We've got to get in to get out

Avevano combattuto fino allo stremo contro se stessi per dimenticare tutto ciò che avevano passato, tutto il tempo che avevano lasciato indietro e ora non ricordavano neanche il perché.

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  1. Brat Fitzparker
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    So much damn confusion before my eyes, but nothing seems to phase me and this one still survive.

    Quando Jane aprì gli occhi, la mattina dopo, si ritrovò a fissare il corpo dormiente di Jim che giaceva con lei nel vecchio materasso e a pensare. Lo faceva fin troppo spesso per i suoi gusti. Rifletteva su quanto fosse dannatamente perso, aveva vent’anni e lavorava come cameriere in una pizzeria sulla nona, fino al giorno prima. Ora era di nuovo senza lavoro. I clienti non gradivano essere serviti da un ragazzo simile: aveva i capelli neri, corti, perennemente spettinati, non che non provasse a pettinarli, a ordinarli, lui, ma esattamente come i suoi pensieri andavano dove volevano. Pelle bianca, occhiaie scure, segno indelebile di tutte le sue pessime abitudini, e occhi azzurri, così chiari da sembrare quasi trasparenti. Aveva delle scritte, su tutto il corpo, a sedici anni aveva speso i pochi soldi che restavano della pensione di invalidità del padre per comprare una macchinetta per tatuaggi, e si era fatto scrivere addosso una frase dopo l’altra; film, canzoni, libri, c’era di tutto. Qualcosa dei Misfits e dei Ramones, qualche parola anche dei Clash, una frase di The Catcher in the Rye e dei Fiori del Male, di Baudelaire, una frase dei Queen, e una dei Social Distortion. Qualcosa dei Nirvana e dei The Cure. C’erano anche i Distillers, i Descendents. Il suo corpo era un enorme pagina bianca, per lui, e si era fatto scrivere qualcosa ovunque. Ora Jane leggeva le parole in inchiostro nero “Nobody’s perfect and I stand accused”. Era stata la prima che si era fatto. Jane lo sapeva perché era stata lei stessa a scriverglielo. Erano cresciuti insieme, scappati insieme. Lei era per lui come una madre. In ogni caso ai clienti non piacevano neanche le tumefazioni che si nascondevano all’interno dei gomiti del ragazzo, e fra le dita di mani e piedi, che a volte avevano avuto occasione di intravedere, e neanche l’alito che puzzava di alcol, o le pupille dilatate, perciò finiva sempre per essere cacciato. Avrebbe dovuto arrabbiarsi, cacciarlo via di casa, forse, perché non faceva altro che buttare il poco che guadagnava, non faceva altro che investirlo sulla sua morte, ma in effetti non ci riusciva, magari perché anche lei perdeva un lavoro a settimana, anche se per ben altri motivi, o forse perché, in un certo senso, riusciva a capire perché lo facesse. Era stato un bambino e un ragazzo fantastico, e un musicista formidabile. Aveva perso tutto il suo tempo a scrivere canzoni giuste per il mondo sbagliato, a predicare il bene in faccia al male, aveva sognato di riscattare il suo passato con il suo futuro, ma, che avesse sbagliato strada, o che semplicemente non ne avesse presa una, ora aveva fallito ed era perso, e non faceva altro che lasciarsi andare. Si era rassegnato, e ora si lasciava morire. Jane lo compativa, la differenza fra loro due era che lei era troppo codarda per cercare la morte, o magari non se ne dava neanche conto, ma non si sarebbe mai rassegnata all’idea che tutto il tempo che le era stato dato fosse da buttare.
    Scosse la testa per scacciare il ricordo di quello che Jim era, l’immagine di quello che avrebbe potuto essere. Dal fondo è difficile risalire, lo sapevano entrambi, e ora a lui semplicemente non importava più, e lei si sentiva la vergine Maria dei derelitti.
