We've got to get in to get out

Avevano combattuto fino allo stremo contro se stessi per dimenticare tutto ciò che avevano passato, tutto il tempo che avevano lasciato indietro e ora non ricordavano neanche il perché.

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  1. Brat Fitzparker
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    Perchè non avevo idea di come pubblicarli in successione, poi un santo mi ha spiegato che dovevo pubblicare nei commenti, in ogni caso la pubblicherò interamente qui. Per ora sono diciotto capitoli, un centinaio di pagine in tutto e DEVO assolutamente finirla o non mi darò pace, in ogni caso, grazie, mi fa piacere che ti piaccia e spero apprezzerai anche il resto!

    Good times come and good times go.

    La polizia trovò Mary in bagno. Trovò Mary in bagno raggomitolata dentro la vasca in una pozza di vomito, fradicia, e i cadaveri dei suoi genitori. Quello del padre seduto sul divano, ai suoi piedi un bicchiere infranto e qualche goccia di liquore giacevano sul vecchio tappeto persiano, quello della madre, invece, nel suo letto. Dormiva, probabilmente.
    Era stata Mary a trovare i corpi e la sua fragile mente non aveva retto. I pensieri si erano accavallati e come una mandria inferocita avevano devastato tutto. La sua gabbia dorata era stata aperta al mondo esterno, i suoi dolci sogni infranti come il bicchiere caduto dalle mani del padre. Mary aveva visto tutto quel sangue e la sua mente non le aveva lasciato scampo, l'aveva portata in bagno, e l'aveva costretta ad aprire lo scafale delle medicine e a ingurgitare pillole su pillole, ma anche nel tentare il suicidio aveva fallito. Non era riuscita a lasciarsi andare neanche in quello. Aveva vomitato. Poi la parte di lei che era rimasta cosciente l'aveva spinta a infilarsi in doccia e l'aveva costretta a restare sveglia. Questa è la triste storia della caduta della famiglia Smith.
    La polizia trovò l'arma per terra, vicino al corpo della madre. La pistola risultava essere di Richard Smith, e sopra non vi era alcuna traccia di impronte.
    Il capo della polizia forse avrebbe fatto qualcosa, avrebbe aperto un indagine, se fosse stato in un altro posto, in un altro momento, o se semplicemente fosse stata un'altra persona. Ma era un classico caso di omicidio a Seattle, e il capo della polizia non sopportava il signor Smith, non tanto perchè fosse il suo superiore, quanto per l'atteggiamento di superiorità che dimostrava nei suoi confronti, inoltre erano ormai diverse settimane che dormiva sul divano, la moglie lo aveva pizzicato a spassarsela con una giovane specializzanda di medicina, e ora era vicino al divorzio, dunque non aveva proprio voglia di occuparsi del caso, che venne catalogato come furto, nonostante dalla casa non fosse stato rubato niente, ne la collezione d'arte privata del padre, ne i costosi gioielli della madre, il cui valore ammontava più o meno intorno ai duemila dollari.
    A Mary non venne detto niente. Era in stato catatonico, quando la trovarono, e di fatto non avrebbe sentito niente, se avessero provato a parlarle. Ora non sembrava più la principessa che era sempre stata. Venne portata in ospedale e lì rimase fino alla mattina dopo, quando firmò per andarsene, non tanto perchè si sentisse davvero meglio, quanto perchè quell'odore di medicinali e tutti quei pazienti prossimi alla morte la disgustavano. Vagò per la città fino a notte tarda.
    Sarebbe potuto tornare a casa, e forse avrebbe voluto farlo, ma sapeva che non sarebbe riuscita a rientrare da quella porta. Aveva pensato di affittare una stanza d'albergo, ma per qualche ragione i fondi della sua famiglia erano stati congelati. Magari erano scomparse anche le carte di credito, Mary non lo sapeva, a dire il vero non sapeva neanche se fosse stato effettivamente rubato qualcosa da casa. Non aveva avuto abbastanza tempo per controllare, o per pensare. Camminava come un automa per la strada: per la prima volta nella sua vita, non sapeva dove andare, per la prima volta, nella sua intera vita, era costretta a pensare da sola, perchè non c'era nessuno a dirle come farlo.
    E Mary non sapeva cosa pensare. Camminava senza un'idea precisa di dove stesse andando e, per assurdo, continuava a chiedersi che aspetto avesse.
    -Hey!- gridò una voce, e dall'ombra del vicolo davanti al quale stava passando spuntò un ragazzo. Aveva una cuffietta di lana in testa, e affondava le mani nelle tasche del giaccone nero. Una barba incolta e disordinata copriva tutta la mascella, aveva occhi piccoli e scuri, e un mezzo sorriso stampato sulla faccia. -Ciao, bellezza, che ci fai in giro tutta sola?- Mary non sapeva come rispondere, si limitò ad arretrare lentamente. Non sapeva che fare, una parte di lei aveva percepito le intenzioni del ragazzo, ma nel complesso, lei, provava solo una profonda paura che reputava inspiegabile e in parte infondata. -Una così bella ragazza non dovrebbe girare da sola per la periferia di Seattle, potrebbe fare incontri.. spiacevoli- continuò il ragazzo. Ora Mary sapeva cosa stava per accadere, e avrebbe urlato, se avesse potuto, ma come sempre, in una situazione del tutto nuova, neanche il suo corpo sapeva come reagire.
    Chiamatelo destino, fato, fortuna, o chiamatelo caso, dategli il nome che volete, anche Dio, se vi aggrada, ma qualcosa decise che non doveva andare così.
    -Mary!- una voce la chiamò. Lei si voltò e vide avvicinarsi la ragazza dai capelli rossi. Indossava un completo da cameriera, macchiato e logoro, le stesse All star di tre giorni prima, e i capelli sciolti le ricadevano morbidi sulle spalle. Fra le labbra chiare si posava una sigaretta accesa. -Eccoti, è un'ora che ti cerco!-

