Il Nido della Leech

Per gli amanti delle "innocue" escursioni estive...

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    Come promesso, ecco la prima parte di un racconto che ho scritto l'estate scorsa :D Essendo un po' lungo l'ho spezzato in tre parti, ma non passerà molto tempo fra una "puntata" e l'altra, e la pubblicazione completa avverrà in meno di 7 giorni. Fatemi sapere cosa ne pensate :)

    Il Nido della Leech


    I –La riserva naturale


    Ascoltando i miei passi lungo quel viale caldo e angusto della più remota periferia urbana, che da molto aveva smarrito l'assopito vocio dei suoi abitanti, e riduceva il continuo passaggio di automobili a un sospiro lasciato alle spalle, mi parve a un tratto e tutto attorno di scorgere un larvato mutamento. Ora la facciata precisa e rasserenante del paese e del suo tardo pomeriggio mostrava nell’intimo un’indole volubile, nondimeno naturale, laddove i pochi tetti rimasti avevano sudari di ragnatele per capelli, e ogni porta pareva sbrecciata, quasi quanto il terreno.
    Alcuni ruderi sicuramente abbandonati si alternavano ad altri, loro gemelli, che mi lasciavano sgomento indovinare alle finestre ancora tacite tracce di vita.
    «Mi chiedo chi si azzardi a vivere in un posto simile» bisbigliò Markus, accennando con lo sguardo ad alcuni giocattoli per bambini, non troppo vecchi, custoditi al di là di una staccionata divorata dalla ruggine di ciò che un tempo era stato un giardino.
    «A sentire mio nonno il nostro paese è cresciuto parecchio nell’ultimo secolo» spiegai. «Si è espanso rapidamente, e forse meno di cinquant’anni fa, questo posto non era tanto dissimile dall’attuale centro urbano.»
    Tutto attorno vi erano segni posti a confermare tale mio presentimento: poco prima ricordavo di aver attraversato assieme a Markus un piccolo piazzale; tra i resti dissestati delle case comparivano alcune insegne sbiadite di negozi, e ora il sentiero incontrava persino una biforcazione, il cui ramo destro portava in discesa all’ingresso di una vecchia canonica, ancora in attività.
    Non passò molto tempo prima che potessimo intravvedere l’ingresso del parco in riva al fiume, nostra meta, mentre il richiamo scrosciante delle dighe lontane si faceva più intenso; ed ecco, al disperdere delle ultime rimanenze del mondo civilizzato, un’estesa visione di prati ondeggianti e fila serrate di quel bosco informe come un dipinto impressionista, svelarsi al pari di un miraggio e perdersi nelle più distanti prospettive. Non ero stato presso quella riserva più di due o tre volte in vita, e a ogni visita risultava difficile credere che un simile paradiso potesse trovarsi proprio lì, a pochi minuti dalla scuola elementare e dalla solita piazza, dove d’estate il sindaco innalzava un palco in occasione delle sagre di turno.
    Per Markus era la prima volta, e nell’ammirare l’immensità di quel verde spettacolo, già intento a incedere sin dove il terreno sprofondava dolcemente sulla sponda del fiume, pareva un esploratore che avesse scovato i diamanti nel proprio giardino di casa.
    Confesso che rimasi piuttosto sorpreso, poiché attribuivo all’amico una natura sedentaria e moderna, tanto da temere che potesse non gradire l’itinerario da me proposto. Ricordo che entrambi eravamo allora poco meno che ventenni, e di una pessima generazione in materia di attività fisico-edonistiche. Ci saremmo diplomati nel giro di qualche mese, e quell’escursione sul lungofiume doveva trattarsi, almeno in principio, di una piacevole quanto sporadica digressione dagli impegni scolastici.
    Poco più tardi ci addentrammo nelle profondità della riserva, estesa a ridosso del corso d’acqua per svariati chilometri, e che nella sua omogeneità complessiva dava luogo a una continua alternanza di paesaggi.
    Lanciai un’occhiata fugace all’orologio:
    «Sono già le sei» sospirai. «Temo non riusciremo a visitare tutto il parco quest’oggi... Sarebbe stato meglio organizzarsi per tempo.»
    «Oh, è davvero così grande?»
    «Lo vedrai tu stesso, appena saremo in cima al sentiero.»
    Il percorso sterrato, infatti, districava e reintrecciava se stesso lungo numerose serpentine, talvolta scoperte, talvolta cinte sui lati da fitti schieramenti di piante e arbusti di varia specie. I sentieri erano spesso posti in rilievo rispetto l’altezza della valle e del fiume, creando dislivelli talvolta superiori ai tre metri, ma nel complesso non troppo ripidi.