    Si alzò, e camminando verso la cucina il suo sguardo cadde sul divano nel quale dormiva Mary. Si era dimenticata della sua presenza, della sua stessa esistenza. Non riuscì a controllare l’espressione schifata che in seguito si dipinse sul suo volto: quella schifosa ragazza. Magari non avrebbe saputo spiegare con esattezza perché non la sopportasse, magari non aveva motivo di giustificarsi, ma se ci avesse riflettuto sarebbe arrivata alla conclusione che quella stronzetta non aveva dovuto mai preoccuparsi di nessuno, neanche di se stessa, mentre lei, come tanti del resto, fin da quando era piccola aveva dovuto cavarsela da sola. Non aveva avuto nessuno e aveva dovuto imparare a badare a se stessa. La verità era che per Jane trovava il tutto solo completamente e profondamente ingiusto. Mary era una ragazza che non valeva niente, e volendo avrebbe potuto ottenere tutto, mentre un ragazzo come Jim, che valeva tutto, non avrebbe mai ottenuto niente. Non sapeva neanche perché le aveva concesso un posto dove dormire, quella notte, forse perché in fondo non le costava niente, o forse perché senza quella casa non avrebbe superato la notte indenne e non voleva sentirsi responsabile o averla sulla coscienza, ma ora era decisa a cacciarla.

    Mary spalancò gli occhi e si mise a sedere. Le girava la testa, non capiva dove si trovasse, non ricordava. Le carta da parati color crema, macchiata e logora, strappata in alcuni punti, e quel disordine, quella stanza totalmente priva di arredamento, fatta eccezione per il materasso, il divano su cui dormiva, il televisore e le cianfrusaglie sparse per terra la disorientavano. Volse appena il viso e incontrò quello di Jane, appena oltre il bracciolo del suo giaciglio, intenta a colpirlo quasi delicatamente, quanto bastava per farlo tremare e svegliarla. Ricordò tutto e rimpianse quel mezzo istante in cui, nonostante si sentisse totalmente persa, non aveva idea di cosa le fosse successo. Le venne di nuovo da piangere, come la notte prima, quando erano entrate in casa e aveva visto qual’era la miseria in cui era precipitata.
    Enormi lacrime calde iniziarono a cadere dai suoi occhi. Ora si aspettava qualcosa, un abbraccio, una carezza, un qualsiasi gesto di conforto, che però non arrivò.
    -Devi levarti dalle palle- disse gelida Jane, per poi voltarsi e andare verso la cucina.
    Mary rimase immobile, in silenzio. Le sarebbe sembrato di star impazzendo, se non avesse danzato con la follia, qualche notte prima. Si asciugò le lacrime, dicendo a se stessa che non poteva aspettarsi niente da quell’infima ragazza. Probabilmente non sapeva neanche cosa volesse dire dare conforto a qualcuno, probabilmente non provava neanche emozioni. Non la sfiorò neanche il pensiero che, se così fosse stato, lei non avrebbe passato quella notte al coperto.
    La raggiunse in cucina –Non so dove andare Jane..- disse.
    -Non è un problema mio. Tornatene a casa- risposte quella, senza neanche voltarsi, impegnata com’era a tentare di accendere il fornello.
    -Io non ho più una casa…- continuò Mary.
    Jane rise -Senti, probabilmente il paparino avrà avuto i suoi buoni motivi per non comprarti quelle scarpe che tanto desideravi. Magari ha avuto un attacco fulminante di buonsenso e ha deciso che lasciarti spendere quello che pago io di affitto per questo buco in tre mesi era assurdo, in ogni caso, qualunque siano state le sue motivazioni, aveva ragione. Torna da lui, te ne comprerà un altro paio a un prezzo meno assurdo, magari-
    -Mio padre è morto- rispose secca Mary. Jane si voltò.
    -Come?- non si aspettava certo una risposta così. Non aveva pensato neanche per un secondo che potesse essere cambiato qualcosa, nella vita da favola di quella ragazza. Everything turn to dust non pensava che valesse proprio per tutto, o per tutti. Di certo non per lei.
