior bastardo del mondo e l’aveva lasciato fare nella consapevolezza che sarebbe tornato tutto apposto, una volta smaltita la rabbia e la frustrazione, ma questa volta Brat non piangeva ne si dimenava, questa volta era come se qualcosa si fosse rotto. Nel suo sguardo non c’era più energia, che fosse positiva o negativa, c’era solo ghiaccio, disillusione. Per la prima volta era spento, morto, distrutto e amareggiato. Era come se quella ragazza, qualsiasi cosa avesse combinato, gli avesse dato una lezione, come se fosse arrivata più a fondo delle altre e andandosene avesse lasciato un solco che andava ben oltre la pelle. Si passò una mano fra i capelli e sbuffò.
    -Come ti pare, ci vediamo a casa- concluse, alzandosi e uscendo dal bar.
    Il ragazzino mandò giù l’ottavo bicchiere tutto d’un fiato. La vista iniziava ad appannarsi e tutto si confondeva intorno a lui. Era quello che voleva. Di solito in una situazione come quella aveva solo bisogno di sfogarsi, ma adesso non voleva che passasse, no, voleva ricordare come ci si sente, voleva imparare. Non era mai stato un tipo orgoglioso e Dio solo sapeva quanto reputasse inutile esserlo, aveva sempre lasciato scorrere ogni emozione liberamente, perché in fondo era questo che lo faceva sentire vivo, ma ora il problema era che non provava assolutamente niente, vedeva tutto da lontano, come da fuori di sé e questo gli dava la nausea, una nausea che si annullava a ogni sorso a pancia vuota.
    -Amico, versane un altro e fammelo doppio- biascicò. Il barista, un tipo alto e ben piazzato dalla testa lucida e il pizzetto scuro, lo squadrò da capo a piedi, come se non fosse sicuro che fosse consapevole di quello che stava chiedendo.
    -Devi guidare?- chiese.
    -No- rispose, secco. Il tizio fece le spallucce e gli porse un altro bicchiere. In realtà non ricordava affatto se fosse venuto in macchina o no, ma anche se l’avesse avuta appena fuori dal locale non l’avrebbe presa, voleva camminare senza sapere dove andare e ritrovarsi a riflettere su cose assurde e inutili. Per ora tentava di vedere il lato positivo, pensava che sarebbe potuto uscire un bel pezzo da quella storia, uno sull’apatia, magari, sul sentirsi svuotati, quando il Jukebox stridette e fece partire Friday I’m in Love dei The Cure. Doveva essere una congiura, si disse. La canzone della loro prima sera, al diavolo. Si alzò e si avvicinò all’aggeggio, per poi iniziare a colpirlo ripetutamente.
    -Qualcuno tolga questa merda, cazzo!- grugnì. Il cuore iniziò a pompare forte il sangue nelle sue vene e le emozioni stavano iniziando a tornare, tutte insieme in un’unica volta, la sua testa era affollata di pensieri, immagini, suoni. L’alcol faceva effetto e ora era del tutto incontrollabile, indomabile. Ora voleva solo fare a botte, non gli importava che fosse lui a prenderle oppure no, anche se fosse stato un gran combattente e non lo era di certo, sarebbe stato troppo ubriaco per assestare anche solo un pugno. In effetti avrebbe fatto meglio a non alzarsi.
    -Hey, ragazzino, dacci un taglio o ti sbatto fuori!- ruggì il barista da dietro il bancone.
    -Solo quando qualche cristiano cambierà canzone, accidenti!- rispose, rifilando un altro calcio al Jukebox.
    -Se non ti piace questo pezzo levati dalle palle- Brat guardò il tizio sfoderando l’espressione più arrogante di cui disponeva.
    -Certo, con il tuo permesso, figlio di puttana- mugugnò con la voce impastata dal Bourbon esibendosi in una maldestra riverenza, al che l’uomo scattò, superò il bancone e gli corse in contro, afferrandolo per la manica della maglietta.
    -Come ti permetti, pivello?-
    -Hey, vacci piano bestione, questa maglietta vale più di te e l’ho pagata un quarto di dollaro- il ragazzino sogghignò. Il suo istinto di sopravvivenza era certo andato a farsi benedire con la sua sobrietà, non che fosse la prima volta che si trovava in una situazione simile, ma la sua arroganza era del tutto irrefrenabile in momenti come quello. Il barista, infuriato come non mai, lo trascinò con se fino alla porta del retro e lo spedì fuori con un forte calcio nel culo, facendolo finire a pancia in giù sullo sporco asfalto di un vicoletto, fra sacchi di immondizia e bidoni.