    Ci tenemmo sul tracciato principale, la cui statura dominava sugli altri, e di tanto in tanto si aveva l’impressione d’incedere su di un’enorme coda d’erba e terra battuta, alta e tortuosa, tanto estesa da perderne l’estremità.
    «Valerio, amico mio» chiamò Markus asciugandosi la fronte, «come ho potuto vivere tanto a lungo nella mia periferia senza conoscere questo posto? Però se avessi saputo che intendevi trascorrere il pomeriggio in tal modo, mi sarei fatto trovare in forma migliore...»
    «Ma che dici, Markus? Sei in forma smagliante» replicai, temendo che il mio coetaneo si trovasse già sul punto di ricusare. «Un autentico figurino.»
    «Tu si che menti bene!»
    «Ma il mio non era sarcasmo, dicevo davvero.»
    «Anch’io ero serio: menti bene quanto un amico.»
    «Come ho detto non mentivo, e se mentivo non lo facevo così bene, dato che te ne sei accorto subito. Comunque credo che l’argomento “peso forma” si addica maggiormente alle casalinghe con l’incubo dei costumi da bagno, piuttosto che a te.»
    «Abbiamo ragione entrambi» convenne lui. «Il fatto è che, come dicevo, menti relativamente bene.»
    «Relativamente?»
    «Di sicuro meglio della maggior parte delle persone. Facci caso: in circostanze simili si mente per etichetta più che per cortesia, ragione per cui chi mente prova a fartelo notare in tutti i modi.»
    «Al giorno d’oggi sembra più importante dar mostra d’essere generosi d’animo ch’esserlo davvero» convenni negligentemente, rapito dal silenzio.
    Era un tiepido venerdì dei primi giorni d’aprile, e per interi chilometri dinnanzi allo sguardo non si scorgeva anima viva; il canto occasionale di qualche passero scandiva i tempi di una quiete altrimenti statica, dove persino il fiume, al di là delle fronde, non increspava al minimo soffio di vento, verde e immobile al pari di un lago. Quasi mi pentivo d’aver condotto Markus con me, il quale adesso pareva del tutto incapace di tacere.
    Attraversammo un lungo tratto che tra noi e il corso d’acqua poneva un’ampia vallata, la cui vegetazione si riduceva a una distesa d’erba e sterpaglie incolte. Per la durata di un intero chilometro non vi fu nulla su cui valesse la pena di posare lo sguardo, fatta forse eccezione per una diga, che rimaneva comunque piuttosto distante da noi.
    Dacché però ci addentrammo nel vivo d’una nuova zona boscosa, e la flora tornò a infittire sul fianco sinistro del percorso, a escludere la vista del fiume, notai qualcosa di diverso, e affascinante.
    L’immagine era quella di una fossa profonda e gremita d’alberi, le cui cortecce coperte dai rampicanti si legavano le une alle altre a tessere l’intreccio di un’impossibile ragnatela.
    Rimasi interamente rapito da tale scenario... un sentimento che raggiunse il suo culmine quando ci imbattemmo in una vecchia scala in pietra grezza, che scendeva sul versante sinistro del sentiero, e si inabissava nelle umbratili profondità della macchia. Il tutto aveva un’aria degna di certi racconti gotici e, dopo aver convinto Markus a venirmi dietro, discesi i pesanti gradoni per dare un’occhiata. Ai piedi del sentiero principale se ne accostava un altro, celato in parte dalle chiome degli alberi, altere e contorte come non mai, mentre ancora più in basso, la boscaglia vera e propria trovava il suo degno ingresso sotto un lungo tronco spezzato alla base, che aveva mancato di schiantare al suolo, impigliato a mezz’aria tra i propri simili a comporre una sorta d’architrave.
    Sotto di esso erano solo tenebre e vuoto.
    Udii un fruscio repentino: sorpresi con la coda dell’occhio l’edera fremere attorno a uno di quei tronchi, come un brivido che ne percorse la superficie dalle fondamenta all’apice.
    Probabilmente si trattava di una lucertola, ma non mi sarei sorpreso di incappare nell’agguato di qualche innocua serpe d’acqua dolce. Non ci azzardammo a discendere ulteriormente nella selva, e per un tratto proseguimmo lungo il secondo e più angusto sentiero; e nemmeno quello si può dire rappresentò una passeggiata, poiché terribilmente scosceso, continuamente interrotto da rocce e radici e ostacolato da reti di rami essiccati. Persino quel fresco sentore d’arbusti bagnati dal sole cambiava in un umida essenza di terriccio, di foglie avvizzite e malate e di sabbia.