    La mattina presto la polizia aveva buttato fuori dalla cella Jane e il ragazzino, restituendole le uniche cose che le aveva trovato in tasca: delle chiavi, un pacco di tabacco e un biglietto per il cinema. Non aveva chiuso occhio, ma non aveva sonno. Voleva uscire, voleva muoversi, era stata ferma troppo a lungo, e voleva bere. Neanche sapeva il perchè, aveva voglia di sedersi sul ciglio della strada vicino a una scuola elementare e mandare giù qualche distillato dal sapore acre, per spaventare tutti quei bambini e le loro madri. Rise tra se e se, pensando alle facce preoccupate di quelle donne, mentre sussurravano al figlio "andiamo a casa, tesoro, no, non guardare la signora" e affrettavano il passo per arrivare alla macchina. Così passò a casa per recuperare qualche dollaro, ma la sorpresa che la aspettava lì non le lasciava tempo per altri impegni. In effetti da tempo si era rassegnata all’idea di non avere tempo per fare piani.
    La casa era poco più che un buco: la porta dava direttamente sulla piccola cucina. Un frigo, un tavolo, dei fornelli, una cassettiera e una piccola lampada che pendeva dal soffitto. Oltre la cucina c’era un piccolo bagno. Il resto dello spazio si esauriva in una grande stanza che era insieme camera da letto e soggiorno. Niente di più ad arredarla, se non un divano e un piccolo televisore comprato a un mercatino dell’usato. Nell’angolo in fondo alla stanza, in linea con la porta d’ingresso, c’era un vecchio materasso gettato a terra e circondato da borse, foto, fogli di carta. Cianfrusaglie, niente di più. Seduto sul materasso, c’era Jim. Il braccio destro abbandonato sulla gamba distesa era ancora stretto in un vecchio laccio emostatico. Nell'incavo del gomito la necrosi si allargava come una macchia d'olio, e fra le coperte, vuota e sporca di sangue c'era una siringa. Jim era il coinquilino di Jane, ed era anche la cosa più simile che lei avesse a un amico e un ragazzo. Era una brava persona, ma aveva qualche abitudine non proprio salutare, e ora era immobile con lo sguardo perso nel vuoto. Respirava lentamente, Jane vedeva il suo petto alzarsi e abbassarsi. Chiunque altro avrebbe avuto paura, in quella situazione, o si sarebbe arrabbiato, avrebbe chiamato un'ambulanza o avrebbe avuto una qualsiasi reazione esagerata, ma Jane ci era abituata.
    -Oh, Jim, andiamo! Sto via per una sera e ti riduci così!- esclamò, avvicinandosi. Jim non rispose. Si accovacciò davanti a lui e gli diede uno schiaffetto -Hey, sei con me?- ora lui aveva spostato lo sguardo su di lei.
    -Credo.. di aver esagerato- biascicò, alchè Jane sbuffò.
    -Tu esageri sempre, diavolo, sono almeno due mesi che esageri, stupido cazzone- disse, per poi prenderlo sotto braccio e trascinarlo fino al bagno, dove lo buttò nella doccia per poi aprire il rubinetto dell'acqua fredda. Così, improvvisamente e come per miracolo, Jim iniziò a muoversi.
    -Sei pazza, brutta stronza!- grugnì, cercando di alzarsi, ma facendo fatica addirittura a parlare, non riuscì a fare altro che scivolare qua e là tentando di alzarsi.
    -Datti una calmata o ti viene un infarto- disse lei. Aveva un'aria profondamente annoiata, e in fondo lo era. Si aspettava di tornare e trovarlo morto da un giorno all'altro e, per quanto quella mattina non le avesse neanche sfiorato la mente il pensiero di doversi occupare di lui, quella situazione non era certo la peggiore che poteva trovare.
    Spense l'acqua e andò a frugare nel frigo.
    -..birra..birra...inutili salse.. latte...uova andate a male... Jim! Non ti avevo chiesto di fare la spesa?- lui dal bagno mormorò qualcosa simile a un non lo so, ma Jane non aspettava certo una risposta. Prese una birra e la stappò, andando ad accendere la radio.
    Story of my life, dei Social Distortion. Quale miglior canzone poteva allietare quella giornata pessima? Alzò il volume e si mise a cantare, mentre ondeggiava qua e là.