    -E non farti più rivedere o giuro che te ne mollo uno proprio sul naso, pivello- concluse, tirando dietro la porta che si chiuse con un tonfo secco.
    Brat si rigirò, mettendosi a sedere.
    -Vaffanculo!- urlò, agitando il dito medio contro il buio.
    -Cavolo, l’hai fatto proprio incazzare, eh?- una voce femminile attirò il suo sguardo verso l’uscita del vicolo. Nell’ombra c’era una figura scura a malapena illuminata dalla luce di una cicca accesa.
    -Tu chi sei?- chiese lui, disorientato. La figura aspirò dalla sigaretta e fece un passo avanti, entrando nel cono di luce del lampione che, non troppo distante, rischiarava di una luce fioca la quinta strada.
    Era una ragazzina minuta, la pelle era candida, quasi trasparente e i capelli scuri erano raccolti una morbida coda che lasciava sfuggire qualche ricciolo ribelle. Era piuttosto carina, in effetti, ma il nanetto era troppo ubriaco e c’era davvero troppo buio perché se ne rendesse conto.
    -Mi chiamo Adie e lavoro qui.-
    -Adie è il diminutivo di..?-
    -Di niente, sono solo Adie, Adie Mickolson. Cavolo, le cose divertenti succedono sempre quando sono in pausa, la settimana scorsa uno si è spogliato e ha iniziato a correre per il locale nudo come mamma l’ha fatto, ma ti pare? Doveva essere uno schizzato del cazzo, credimi. Comunque ero fuori e mi sono persa la scena, accidenti, me l’ha raccontata Alex-
    -Alex sarebbe quel simpaticone del tuo capo?-
    -Si, non me ne parlare, è la persona più irritabile che abbia mai conosciuto. Un vero e proprio scimmione in effetti- ridacchiò. Aveva una risata cristallina, contagiosa. -Che cosa hai fatto per farlo incazzare?-
    -Ho… preso a calci il Jukebox e… credo di essere stato anche piuttosto stronzo-
    -Ma dai, sai, me l’aspettavo, e poi sento la puzza di alcol da qui, cos’è, Bourbon?-
    -Si, in effetti è Bourbon. Comunque non mi sono ancora presentato, io mi chiamo Brat, Brat …-
    -Si, so chi sei-
    -Come lo sai?-
    -Bazzico spesso il Gilman, ti ho visto lì con la tua band, siete bravi, sai?-
    -Grazie-
    -Figurati. Allora, dimmi, che ci fai a bere in un posto come questo?- chiese Adie, afferrando una sacca di spazzatura, sistemandola a mo’ di cuscino e sedendosi accanto al ragazzo.
    -Serve una scusa per bere?-
    -Nessuno ha detto che la risposta non poteva essere semplicemente “perché mi andava”.-
    -Perché mi andava-
    -Si, certo, ovviamente ora io dovrei fare la parte della sconosciuta che ci crede e che torna dentro, lasciandoti qui da solo, no?-
    -Cosa vuoi che ti dica?-
    -Prova con la verità. Ti va’ una sigaretta?- domandò, porgendogli il pacchetto. Per un attimo lui valutò la possibilità di rifiutarla, ringraziare la ragazza e andarsene, ma in fondo non aveva niente di meglio da fare e a parte il fatto che parlava un po’ troppo non gli sembrò così pessima l’idea di passare un po’ di tempo con lei. Inoltre si era appena reso conto di aver lasciato il proprio pacchetto sul bancone. Prese la sigaretta.
    -Una ragazza-
    -Oh si, lo immaginavo, sono le mie storie preferite-
    -Le tue storie preferite?-
    mi piace lavorare qui, certo, la paga è uno schifo e i clienti sono anche peggio, ma a volte capita qualcuno di interessante con una storia da raccontare. Chiami pure sfigata, se ti va’. In ogni caso racconta-
    -Non c’è niente da dire, lei è una principessa da quartieri alti in rovina e io un niente. Era inevitabile che finisse, solo che…-
    -Solo che?-
    -Che pensavo fosse diversa da tutte quelle che ho trovato-
    -Certo, lo pensate tutti, sempre- Brat si voltò a guardarla.