    Se fossi stato da solo non mi sarei trattenuto a lungo là sotto, e anche Markus, interpretando lo sguardo, pareva del medesimo avviso.
    Tornai con la mente ai libri di storia, alle canzoni inneggianti la vita d’altri tempi e a quei sogni a occhi aperti, smarriti nella pace di realtà tanto simili a tale nostra giornata, e allora mi venne da sorridere. I poeti e i cantori la facevano semplice, ma la cruda verità è che tanto era passato dacché simili scenari avevano smesso d’essere la consuetudine, che l’uomo aveva dimenticato come apprezzarli; e ora le fronde e l’umidità donavano a me un silenzio che tuttavia era inquietudine, finanche paura.
    Il mio amico e io ci trovavamo sul punto di sfruttare un leggero avvallamento e risalire al sentiero principale, quando un impatto sordo e repentino, ripetuto, ci fece gelare il sangue.
    Mi voltai verso la macchia.
    Il fruscio dalle nostre spalle corse avanti sino a superarci, poi si arrestò un istante: non era pesante, né troppo leggero.
    «Di che si tratta?» sussurrò Markus, celando a stento quel moto di tensione.
    «Non lo so.»
    «Credi che sia un orso?»
    «Non ci sono orsi qui dentro, Markus!»
    Il rumore riprese, più vicino, e io mossi d’istinto un passo indietro.
    «Però di qualcosa si tratta...»
    «Un cinghialetto?»
    «Già più probabile.»
    Markus mi precedette nel risalire il versante del sentiero mentre ascoltavo l’avanzare quasi strisciante dell’ignota creatura, farsi più lento e intenso alle mie spalle, pochi metri più in basso.
    Poi lo udii: un verso acuto, prolungato, simile a quello di un uccello di palude, ma che in sé celava qualcosa di tremendamente insolito e allarmante. Mi voltai, e il latrato riprese, lezioso e morbido quanto un richiamo. Non avevo mai udito nulla di simile prima d’allora.
    «Dai, vieni via...» mi giunse dall’alto la voce di Markus, che già si era portato a debita distanza da qualsivoglia pericolo.
    Lo raggiunsi, senza voler perdere di vista la fonte degli strani versi, e che in realtà non vedevo affatto.
    «Che diavolo è?»
    «Non ne ho idea.»
    Incedemmo a passi lenti lungo il percorso, tendendo l’orecchio a captare ogni più debole vibrazione del terreno, di foglie e arbusti spezzati. Quella cosa ci stava seguendo; spiava i nostri gesti, denotando una curiosità che, mio malgrado, dovetti ricambiare. Vi era un disagio in tale situazione che non riuscivo a spiegare a me stesso... la presenza medesima dell’incognito animale e i miei sensi, che tentavano e tentavano di cogliere qualcosa che intimamente sentivo di conoscere, e che costantemente mi sfuggiva.
    «Eccolo!» indicò Markus a un tratto. «L’ho visto...»
    «Shhhh!» Gli piombai addosso e lo ritrassi dal ciglio del tracciato. «Così lo spaventi...»
    «Credo di averlo visto, per un attimo.»
    «E di che si tratta?»
    «Non lo so, era bianco... Ho visto solo che si trascinava, ma non so cosa fosse. Non ho mai visto nulla di simile e...»
    «D’accordo, ho capito.»
    «Ora possiamo tornare indietro? Potrebbe essere pericoloso.»
    «Sì, adesso ce ne andiamo» lo tranquillizzai. «Fammi dare solo un’ultima occhiata...»
    Feci presa su di un ramo ricurvo e flessibile per calarmi nuovamente sul sentiero più basso prima che Markus potesse ribattere. Immediatamente udii lo strano fruscio chiudere le distanze, e allora parve anche a me di scorgere qualcosa. Il mio amico mi raggiunse masticando tra sé qualche parola di biasimo, di cui non mi curai, perché la sensazione di disagio di cui poco prima ero caduto preda ora tornava più insistente.
    La presenza celata dalla fitta boscaglia mosse in direzione di Markus, e io vidi il giovane farsi in volto dello stesso colore della propria camicia. Essendo il terreno troppo ripido da potersi risalire in quel punto, egli fu costretto a muovere avanti, verso una prossima ed eventuale gradinata, o un vicolo cieco altrettanto probabile.
