We've got to get in to get out

Avevano combattuto fino allo stremo contro se stessi per dimenticare tutto ciò che avevano passato, tutto il tempo che avevano lasciato indietro e ora non ricordavano neanche il perché.

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  1. Brat Fitzparker
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    Pretty faces of a black rotten soul.

    Mary camminava. Semplicemente camminava sotto il sole tiepido del 7 Settembre 1990, in una foresta di riflessi luminosi prodotti dalle opache carrozzerie delle macchine, nella periferia di Seattle.
    Camminava quando guardò alla sua destra, incontrando il proprio sguardo riflesso nella vetrina di un vecchio negozio di cappelli. Hats & Hats. Non dovevano avere troppa fantasia con i nomi e forse era anche per questo che avevano fallito, o magari perché le tasse erano salite del 20% quell’anno, e ora la proprietaria di quel piccolo e grazioso emporio di cappelli non guadagnava abbastanza per mantenerlo, ma Mary non pesava a niente di tutto questo, era semplicemente impegnata a rimirarsi nel riflesso di una vetrina polverosa. Osservava compiaciuta e tronfia il suo visetto dolce, la sua pelle candida e quei capelli biondo pallido, mossi, corti fin appena sopra le spalle, in contrasto con il rosso brillante che le tingeva le labbra. Gli occhi azzurri stavano d’incanto su quel visetto d’angelo così come la sottile camicetta color crema e la gonna lunga e stretta dello stesso colore calzava a pennello sulla sua perfetta silouette, e a lei piaceva da matti guardarsi. Sembrava una perfetta brava ragazza dell’alta società. Era convinta che niente potesse turbare una così comune e meravigliosa giornata, così come la sua sublime bellezza, ma qualcosa interruppe quell’estatica e patetica contemplazione di se stessa: un uomo che urlava.
    -Se ti prendo ti ammazzo, lurida troia!- seguito da un suono di passi concitati. Tutto ciò che la ragazza riuscì a chiedersi fu come ci si potesse rivolgere così a una donna. Forse era tutto ciò che la sua mente poteva concepire, in fondo.
    Poi, da dietro l’angolo, poco più in là, spuntò una ragazza.
    Capelli rossi come le fiamme, boccoli lunghi e morbidi che le incorniciavano il viso, le labbra erano leggermente velate d’un rossetto scuro, morbide, forse troppo piccole, troppo delicate per lei. Appena sopra di esse erano incastonati due grandi occhi d’un verdi come la giara. Erano quasi luminosi, come il sudore di cui era madida a causa della frenetica corsa in cui era impegnata, ma Mary non poteva notarlo, era troppo impegnata a storcere il naso davanti a quella vecchia camicia di flanella sgualcita, con qualche bottone attaccato nel punto sbagliato. I vecchi pantaloni neri stracciati e un paio di All Star bucate le davano la nausea. La sua piccola e semplice mente non poteva concepire una simile sciatteria. Un stracciona, senza dubbio.
    Non ebbe il tempo di pensare altro, perché ora la ragazza le si era fermata davanti.
    -Hai tre dollari?- le chiese. L’alito puzzava di sigaretta, ansimava ancora per lo sforzo.
    -Come?- Aveva capito, in effetti, la domanda, ma non l’aveva debitamente elaborata.
    -Diavolo, ma sei sorda? Tre fottuti dollari, li hai o no?- adesso la sconosciuta aveva alzato la voce e parlava in fretta, non aveva tempo, rischiava di finire nei guai e lo sapeva, ma come si permetteva di rivolgersi a Mary Smith con quel tono e quel linguaggio? Era inaccettabile. Oltre ad offenderla con il suo aspetto impresentabile, ora anche nei modi si permetteva di mancarle di rispetto.
    -Si, ma non per una come te- rispose, mettendo in quella voce tutto il disprezzo che provava per la ragazza.
    -Hey stronza!- da dietro l’angolo era spuntato un uomo basso e nerboruto. Grasso, maldestro, si avvicinava a lunghi passi. Parlava con la rossa, si capiva.
    -Tre dollari, cazzo tre dollari- mormorò lei, ma era tardi. I guai erano arrivati. L’uomo le poggiò sgraziatamente una mano sulla spalla. Mary la vide sbuffare e poi, senza alcuna ragione, sorridere. Aveva un bel sorriso, certo, ma lei non se ne accorse.
    -Mi scusi, signore, per aver sottratto un cartone di latte da tre fottuti dollari dal suo più che rispettabile negozio, ero venuta a chiedere quanto le devo alla mia amica..- si bloccò, indicando Mary con un ampio gesto del braccio, che, dal canto suo, non comprendendo con esattezza quello che stava accadendo, si limitò a pronunciare il proprio nome. -…che sfortunatamente non li ha con se, perciò ecco- continuò la strana ragazza porgendo all’ uomo il cartone di latte che teneva in mano. La biondina si chiese se l’avesse sempre avuto e come avesse fatto a non notarlo –prenda il suo latte rancido del cazzo e riporti il suo stramaledetto culo ciccione sulla sedia dietro la cassa- concluse.
    L’uomo, non riuscendo evidentemente a controllarsi di fronte all’arroganza di quella insulsa ragazza, le diede uno schiaffo che le lasciò un’ombra vermiglia sulla guancia, per poi afferrarle il polso –Non provarci, troietta del cazzo, è la quarta volta che rubi nel mio negozio, credi che sia scemo, eh? Mi hai preso per uno stupido, eh? Bè, ‘sta volta ho chiamato la polizia, maledetta, e ora tu vieni con me- sbraitò, per poi trascinare la ragazza con se, che per quanto provasse a divincolarsi, non riusciva a liberarsi della presa, e, prima di sparire dietro l’angolo da cui era apparsa, si voltò verso Mary –Bè, grazie, stronza- sibilò a denti stretti, e ora quello sguardo vivo e brillante si era fatto gelido, severo, ma Mary era troppo scossa, o forse troppo concertata su se stessa, per notare la sottile differenza.