    -Che vuoi dire?-
    -Che non è così e sono le puttanate che quelli con il cuore ferito si raccontano per giustificare quanto siano stati stupidi. Per come la vedo io, se lei si è persa uno come te non ti meritava e basta ed è un’idiota, meglio perderle che trovarle quelle così.-
    -Tu che ne sai di com’è “uno come me”?-
    -Non lo so, immagino che tu sia il classico ragazzetto di periferia, sai, di quelli buoni che fanno gli stronzetti, che suonano per cambiare la loro esistenza e il mondo perché non vedono altre possibilità e che si innamorano di ogni ragazza che vedono o che gli sorride-
    -Oh cazzo, sono davvero un tipo così comune?-
    -Un po’- ammise – e poi è come immagino debba essere uno che suona al Gilman, che porta il berretto al contrario e che si fa buttare fuori da un locale per aver preso a calci un Jukebox. Ne ho conosciuti tanti così, anche se la maggior parte erano degli idioti… comunque io devo tornare dentro- disse, alzandosi e gettando il mozzicone. - È stato un piacere conoscerti, Brat- saluto, voltandosi verso la porta da cui il ragazzetto era stato scaraventato fuori.
    -Aspetta! Non mi hai detto la tua, di storia-
    -Che vuoi dire?- chiese lei, voltandosi.
    -Hai detto che ascolti quelle di tutti, che ti piace. E se io volessi sentire la tua?-
    -Senti, sarò anche solo una barista ma non sono così stupida. La fase autodistruttiva comprende del sesso occasionale, lo sanno tutti, peccato che io non sia in quella fase come te e che abbia del lavoro da sbrigare, quindi…- Beccato in pieno. Lei, con quei suoi occhietti scuri da cerbiatta, l’aveva smascherato in meno di un battito di ciglia e se prima quella ragazza era solo un rumorio di sottofondo, ora era quantomeno interessante.
    -Guarda che io parlavo sul serio- mugugnò.
    -Bè, allora sai dove trovarmi, lavoro qui tutti i giorni tranne il sabato-
    -Ma io non posso più entrare là dentro, quello scimmione del tuo capo mi ha bandito-
    -Se davvero ti interessa dovrai ingegnarti, ma dubito, sei così ubriaco che domani non ricorderai neanche che abbiamo parlato, perciò ci si vede in giro, buona fortuna!- concluse, rientrando nel locale e chiudendosi la porta alle spalle.
    Così Brat rimase da solo. Erano le prime ore del mattino, l’aria era fredda e il sole sembrava non dover sorgere più. A fatica si sollevò in piedi e barcollò fino al lampione, aggrappandosi ad esso. Non sapeva dove andare ne cosa fare, la rabbia non era sparita, no, era ancora lì, ma sembrava addormentata sotto il lieve torpore da ubriacatura che lo avvolgeva. Il 1403 era qualche isolato più in là, sulla parallela della quinta, ma non era lì che voleva andare, non era a quella casa che sarebbe tornato. Lui voleva camminare e pensare lucidamente, troppo mentale per impazzire, troppo ubriaco per essere puro, si disse che la sua casa era ovunque e che avrebbe camminato fino all’alba per smaltire la sbronza. Sospirò e si lasciò cadere seduto sul marciapiede. Invece di muoversi rimase lì, ad aspettare i primi raggi dell’alba e sperando che spegnessero ogni ricordo che gli era rimasto di Mary Smith.
    Poi sorrise, ripensando alle parole di Adie “…sono le puttanate che quelli con il cuore ferito si raccontano per giustificare quanto siano stati stupidi”e sorrise alla notte e alle sue stelle mute, ringraziandole.


    L’alba sorgeva lenta fra piccole e soffici nuvole plumbee cariche di pioggia sulle acque scure del Pacifico, riscaldando l’aria ancora gelida della notte. Max e Jane se ne stavano sedute sul cofano della Volkswagen che la rossa aveva requisito per scappare da Seattle in silenzio. La radio dall’interno gracchiava sommessamente Welcome to the Jungle dei Guns n’ Roses.
    -Questa canzone fa davvero schifo- sussurrò la ragazza dai capelli blu, come per non disturbare quella scena mozzafiato. L’ultimo pezzo della Gilman street costeggiava l’Oceano, prima di scomparire nel nulla e lì, sul ciglio della strada, le ragazze avevano parcheggiato l’auto.