    Un gemito di arbusti, più vicino.
    Markus si arrestò di scatto. Rimase con lo sguardo fisso nella macchia alla sua destra, a osservare qualcosa che ancora non riusciva a distinguere, e confesso che anch’io, un paio di metri alle sue spalle, rimasi con il fiato sospeso.
    Vidi l’espressione d’allerta dell’amico mutare in sorpresa, poi in costernazione, e infine attenuare a una sorta di contemplazione affascinata e incredula.
    «Markus?» chiamai piano. «Riesci a vederlo?»
    Lui annuì lentamente, poi mi fece cenno di venirgli più vicino. Avanzai tentando di guidare ogni passo, in modo da ridurre al minimo il rumore, mentre Markus rimaneva immobile al pari di una statua, con lo sguardo piantato nel vuoto.
    Si trattava di un lieve cedimento del terreno, che portava il sentiero a congiungersi all’area sottostante, e che emergeva da una sorta di tunnel naturale di rampicanti essiccati: in principio non vidi altro che questo.
    «E’ lì...»
    La voce di Markus uscì ridotta a un filo.
    Fu allora che misi a fuoco – io che immaginavo di scovare uno scuro cinghialetto o un tasso – eclissata dietro la coltre di vegetazione e di tenebre, quella sagoma pallida, glabra, e incomprensibile.
    E un volto... sì, il volto ancora appena accennato d’una giovane femmina: questo parve, ma persino nell’ombra, l’indole di quella “persona” risultava del tutto inumana. Quasi senza rendermene conto mi chinai sulle ginocchia, e lentamente spinsi le dita di una mano a scostare i rami posti fra noi e l’estranea.
    Lei parve ritrarsi e io mi arrestai, poi ripresi con maggiore cautela.
    «Cos’ha alle braccia?» domandò Markus.
    Non lo sentii nemmeno, poiché al momento l’attenzione mi era stata rapita dallo sguardo di quella creatura: l’unico ritaglio della sua figura che potessi scorgere per intero. Le iridi accese di verdi riflessi balenavano liquide e diafane come piccole lune, e le pupille di un rettile, tanto dilatate da ingannarmi per un momento, ma lunghe e sottili, tagliate in verticale, che ritratte somigliavano a due aghi.
    Mi guardava e sorrideva con aria intelligente.
    “Intelligente”, ripetei a me stesso: mai e poi mai avrei attribuito a un essere umano una simile caratteristica, non in quel modo... non così.
    Ora lei mosse in avanti; e lentamente sollevò un’ampia membrana che intuii per essere la sua mano. Lunghe, lunghissime dita palmate dalle nere estremità, affilate e robuste. Questa volta fui io ad arretrare.
    «Te l’avevo detto che c’era qualcosa di strano con le sue braccia» ansimò Markus.
    Non mi ero ancora del tutto ripreso dall’accaduto che la creatura si lasciò cadere indietro, scivolando nella macchia e sparendo all’istante inghiottita dalle tenebre.
    «Aspetta...»
    Compresi che non si era allontanata più di tanto, e quasi senza riflettere decisi di andarle dietro, schivando a fatica un primo roveto e centrandone in pieno un altro. Da lì dovetti procedere a tentoni, sorretto dalle mille dita taglienti dei rami e guidato dal soffuso richiamo di tal’estranea creatura, mentre la voce della coscienza e quella di Markus si univano in coro, e quest’ultimo, controvoglia, mi seguiva.
    Mio malgrado dovetti intendere che la palmipede si spostasse molto più agilmente di noi, e per ogni passo che muovevo, lei arretrava, timida e reticente, ma senza mai voler scappare.
    «Fermati...»
    Emersi all’improvviso su di un’area sufficientemente vasta, all’interno della quale la vegetazione diradava, e malgrado le chiome estese degli alberi formassero ancora un solido tetto a imprigionare il sole, il riverbero del fiume proiettava all’interno un liquido chiarore silvano. Poco più avanti sotto la volta dell’antro arboreo, un secondo corso d’acqua scrosciante, largo appena un paio di metri e profondo la metà, giungeva dall’entroterra e seguiva un corso tutto suo, a tratti interrotto da alcuni rami e tronchi recisi, sino a immettersi nel fiume.
    La strana ragazza se ne stava là, immersa sino alla gola dove il torrente formava una piccola cascata: potevo adesso chiaramente distinguerne i capelli scuri e lucidi, il viso delicato, e le labbra tenuemente cesellate di una carne violacea, che a tratti immergeva nell’opaco ruscello.