    -L’altra notte. Qualcuno è entrato in casa. Ha sparato ai miei genitori- spiegò. La rossa sbuffò e tornò a voltarsi verso i fornelli.
    -Brutta storia, ma una casa ce l’hai ancora, a meno che non siano riusciti a rubare chissà quante tonnellate di cemento-
    -Ho trovato io i corpi. Non posso tornare in quel posto-
    -Perfetto, allora vado io a vivere lì e tu resti qui, ci stai?-
    -Non sei divertente- niente di quella conversazione aveva senso. Possibile che Jane non avesse un minimo di cuore?
    -Non hai amici? Parenti? Nessun altro a cui spaccare le palle alle nove e mezzo di un Mercoledì mattina?- Mary ci penò su. In effetti aveva amici, aveva parenti, aveva tante possibilità, allora perché non andava da loro? Poco fuori città la sua prozia Katie Barret aveva una villa enorme, di certo non le avrebbe negato un alloggio. Ma allora perché non voleva andarci?
    -No, non ne ho- rispose. Forse era perché non aveva intenzione di mostrarsi in quelle condizioni a qualcuno che sapeva chi fosse, o forse perché dopo esser stata trovata raggomitolata in un bagno, fradicia e circondata dal suo stesso vomito e dai flaconi vuoti di tutti i medicinali che possedeva le sembrava di non appartenere neanche più a quel mondo che tanto aveva amato. Non si sentiva più una principessa e, in qualche modo, non pensava che sarebbe mai potuta tornare ad esserlo. Di certo con una rozza ragazza di periferia con i capelli tinti che vive in una betola come quella poteva continuare a recitare la sua parte da regina in rovina, ma con qualcuno che sapesse cosa significa esserlo non sarebbe stato altrettanto facile. La sua candida purezza di damigella era stata macchiata da quel gesto suicida e patetico, Dio non perdona, figuriamoci l’uomo ricco. Ora sentiva di non meritare altro che quel buco schifoso.
    Jane, nel frattempo, era rimasta in silenzio. Non aveva considerato la possibilità che quella stronzetta bionda potesse avere davvero bisogno di aiuto, e adesso, forse, una parte delle sue convinzioni, secondo cui una riccona non poteva che salire più in alto, stava crollando.
    Non le disse niente, poi. Continuò a stare zitta.

    -La lascerai restare?- chiese Jim. Era pomeriggio inoltrato, e lei quel giorno non era andata a lavoro. Non poteva certo permetterselo, ma se la sarebbe cavata. Come sempre. In fondo non le importava.
    Mary era uscita, non con la promessa di non tornare, certo, ma, almeno per qualche ora, Jane avrebbe potuto stare seduta a bere una birra sola con Jim. Era tanto che non aveva occasione di parlare con lui da sobrio. Jim era raramente presente a se stesso, ma quella sera era con lei, e stavano parlando seduti l’uno accanto all’altra, con i piedi poggiati al davanzale dell’unica finestra che illuminava la casa, con la radio che sussurrava piano le parole di Poison Heart dei Ramones.
    -Non posso dovermi occupare anche di lei, e lei da sola non sa occuparsi neanche di se stessa-
    -Neanche io, eppure sono qui- lei sbuffò.
    -Jim, con te è diverso. Siamo cresciuti insieme, e meritavi aiuto-
    -E lei non lo merita?-
    -No-
    -E perché?-
    -Perché non farebbe mai lo stesso per me, o per te, o per chiunque altro- la canzone andava avanti.