    Jane rise. –Neanche a me piacciono, ma la radio non sembra avere intenzione di dare niente di buono, stamane- rispose e si zittirono ancora. La verità era che stavano evitando con tutte le loro forze di parlare di quello che era successo, Jane dal canto suo aveva paura di forzare la mano e di ottenere solo un altro cazzotto e un biglietto di sola andata per l’inferno, mentre l’altra non voleva in alcun modo ammettere che le fosse mancata, o che la amasse. Non voleva dirle di averla aspettata e cercata, non voleva darle nessuna soddisfazione, ma era sempre stata così: lunatica, irascibile, proprio non capiva cosa ci trovasse quella stronzetta in lei. Pensò che forse chiederglielo sarebbe stato un buon modo per iniziare a parlarne.
    -Jane… prendila pure come una domanda stupida…- mugugnò, abbassando lo sguardo per nascondere l’imbarazzo. -… ma mi dici che diavolo ci trovi in me? Perché sei tornata e perché ti sei presa tutti quei colpi e tutto il resto solo per avermi di nuovo con te?-
    -Vedi, tu sei il punk, la rivoluzione, il cambiamento. Non saprei spiegarlo meglio, ma dato che hai fatto una domanda stupida sarò costretta a dare una risposta stupida: sei forte, testarda, violenta, inarrestabile, distruttiva…-
    -Sembra che tu stia descrivendo un’esplosione atomica o qualcosa di simile-
    -Si, esatto, è proprio questo il punto: tu sei così. Sei come un’esplosione, una catastrofe naturale. Quando ti ho vista scendere dall’autobus, quel giorno, a scuola, l’ho capito subito che eri così, già, l’ho visto nei tuoi occhi. Darei la mia anima per vederti provare a cambiare il mondo, è come se tu fossi la risposta-
    -Che stronzate. Bella risposta, una drogata che dorme con dei barboni e che vive per lasciarsi fottere il cervello da quella merda.-
    -Solo perché tu hai deciso di buttare via il tuo tempo nel niente non significa necessariamente che tu non valga niente. Hai deciso che la tua vita era una merda e che tu dovevi essere al suo livello, hai deciso di non essere in grado di fare meglio, ma questo non significa che sia vero.-
    -Sei solo una povera illusa-
    -Meglio un’illusa innamorata che una drogata senza speranze, non credi?-
    -Si, vaffanculo.- grugnì Max, portando le gambe al petto e stringendole fra le braccia, come farebbe una bambina offesa.
    -Insomma, vogliamo… parlare di quello che è successo o continueremo a far finta di niente in eterno?-
    -Se ti dicessi la seconda mi daresti dell’idiota?-
    -Si, saresti un’idiota-
    -Non c’è niente da dire, di cosa dovremmo parlare? L’abbiamo fatto ed è stato bello, era passato tanto tempo, che altro c’è da dire?- Jane sbuffò, spostando lo sguardo verso l’orizzonte.
    -Che testa di cazzo che sei, al diavolo, cosa potevo aspettarmi? Mettiamola così- disse, alzandosi in piedi e poggiando le mani sul cofano della Volkswagen, avvicinando il proprio viso a una spanna da quello di Miss testa blu –Io sono innamorata di te- asserì. –Lo sono sempre stata e probabilmente lo sarò sempre, insomma, si, mi hai presa a pugni, mi hai insultata e mi hai trattata da merda umana, ma non ha importanza, posso sopportare questo e altro. Sono una stronza, sono una che molla, sono una testa di cazzo, sono tutto ciò che vuoi, tutto ciò che odi, ma questo è quanto. Ora dimmi cosa vuoi fare, una volta per tutte, o qui ci divento matta. Non posso prometterti niente, non posso dirti ne che cambierò ne che siamo destinate a stare insieme per sempre o cazzate simili. Non posso prometterti che sarai felice o che andrà tutto bene. So solo che sei la cosa più bella che abbia mai visto e che mi fai diventare matta, quindi come la mettiamo? Avevo finalmente preso la decisione di lasciarti in pace e ti sei presentata sulla porta di casa mia, quindi ora me la devi una risposta.- piccole gocce iniziarono a precipitare dal cielo, infrangendosi al suolo e contro di loro, bagnandogli i capelli, i vestiti, i visi.
    -Io… non lo so, Jane- di certo non era la risposta che desiderava, ma almeno sembrava intenzionata a parlarne e questo era sicuramente un bel passo avanti.