    Mi arrischiai a muovere qualche altro passo, ora che lei dava l’idea di non temere affatto la mia presenza. Giunsi sino a un paio di metri da quella creatura, e dove mi arrestai, il timore fu tutto mio.
    Non soltanto le mani, bensì anche i piedi, lunghi e affusolati, avevano l’aspetto di pinne flessibili e dai riflessi cangianti, come quelli di un pesce; e ancorché apparisse interamente nuda, anche sott’acqua, era facile scorgere come la pelle levigata e diafana di lei si ricoprisse a tratti di squame. Questo fenomeno interessava gli avambracci, le gambe sottili e flessuose, il basso ventre e il contorno delle guance, vicino alle orecchie, dietro le quali e sotto i capelli intravidi persino ciò che avrei detto essere branchie.
    Se la prima impressione fu dettata dallo sgomento, presto mi avvidi che nessuna di tali caratteristiche rendeva quella creatura mostruosa, o detestabile alla vista in alcun modo. La pelle, dov’essa era squamosa, si tingeva di glabri riflessi di un verde argentino; e anche le orecchie, estremamente sottili e squadrate, esprimevano la grazia medesima di quel lento aleggiare di pinne che lei muoveva come ventagli, per nuotare sul dorso e nascondere i seni.
    Si lasciava contemplare senza quasi far caso alla mia presenza, avvolta com’era da quelle grigie volute d’acqua e di sabbia che rendevano il tutto un’illusione, senza il cui velo era certo che la realtà stessa sarebbe parsa quanto mai fittizia.
    «Che cosa pensi che sia?» domandò Markus, giunto cautamente alle mie spalle e al pari di me ammaliato dall’arcano.
    Scossi la fronte senza sapere cosa rispondere. Ogni secondo trascorso dinnanzi a quella ragazza destava la mia indole quasi protettiva, se non un dovere morale, ripetendo che avrei forse dovuto portarla con me, lontana dalle fredde insidie di quella galleria di rami acuminati... ma le pinne, e gli occhi... come comportarmi a riguardo, e cosa pensare?
    «Dici che sia una sirena?» azzardò ancora Markus.
    «No, non credo... Secondo le leggende le sirene dovrebbero vivere nei mari e negli oceani, e poi non credo sia il caso di fantasticare a tal punto...»
    «Però da qualche parte dovrà pur venire, no?»
    Ciò detto, Markus avanzò sino al bordo del ruscello e si chinò a sfiorarne la superficie; subito la creatura strisciò verso di lui, come una bestia selvatica in cerca di qualche briciola.
    «Allora cosa sei, tu?»
    «Immagino che viva in questa riserva da parecchio tempo» dedussi. «Tanto almeno da avervi preso dimestichezza, e sentirsi a proprio agio.»
    «Però è strano, non credo di aver mai sentito parlare di qualcosa di simile in paese... Pensi che qualcuno oltre a noi ne sia a conoscenza?»
    «Non lo so, ne dubito» ribattei a bassa voce, lanciando uno sguardo in alto, al sentiero distante e appena intravisto, a sincerarmi l’assenza degli occhi indiscreti di eventuali passanti. «Questo è quel genere di cose che è meglio non far sapere in giro. Immagina cosa potrebbe succedere se una simile creatura diventasse di dominio pubblico.»
    «Quindi, proponi di tenerla per noi?»
    «Tenerla?»
    «Però ricorda che sono stato io a vederla per primo.»
    «Markus, ma che stai dicendo?»
    «Era solo per puntualizzare...»
    «Non è un giocattolo, né tantomeno un animale da compagnia» redarguì l’amico. «Al momento l’unica cosa che mi preme di fare è capire chi o che cosa sia, da dove venga, e se sia in grado di mantenersi da sola in questo luogo.»
    «E va bene, stavo scherzando» masticò Markus poco convinto, «ma intendi davvero lasciarla qui?»
    «Vorresti che la portassimo con noi in paese? E poi già che ci siamo le compriamo un vestito e diciamo che le pinne e le squame sono dovute a una brutta allergia?»
    «Ehi, non c’è bisogno di rispondere in questo modo, dicevo solo per dire...»
    Mi passai una mano sulle tempie e tentai di fare il punto della situazione. Markus nel frattempo si era aggiudicato la simpatia della sconosciuta, e le sfiorava la lucida membrana di quelle lunghe mani con rapita ammirazione.