    Jane passò la notte in cella. La ragazza con i capelli rossi si chiamava Jane e passò la notte in cella per il furto di un cartone di latte da tre dollari. La polizia non aveva trovato i suoi documenti, lei era un fantasma. Un fantasma di nome Jane. Quel posto puzzava di urina e sudore, puzzava di malavita, di criminale, era quasi nauseante, ma non era certo la prima volta che finiva dentro, ne sarebbe stata l’ultima, si era ormai abituata.
    -Perchè ti hanno sbattuta qui?- domandò il suo compagno di cella. Era un ragazzino, avrà avuto all'incirca sedici anni, ed era finito dentro perchè era stato beccato a spacciare dietro la vecchia chiesa abbandonata. Nella Seattle del 90 se non avevi un soldo o spacciavi o facevi la puttana, se qualcuno l'avesse definita una bella città sarebbe stato quantomeno coraggioso. Era più facile beccarsi una pallottola in testa che comprare delle sigarette, lì. Jane alzò a malapena lo sguardo dall'angolo in cui era seduta.
    -Per tre fottuti dollari, ho rubato un cartone di latte da tre dollari- il ragazzino rise. Aveva una risata fastidiosa, sguaiata e acuta, come quella di un ubriacone, o di un drogato e in effetti quel ragazzino non era altro che un drogato, ma a Jane tutto questo non importava. Lo immaginava, certo, la Speed lasciava marchi indelebili sulla pelle, piccole croste che sparivano dopo qualche settimana, ma era solo uno dei tanti e la triste storia di un ragazzino solo come tanti non le importava.
    -Andiamo, non avevi tre dollari? Cosa sei? Una barbona o cosa?- rise ancora.
    -No, a dire il vero io non avevo neanche voglia di latte, ma c'è un ragazzino sulla sesta, e si chiama Jack. Ecco, Jack non ha un soldo, ma ha una sorellina piccola. Mi ha chiesto del latte e ho cercato di procurarglielo- la risata si fece sempre più fragorosa.
    -Aspetta, fammi capire, hai rubato per un altro e ti sei pure fatta beccare? Accidenti, sei proprio una sfigata- disse, ciondolando avanti e indietro per la cella.
    -Bè, insomma qui dentro ci sei finito anche tu, cosa c'è? Mammina si vende per poco, papino neanche sai chi è e tenti di fare qualcosa per aiutare quella troia a mantenerti? Siamo tutti sfigati qui, pivello- rispose lei, alzandosi e avvicinandosi alle sbarre. Lui si zittì. -Hey, ciambella in divisa!- urlò, chiamando la guardia che russava fragorosamente adagiata sulla sua sedia da ufficio, dietro la sua scrivania, che trasalì e per poco non cadde con il culo per terra. -Voglio una sigaretta, ce l'hai? Una maledetta sigaretta?- Chiese Jane. Era stanca e annoiata. Non sarebbe riuscita a dormire comunque con quel ragazzetto, che, dal canto suo, aveva più paura di lei di quanto non desse a vedere. -Mi ci vorrà un pacchetto intero per sopportare la voce del cazzo di questo ragazzino, andiamo!-
    -Non si fuma qui dentro- bofonchiò la guardia, incrociando le braccia sul petto e tornando a dormire. Jane sbuffò e tornò a sedersi. Poggiò la testa al muro e chiuse gli occhi, ripensando alla biondina di quella mattina: quelli ricchi erano tutti uguali, altezzosi, arroganti, tenevano tutto per se, e non si curavano di tutti quei poveri catorci di uomini e donne che tiravano avanti per miracolo, e dei bambini che al bordo della strada cercavano di venderti una collanina per un dollaro con cui comprarsi un pezzo di pane da dividere con i fratelli. Orfani senza casa e senza nome. E quella andava in giro con un vestito con cui Jane avrebbe potuto pagare l'affitto per mesi, eppure non aveva voluto darle tre dollari. Non le passò per la testa neanche per un istante che potesse essere stata colpa del modo con cui le si era rivolta. Tutti, nella periferia, parlavano così. Semplicemente non conosceva un modo migliore per esprimersi, ecco tutto.