    Yeah, good times come and good times go
    I only wish the good times would last a little longer
    I think about the good times we had
    And why they had to end

    So I sit at the edge of my bed
    I strum my guitar and I sing an Outlaw love song
    Thinkin' 'bout what you're doin' now
    And when you're comin' back

    Life goes by so fast
    You only wanna do what you think is right
    Close your eyes and it's past
    Story of my life


    Dopotutto, eccetto quella stronza di una riccona che non le aveva prestato quei tre fottuti dollari e che le aveva fatto passare una notte in cella, eccetto Jim, che come al solito aveva esagerato e ora imprecava nel tentativo di liberarsi della morsa gelida della doccia, e il misero e desolante contenuto del frigo, le cose non le sembravano andare troppo male.
    O forse era solo merito della canzone.

    Così, quando due giorni dopo, Jane si era trovata a osservare Mary che, ormai in rovina, camminava per quella strada malfamata, non aveva potuto fare a meno di ripensare a quella canzone e a quanto fosse tutto molto buffo. Lo trovava addirittura divertente, tanto da rendere quella minuscola pausa che le era concessa dal lavoro, che di solito copriva a malapena il tempo di una sigaretta e di un caffè, addirittura rigenerante.
    E quando aveva visto Griff, il depravato stupratore seriale di quel vicolo, avvicinarsi a Mary con intenzioni poco carine, aveva pensato per un momento di lasciarlo fare, ma solo per un momento. Jane non l'avrebbe mai ammesso, neanche a se stessa, ma in fondo, molto in fondo, dentro di lei, sotto tutti gli strati di fredda apatia, era buona.
    -Mary!- aveva urlato avvicinandosi. -Eccoti, è un'ora che ti cerco!- le aveva detto, afferrandola per un polso -Mi dispiace, Griff, ma sta sera resterai a secco- per poi allontanarsi. Conosceva da un po’ quel ragazzo, e, per quanto ne sapeva, non aveva mai violentato nessuno, fino a quel momento.
    -Sei una guastafeste!- aveva risposto il ragazzo, tornando nell'ombra del suo vicolo. Quel ragazzo aveva dei seri problemi, in pochi lo sapevano, ma era stato stuprato da bambino in quello stesso vicolo. Il suo psicologo ora era andato in pensione ma lui in ogni caso non avrebbe potuto permettersi di continuare a pagarlo, quindi la notte continuava la sua terapia tentando di mandare avanti la tradizione a cui era stato tristemente annesso. Di certo lo faceva sentire più sicuro essere lui il carnefice, invece che la vittima. Una dei tanti oscuri racconti della periferia di Seattle.
    -Grazie mille..- mugugnò Mary, rimestando nella propria memoria per ricordare il nome della ragazza, ma ora le sfuggiva, come un sacco di cose, nella sua vita.
    -Jane. Io sono Jane. Comunque non ringraziare, se sei cristiana ringrazia Dio, perché la sua esistenza è l’unica possibile spiegazione per cui io abbia deciso di aiutarti. E ora sparisci- concluse, buttando la sigaretta per strada e rientrando nel pub da cui era uscita.
    -Rossa, non ti pago per poltrire, torna a lavoro!- la ammonì il proprietario del locale. Jane avrebbe voluto rispondere, ricordargli che la pagava con cento schifosi dollari a settimana per lavorare dodici ore ogni giorno, domenica compresa, ma non aprì bocca. Le serviva quel lavoro, e purtroppo aveva dovuto imparare a tenere la bocca cucita quando doveva.