    “No one ever thought this one would survive, helpless child, gonna walk a drum beat behind”
    -Neanche io l’avrei fatto. Nessuno l’avrebbe fatto. Jack non avrebbe rubato del latte per te, ne nessun altro avrebbe mai fatto niente per aiutarti-
    -Mio padre si-
    -Che c’entra adesso?-
    -..non lo so- rimasero in silenzio per un po’. Jim aveva ragione, e forse poteva essere vestito e puzzare come un fallito, ma in fondo era solo troppo furbo, in fondo valeva molto di più e aveva ragione, Jane lo sapeva. Perché poi ora aveva ripensato a suo padre? Questo non sapeva. Forse era perché, in fondo, era il vero motivo per cui cercava di fare tutto ciò che poteva fare per chi pensava ne fosse degno. Erano ormai quattro anni che non lo vedeva, si chiese che fine avesse fatto, ma lo sapeva, lo immaginava e la risposta le faceva più male della domanda stessa.
    -Jane, lasciala restare-
    -Insomma, ma perché ti importa tanto?! Non le piaci neanche, non ti rivolge nemmeno la parola, per lei sei uno stupido fallito, un drogato senza speranza, un patetico ragazzino, un delinquente, hai visto come ti guarda? Come guarda i segni che hai sul braccio e i tuoi tatuaggi? Ti giudica prima ancora di conoscerti-
    -Perché, non è quello che sono?- Sorrise amaramente. “Making friends with a homeless torn up man, he just kind of smiles, it really shakes me up”. -E poi tu stai facendo lo stesso, con lei. Sei patetica, critichi un tuo errore negli altri perché sei troppo cieca, troppo arrogante per vederlo in te stessa, ma quando fai così non sei tanto diversa da lei. Dalle una casa, prova, magari imparerà, magari cambierà-
    -Le persone non cambiano-
    -No, ma crescono. È solo una bambina e tu sei sempre stata una brava sorella maggiore.. almeno con me lo sei stata- sorrise ancora e bevve un sorso dalla sua birra.
    E guardandolo, Jane si rese conto che tutto quello che aveva di buono era Jim.
    -Sei un cazzone- disse, sorridendo a sua volta, e gli diede un buffetto sulla spalla.
    “You know that life really takes its toll and a poet's gut reaction is to search his very soul. So much damn confusion before my eyes, but nothing seems to phase me and this one still survives.”
    E senza una vera ragione si chiese perchè, ogni volta che cantava quella canzone, non riusciva a dire poison heart. La sua versione era “I just want to walk right out of this world, ‘cause everybody has a broken heart”

    Mary camminava, camminava di nuovo senza sapere dove andare. Non sapeva nemmeno se sarebbe poi tornata da Jane, ma lei non le aveva ripetuto di andarsene, anzi, non le aveva semplicemente più rivolto la parola, dunque si considerava in sospensione di giudizio. Non avendo molto da fare, aveva avuto occasione di osservare tutte quelle cartacce appese al muro, quei disegni, quelle foto, incollate appena sopra il materasso. Quei disegni erano fantastici, e le foto, bè.. alcune erano di Jane e Jim, più piccoli, meno sciupati, più fragili forse ma più felici, o forse solo più ingenui. Per un istante la sua mente era andata vicino a capire qualcosa in più, una verità su tutti loro, su tutti quei disgraziati, ma solo per un istante, e ci era andata solo vicino.
    E ora camminava per strada e per una volta non si chiedeva che aspetto dovesse avere. Per una volta non si stava chiedendo se sembrasse una principessa, per una volta non le importava sembrarlo. Camminava e basta, e si ritrovò sulla sesta, dove dei bambini vestiti di stracci giocavano con un vecchio pallone da basket sgonfio in un piccolo spiazzo oltre il marciapiede. Era passata centinaia di volte per quella strada, e quei bambini c’erano sempre stati, ma era come se li vedesse davvero per la prima volta, come se le importasse della loro presenza per la prima volta, ma, per quanto questo, per lei, fosse un passo da gigante, ancora non riusciva davvero a vederli. Li percepiva, li sentiva ridere. Avevano così poco, eppure ridevano in un modo che lei, che aveva sempre avuto tutto, non aveva mai riso, ma la sua mente non era ancora in grado di percepire questa sottile differenza. Si chiedeva solo come facessero a sopravvivere, come potessero ridere nonostante le loro patetiche esistenze. Si chiese perché lei non ci riuscisse.