    Mary Smith, figlia dell'ex generale Richard Smith a cui era stato affidato il distretto di polizia di Seattle, sedeva a tavola e rimescolava il cibo nel piatto con la forchetta: non aveva fame. Era seduta sul lato destro del vecchio tavolo in mogano, accuratamente apparecchiato dalla governante con una candida tovaglia di pizzo e il servizio d’argento. Il primo, uno stufato di carne di maiale e patate con un profumo delizioso aveva certo un’aria invitante, ma lei non riusciva a mangiare. La madre stava raccontando dei nuovi acquisti fatti in giornata, aveva speso un centinaio di dollari per delle nuove scarpe per una serata di gala a cui lei e il marito erano stati invitati, ma Mary non aveva ascoltato una parola, rifletteva sull'esperienza di quella mattina, domandandosi come potessero esistere persone così sciatte e scortesi. In effetti non aveva mai avuto a che fare con una persona di quella infima classe sociale, se n'era sempre tenuta alla larga. A riportarla alla realtà fu la voce profonda del padre.
    -Sta mattina è stata portata alla centrale una ladruncola da strapazzo...- diceva. Mary si fece improvvisamente attenta, curiosa. -...iniziano sempre più giovani a rubacchiare, ci ha dato non pochi problemi, e ha preso a calci un paio di poliziotti. Non aveva con se ne documenti, ne soldi, ha detto solo di chiamarsi Jane. L'abbiamo trattenuta in cella, per questa notte. Questi ragazzini senza nessuno.. mi fanno un po' pena. Delinquenti abbandonati a se stessi..- Mary ci rifletté su. Fece fatica, perchè di rado rifletteva su ciò che le accadeva intorno, di solito si limitava a sentire senza ascoltare, ad assorbire informazioni in maniera acritica, ma riflettendoci, pensò che non fosse giusto definire quella ragazza una delinquente, una stracciona, magari, ma non sembrava cattiva. Tuttavia se suo padre l'aveva definita in quel modo, non poteva che avere ragione. In fondo lui aveva sempre ragione. Poi le chiese della scuola.
    Mary frequentava un istituto privato, voleva diventare avvocato. Era brava a scuola, ottimi voti, era puntale, diligente, tutti i professori la ritenevano una ragazza matura e a modo, e tutti i professori conoscevano suo padre e lo rispettavano, ma se qualcuno avesse provato a chiederle perchè avesse scelto quel tipo di studi, o se le importasse davvero della scuola, lei non avrebbe saputo rispondere, o meglio, lo avrebbe fatto, ripetendo come un automa che la scuola era un investimento per il proprio futuro, ma se qualcuno avesse approfondito la questione, lei non avrebbe saputo spiegare se le piaceva davvero il suo corso di studi, o se fosse davvero il suo sogno diventare avvocato. Mary non aveva un sogno, e se ce l'aveva, non si era mai soffermata a capire quale fosse. Era anche una musicista, studiava pianoforte dall'età di sei anni, ed era certamente brava, la rilassava quel suono. Forse era l'unica cosa che apprezzava davvero della sua vita, oltre che se stessa, ma non facendosi troppe domande non era costretta a trovare risposte.
    Quando andò a dormire, quella notte, non pensava neanche più a quella strana ragazza di strada. Non pensava neanche più a Jane.
    Avrebbe rimosso presto quell'esperienza, si era detta, dopotutto non faceva parte del suo mondo. La sua gabbia dorata le bastava, anche se lei non l'avrebbe mai definita tale.

    A svegliarla nel cuore della notte, tre giorni dopo, non fu un incubo, o un urlo per strada, come spesso accadeva il sabato sera, quando qualche ubriacone passava per la Third Avenue cantando serenate alla sua donna lontana, al suo amore perduto. No. La notte fra il 10 e l'11 Settembre del 90 Mary fu svegliata da rumore sordo e penetrante, uno scoppio. Il rumore riecheggiò tre volte e lei non capì.
    Se avesse avuto un po' più di esperienza, se fosse mai vissuta nella periferia di Seattle, o se si fosse anche solo trovata a passeggiare per una strada malfamata, la notte, avrebbe riconosciuto quel suono.
    Ma quei tre colpi di pistola, per Mary, erano solo un rumore terrificante e non identificato. Quei colpi di pistola, per Mary, erano solo il frastuono del suo dolce sonno che si sgretolava.
     
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131 replies since 4/5/2016, 10:56   1072 views
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