    Mary, nel frattempo, valutava che cosa fare. A quel punto non aveva molto da perdere, così poco che, anche se mai l’avrebbe ammesso a se stessa, aveva pensato per un secondo che lo stupratore, forse, le avrebbe potuto dare alloggio. Forse solo una persona in quel particolare stato mentale avrebbe potuto partorire un pensiero tanto inquietante, ma comunque ora valutava la possibilità di chiedere a Jane un posto dove stare, sperava di trovare un’alternativa, ma il caso non forniva molte altre opzioni, così entrò nel pub e si avvicinò al bancone.
    -Jane…- chiamò a mezza voce, mentre quest’ultima lucidava un bicchiere. Doveva trovare terribilmente interessante tale lavoro, perché neanche alzò gli occhi. A dir la verità neanche rispose, tanto che Mary pensò che non l’avesse sentita. In realtà Jane stava semplicemente valutando la possibilità di ignorarla del tutto, di far finta che non esistesse, mentre si pentiva amaramente di averla aiutata.
    -Che diavolo vuoi adesso?- disse infine. Iniziava quasi a detestare il suo lato buono. Valutava già di liberarsene con una solenne sbornia e un’altra notte insonne, magari in compagnia di Jim. Se c’era qualcosa in lei che demoliva del tutto il suo istinto alla Robin Hood, era quel ragazzo.
    -Mi serve.. un posto dove stare- la lingua si annodava nella bocca di Mary. Avrebbe preferito non doversi abbassare a tanto, anche perché continuava a trovare ripugnante quella ragazza che ora la squadrava da dietro il bancone in ogni suo più infimo dettaglio. La odiava e neanche lei sapeva perché. Magari se se lo fosse chiesto si sarebbe resa conto di non avere un vero motivo per farlo e tutto si sarebbe dissolto in una nuvola di fumo, ma non se lo chiese.
    -Scordatelo, ragazzina, torna a casa tua- rispose l’altra, poggiando il bicchiere e uscendo da dietro il bancone, per andare a sparecchiare i tavoli ormai rimasti vuoti.
    -Ti prego, devi pur avere un posto per..- continuò lei.
    -Si, ma non per una come te- rispose con sommo piacere Jane, che sorrideva sotto i baffi. In fin dei conti quella situazione per lei stava diventando divertente.
    -Senti, mi dispiace per l’altro giorno… ma ora non ho un posto dove andare e.. ho fame- a questo punto probabilmente una parte della rossa aveva avuto pietà di quella bambolina bionda, ma non abbastanza perché la sua parte cosciente se ne accorgesse o tantomeno la assecondasse.
    -No, ed è l’ultima volta che te lo dico. Tornatene a casa tua, prostituisciti, torna a cercare Griff e sta da lui, non m’interessa, ma levati dalle palle. Se vuoi stare qui devi mangiare qualcosa, altrimenti trovati un’altra a cui rompere i coglioni- disse, e questa risposta non ammetteva repliche, ma Mary era testarda, ed era viziata, e non conosceva la parola “no”, o almeno non se l’era mai sentita dire, e tanto disse e tanto fece che Jane, suo malgrado, accettò.
    -Una notte- disse –E poi sparisci, e se ti rivedo ti do un calcio in culo così forte che i tuoi nipoti sentiranno dolore alle chiappe tutte le volte che dovranno sedersi, o che anche solo penseranno di farlo, ti è chiaro?-
    Mary non rispose, annuì semplicemente: si sentiva patetica, infima, per aver chiesto un simile favore a una persona di quel genere, a una stracciona. Ma qualsiasi cosa era meglio che tornare a casa. Lei non lo sapeva con certezza, ma la sua mente non avrebbe retto, non sarebbe riuscita a muovere neanche un passo nella sua meravigliosa gabbia d’oro ormai sporca di sangue.
     
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131 replies since 4/5/2016, 10:56   1072 views
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