    Nel lato opposto della strada camminava un ragazzo. Mary non l’aveva visto, ma era davvero un bel ragazzo. I capelli ricci, castani, forse un po’ troppo lunghi, erano intrappolati sotto un vecchio cappellino di tela. Era magro, piccolo di statura, quasi scompariva dentro maglietta degli Operation Ivy e quegli enormi pantaloni da militare. Camminava con le mani in tasca, prendendo a distrattamente a calci una lattina con aria meditabonda, finché una vecchia palla da basket sgonfia non rimbalzò, per così dire, fra i suoi piedi. Allora Mary lo notò, lo vide raccoglierla e avvicinarsi ai bambini con un sorriso smagliante.
    -Posso giocare con voi?- chiese. La ragazza non capì, forse perché quel ragazzo doveva avere più o meno la sua età e stava giocando con dei bambini di non più di otto anni, o forse perché lei anche se avesse amato giocare a basket, non si sarebbe mai fermata a giocare con degli straccioni in miniatura in un campo dimesso appena oltre il marciapiede, fatto sta che rimase immobile a fissarli. Non aveva neanche notato l’aspetto del ragazzo, non ne aveva notato il viso, o l’espressione, ed ora lo osservava senza vederlo davvero. Se fosse andata via in quel momento, probabilmente l’avrebbe dimenticato, ma non lo fece. Poi, d’un tratto, parve svegliarsi e lui era a pochi passi da lei e la scrutava curioso, con un sorrisetto sciocco da ragazzino -Scusa, hai un accendino?- chiese. Stringeva già la sigaretta fra le labbra.
    -No…no, mi spiace- rispose lei. E magari fu il tono a tradire il disorientamento della ragazza, o magari l’espressione di chi non è esattamente dove dovrebbe trovarsi, ma lui si sentì quasi obbligato a chiederglielo.
    -Hey, va’ tutto bene?- Mary ci pensò su. No, no che non andava tutto bene, aveva un posto dove stare, e bene o male aveva trovato chi poteva darle da mangiare, e occuparsi di lei, ma ancora non andava bene. Lei era abituata a troppo e ora aveva troppo poco. Lei era persa.
    -Mi sono.. persa, credo- rispose. Ovviamente lui avrebbe capito il senso stretto di quest’affermazione, non quello che lei realmente intendeva quindi, ma non aveva pensato a questo, prima di rispondere. Aveva solo risposto.
    -Ci siamo persi tutti, almeno una volta- disse e quella risposta, così generale, le fece pensare che avesse capito, per un istante. Alzò allora lo sguardo e si ritrovò a guardarlo negli occhi. Un viso da ragazzino di periferia, un nessuno con degli occhi che valevano più di quanto lei potesse anche solo pensare. –La cosa migliore è continuare a camminare, penso…- continuò –.. o almeno è quello che io ho intenzione di continuare a fare, perciò ciao biondina- concluse, superandola e andando avanti.
    -Io ho un nome. Sono Mary- il ragazzo, senza neanche voltarsi, sollevò un braccio in segno di saluto.
    -Io sono Brat, Brat Fitzparker, tanto piacere, biondina!- la voce del ragazzo si era fatta più flebile mentre si allontanava e, per quanto fosse il genere di ragazzo che nauseava Mary , per quanto le avesse dato della “biondina”, nomignolo che detestava, benché sembrasse aver capito in che senso lei si sentisse persa e non avesse speso neanche un istante a consolarla, con riluttanza lo ringraziò sottovoce e riprese semplicemente a camminare, perché, in fin dei conti, aveva ragione.

    In un certo senso si, ma è tutto ancora da vedere, adesso semplicemente devono.. incontrarsi, appunto. La qual cosa non è affatto facile
     
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