    «Markus, sii prudente, potrebbe essere pericoloso.»
    «Ah, questa qui non farebbe del male a una mosca, credimi: io le capisco le donne.»
    Vedendo che sul bordo del fiumiciattolo, proprio di fianco al mio amico, si sporgeva un ampio dorso di roccia levigata, decisi di sedere e di studiare a mia volta la creatura sotto una migliore prospettiva.
    Molto probabilmente nell’antichità, la sola visione di un essere di tali sembianze avrebbe messo in fuga cavalli e cavalieri, ed eroi di ogni poema... mentre oggi, tutto si riduceva a una curiosità infantile, mai stata più distante dall’essere sinonimo d’intelletto.
    Mi venne in mente che in tasca conservavo un pacchetto di gallette di riso “per la merenda”: almeno questo mi parve un tentativo sensato.
    Le estrassi dalla confezione di cellofan trasparente sotto lo sguardo attento della ragazza e gliene tesi una; lei l’afferrò senza troppa fatica, la scrutò trasversalmente su entrambi i lati e ne fiutò l’odore senza grande interesse.
    «E’ buona» dissi. «Devi mangiarla...»
    Dacché quella mi si rivolse ancor più stranita schiusi le labbra e me le indicai con la maggior chiarezza possibile, poi estrassi una seconda e insipida galletta dal pacchetto e l’assaggiai, manifestando un piacere sicuramente eccessivo.
    «Si mangia» ripetei.
    La giovane spalancò le piccole fauci, mettendo in mostra due file di denti sottilissimi e affilati come aghi, ed emise un sibilo che fece gelare il sangue anche al mio amico. Poi ricompose il proprio dolce sorriso ed emulò il mio gesto, divorando in un sol morso il proprio biscotto.
    «Non farebbe del male a una mosca?» interpellai Markus, prima che potesse nascondere il proprio pallore dietro una flemma inopportuna.
    «E chi è adesso che la vuole addomesticare?»
    «Le sto solo offrendo da mangiare, magari ha fame...»
    Misi a disposizione della creatura l’intero pacchetto di gallette, per quanto il banchetto non sembrasse allettarla in particolar modo.
    Solo allora mi accorsi che i toni cangianti del corso d’acqua balenavano d’ocra laddove baciati dall’ultimo sole.
    «Siamo al tramonto» mi rialzai. «E’ tempo di andare.»
    «I tramonti d’aprile sono lenti» ribatté Markus.
    «Ma abbiamo parecchia strada da fare, e qui attorno non c’è l’ombra di un lampione.»
    Lui annuì mestamente e si rimise in piedi. La giovane estranea ci lanciò un’occhiata languida e affiorò per un tratto dal proprio nascondiglio, tendendo a noi le braccia e un soffuso richiamo, come quello che pocanzi ci aveva condotti là sotto.
    «Con lei, come la mettiamo?» sospirò Markus.
    «Ascolta» parlai lentamente e per gesti alla creatura, inginocchiandomi di fronte a lei, «ora dobbiamo andare, ma torneremo domani. Va bene?»
    Accostai una mano alla sua sagoma e le carezzai una spalla. Il dorso compatto e viscido di squame.
    «Va bene?» ripetei, anche al mio amico.

    Poco più tardi sulla strada di casa la mia mente e quella di Markus, alimentata l’una dalle fantasie dell’altra, davano voce alle più svariate congetture.
    Io temevo che quella poveretta, qualunque cosa le fosse successo, potesse trovarsi in grave pericolo, da sola, senza una casa e a contatto con quelle tipiche malattie delle acque stagnanti. E se fosse nata con quell’aspetto? Magari i suoi genitori spaventati e nondimeno mostruosi avevano preferito abbandonarla nella riserva piuttosto che accudirla. Ancora adesso mi allontanavo a fatica dal luogo dove l’avevamo lasciata così malvolentieri, al pensiero che di lì a poco sarebbe calata la notte.
    L’avremmo più ritrovata, l’indomani?
    Markus d’altro canto insisteva sulle proprie ipotesi di stampo mitologico, e io promisi che a tal proposito avrei svolto qualche ricerca, per metterlo a tacere e, in cuor mio, perché speravo avesse ragione.

    Cenai con mia madre e mio padre senza troppo appetito e senza mai emergere da quelle riflessioni e immagini che recavo dal tardo pomeriggio: gli strani sibili, il viso affilato e predatore di quella ragazza, e il ricordo indelebile della sua pelle squamosa e lucida sotto le dita.