    -Cosa vuol dire che non lo sai?-
    -Vuol dire che non ne ho idea. L’altra volta mi hai uccisa, l’hai capito o no? L’altra volta ti ho cercata e ricercata, ho speso mesi a chiedermi cosa avessi sbagliato. L’altra volta ho perso tutta la mia cazzo di dignità perché pensavo che tu ne valessi la pena. L’altra volta le cose sono andate a puttane, ecco cosa.-
    -Si, brava, l’altra volta. Altro momento, altra storia, altra situazione. Non hai intenzione di riprovarci? Sei così codarda e cocciuta da pensare che non possa avere un epilogo diverso? Da quando sei così previdente? Cazzo, e lasciati andare!-
    -Devi avere proprio una gran faccia tosta per rifilarmi queste puttanate-
    -Cazzo, Max, dimmi cosa vuoi.-
    -Non lo so…-
    -Dimmi una volta per tutte cosa cazzo vuoi!-
    -Voglio stare con te- disse e la sua voce risuonò per tutta la baia calma, pacata, consapevole. Niente tentennamenti, niente bugie. Il suo orgoglio ora era assopito, come sconfitto sotto le gocce di una pioggia illuminata dai primi raggi del sole o ben corrotto dal verde brillante degli occhi di Jane. Non avrebbe aspettato un solo secondo di più, era sempre andata più che altro ad istinto e in fin dei conti era ancora viva, perciò perché fermarsi adesso?
    La rossa le prese il viso ormai fradicio fra le mani e la fissò ancora per qualche secondo, come per darle il tempo di rifiutarsi, di tirarsi indietro, poi la baciò sotto il primo sole del 27 Gennaio 1991, nel silenzio carico degli odori e dei suoni di una piovosa mattinata invernale, mentre la radio gracchiava pigramente la versione dei Ramones di Have You Ever Seen The Rain.

    “Someone told me long ago
    There’s a calm before the storm
    I know, it’s been coming for sometime

    When it’s over, so they say
    It’ll rain a sunny day
    I know, shining down like water

    I wanna know, have you ever seen the rain?
    I wanna know, have you ever seen the rain,
    Coming down on a sunny day?”
     
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  10. Matthew970
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    Letto solo ora, scusa il ritardo, allora, mi sono piaciute le dinamiche. Unico appunto, anche se di solito lascio perdere a dirlo, ma ci sono parecchi errori di virgole assenti o simili.
    A parte questo, la scrittura procede allo stesso livello e questo mi piace, inoltre hai il talento di rendere interessanti anche dei personaggi detestabili, perché li spieghi e vai a fondo nella loro psicologia, quindi in qualche modo giustifichi le loro azioni presenti.
    Ciò che provo leggendolo molto spesso, e' che mi piacerebbe forse conoscere di persona i personaggi o vivere nella storia. E questo mi accade raramente, e cioè il sentirmi in qualche modo protagonista di una vicenda, piuttosto che tagliato fuori, perché troppo diversa da me.
    Non so se rendo l'idea.
    Sono contento che ti prendi il tuo tempo per decidere bene come muoverti, invece di buttarti e scrivere di impulso e improvvisazione come faccio io, perché sicuramente le tue possibilità di pisciare fuori dalla tazza diminuiscono.
    Peccato che non vedo molte persone che ti commentano la storia perché merita tanto, e in un certo senso, sono anche i lettori a rendere una storia viva, in quanto fruitori.
    Comunque da una parte mantieni sempre il tuo sprezzo del pericolo, io personalmente mi ripeto mille volte che faccio cagare o altro e alla fine influisce negativamente sulla mia forza narrativa. Tu invece devi proprio mantenere questa energia e far accadere gli eventi con la stessa potenza di, che ne so un musicista su un palco davanti a tante persone. Ecco, trova quella forza e quello sprezzo del pericolo anche nella scrittura. Non pensare neanche un attimo di dover mettere in dubbio le tue capacità, spendi le tue energie solo sul pensiero che se ti ci dedichi al cento per cento ci riesci e spacchi i culi.
    Ecco, io cazzo, se non mi massacrassi di insicurezze e di cazzate ma scrivessi come un tempo cioè senza fottermene di nulla godrei anche di più, ma ora ho sto demone di merda che mi butta giù e mi dice sempre, no, non ce la fai, no fai cagare.
    Mi sa che ho scritto troppo, comunque spero di averti incitato almeno un po' ^_^
     
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  11. Kathrins
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    mi piace molto lo svolgersi della situazione, ed è ottima anche la descrizione dei movimenti e dei pensieri.
     
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    Ho letto un po' di ciò che hai scritto, l'ho trovato molto intenso. Consiglio solo un piccolo lavoro sull'editing del testo, anche sulla leggibilità dello stesso, cioè fare paragrafi più brevi e frequenti per intervallare la lettura, per il resto bella trama
     
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131 replies since 4/5/2016, 10:56   1072 views
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