    Raggiunsi in silenzio la mia stanza con la scusa del mal di testa e mi misi al lavoro: setacciai ogni scaffale e ripiano, passai al vaglio quell’infinità di titoli che erano i miei tomi scolastici, partendo dagli acquisti più recenti e procedendo a ritroso sino ai volumi vetusti che ormai confinavo alle tenebre dell’armadio, e che risalivano ai primi anni delle scuole medie (mai disfarsi di ciò che può ancora tornare utile).
    Persuaso dai titoli e dalla scarsa accuratezza degli argomenti trattati di non poter procedere che in ambito mitologico, misi da parte tutti gli scritti antropologici e artistici inerenti ai secoli passati e mi sorpresi di contarne così tanti. Li rovesciai sul letto e presi a scorrere gli indici.
    Markus non avrebbe mai saputo che la prima voce che decisi di approfondire fu proprio “sirena”: d’altro canto, da qualche parte bisognava pur cominciare.
    Come sospettavo, le “mermaid” del folklore inglese, fatte risalire a culture ben più antiche ma concernenti un sottocampo specifico del più vasto concetto di sirena, pur presentando diverse analogie con l’essere incontrato quel pomeriggio, rimanevano di fatto creature marine.
    Oltre tutto, a differenza della caratteristica “coda di pesce”, quella ragazza disponeva di arti inferiori ben distinti, e denti acuminati come spilli di cui non reperivo alcun riscontro; decisi quindi di estendere la ricerca a figure di donne che presentassero tratti animali di qualsiasi genere, e i risultati parvero decuplicare.
    Trovai qualche affinità con la figura delle lamie greche – nel complesso descritte come serpenti dal volto di donna o streghe dall’aspetto mutevole e zoomorfo – da cui i revenant, accomunati dalla medesima dieta a base di sangue e carne di vittime umane, con i quali tuttavia non riscontrai particolari attinenze.
    Dopo circa due ore di ricerche ininterrotte avvertii le prime avvisaglie dell’autentico mal di testa, quando il risultato più attinente sinora ottenuto riguardava alcune ninfe acquatiche semi-rettili, abitanti delle zone paludose e particolarmente attratte dai metalli preziosi.
    Con un ulteriore sforzo di volontà tentai di approfondire l’aspetto più raccapricciante e forse pietoso della situazione: quello di un possibile caso di deformità genetica, tra i tanti descritti nell’enciclopedia medica della libreria di casa.
    Rimasi fortemente turbato dalle numerose fotografie e illustrazioni del volume, tuttavia, e con un certo sollievo, non ottenni alcun risultato pertinente.
    Me ne andai a letto più confuso di prima, e per una mezzora riuscii a pensare soltanto a quella ragazza dai tratti difformi, da qualche parte rintanata nella tetra boscaglia notturna.

    L’indomani ricevetti la visita di Markus subito dopo colazione, e data l’assidua presenza dell’amico e compagno di studi in casa nostra durante gli ultimi tempi, ciò non destò i sospetti di nessuno, fatta eccezione per il sottoscritto. Dacché lo vidi in faccia compresi che aveva urgenza di parlarmi in privato, e non mi fu difficile indovinare il soggetto della conversazione.
    «Hai qualche novità a proposito della nostra amica?» aveva cominciato.
    «Non molte, a dire il vero» mi ero stretto nelle spalle. «Non credo sia una sirena: per certi versi è più simile a una ninfa, o ad altre creature di cui non ripeto il nome, e sarebbe il caso di tentare alcune prove per sincerarsene. Tu, hai qualche novità?»
    La mia fu quasi una domanda di cortesia, e dovetti celare una sorpresa allorché Markus scosse energicamente la testa, venendomi più vicino, quasi a voler confidare un segreto.
    «Dato che delle ricerche te ne occupavi tu non sapevo esattamente come comportarmi... Così ho chiesto un po’ in giro...»
    «Tu, cosa?»
    «Non preoccuparti, sono stato discreto» disse. «Mi sono limitato a fare domande riguardo eventuali leggende o avvistamenti nella zona della riserva. Ho detto che si trattava di una ricerca per scuola.»
    Annuii rincuorato.
    «E a chi ti saresti rivolto?»
    «Ai miei, a mia sorella, a un paio di conoscenti di mio padre...» Markus si interruppe un istante. «Infine a mia nonna.»
    «E...?»
    «E’ stata proprio lei a fornirmi le risposte più attinenti, ci credi? Anzi, per molti versi sono terribilmente attinenti, tanto che mi è bastato accennare a eventuali leggende locali riguardanti il fiume e lei se n’è uscita con certi racconti dell’orrore...»
    «Davvero? E di che si tratta?»
    «Secondo la nonna, “nella zona più selvatica e oscura della riserva ha dimora un’orribile creatura, per metà umana e per metà pesce, mangiatrice di uomini, e con una particolare predilezione per i bambini che vengono lasciati vagare incustoditi”. In pratica, lei berrebbe il sangue delle sue vittime sino a ucciderle, per divorarle in seguito.»
    Non riuscii a trattenere un lieve moto d’ironia che non sorprese affatto il mio amico, quasi se lo attendesse.
    «Eh, già...» disse in tono complice, «anche per me tutto questo non è giusto; insomma, l’abbiamo vista entrambi: Sandy non fa del male a nessuno, e di sicuro non è orribile!»
    «Sandy?»
    «Sì, beh...» spiegò Markus con calcolata naturalezza, «dovremmo pur riferirci a lei con un nome, non credi? Ho pensato che Sandy le donasse, tu che ne dici?»
    «Non è questo, è che...»
    Alzai gli occhi al cielo. Markus mi esortò a continuare.
    «Nulla» sospirai. «Sandy piace anche a me. Cerchiamo solo di non farci coinvolgere troppo da questa faccenda: non siamo nemmeno sicuri che Sandy si trovi ancora dove l’abbiamo lasciata.»

    A tal riguardo, fu con un peso sul cuore che Markus e io ripercorremmo il sentiero che il pomeriggio precedente ci aveva condotti a incontrare la così ribattezzata Sandy. Entrambi tacevamo, con l’orecchio teso in ascolto d’ogni singolo sospiro del vento nella speranza di cogliere un segno della sua presenza.
    Oltrepassammo la vecchia gradinata in pietra scura ancora in attesa: nessuna traccia della nostra “amica palmata”, e da un lato fu forse un bene, poiché diversamente da ieri, lungo il percorso si incontrava un certo numero di passanti (quasi tutti accigliati ciclisti del sabato mattina e altri atleti “in pectore”, evasi dalla vita d’ufficio, che comparivano all’orizzonte e si defilavano nel giro di pochi minuti). Mi venne in mente che forse, Sandy era solo spaventata da tutto quel viavai di gente, il che avrebbe rappresentato un’eventualità essenzialmente positiva.
    Poco più tardi ci trovammo all’altezza del piccolo ruscello nascosto tra i rami; udii lo scrosciare dell’acqua sul fondo sabbioso, e appena più avanti distinsi un ponticello che il giorno precedente non avevamo avuto occasione di superare.
    Trovammo un piccolo pertugio naturale che scendeva nella macchia, sotto un arco di rami flessibili che sembrava nato a tal fine, e approfittando di un momento di solitudine il mio amico e io andammo a sostare laddove Sandy aveva fatto il bagno. Riprendemmo anche a parlare, nella speranza che udendo le nostre voci, e nell’eventualità che si trovasse nei paraggi, le fosse più semplice raggiungerci. Attendemmo una decina di minuti, tenendo la mente impegnata e disquisendo del più e del meno.
    In effetti, credo di non aver mai conosciuto Markus tanto quanto in quei minuti, e sebbene in entrambi animassero i timori e l’impazienza di un’attesa che tentavamo di mascherare, tale intervallo finì per dimostrarsi più interessante di quanto avessi supposto.
    Iniziavo a credere che il nostro recente incontro con Sandy fosse da ritenersi del tutto occasionale, e che un giorno lo avremmo ricordato come poco più vivido di un miraggio; ma allorché udii un lieve fremito del terreno alle spalle e uno sciabordio, e vidi il mio amico illuminarsi in volto ed esclamare: «Ecco la mia bambina!» non potei che tirare un sospiro di sollievo.
    Riconobbi lo sguardo vivace della giovane fare capolino da dietro un cespuglio di steppa e mi chiesi da quanto tempo se ne stesse nascosta lì, a osservarci. La salutai con un lento cenno della mano e la incoraggiai a farsi più vicina, lei comprese, sin troppo bene, ma si limitò a strisciarci attorno carponi con aria giocosa.
    Notai che Sandy non si ergeva sugli arti inferiori al pari di un essere umano, e a parer mio, ciò si doveva alla forma dei “piedi”, lunghi e cartilaginei, quindi inadatti a sostenere il peso del corpo. Malgrado ciò, e pur trascinandosi, la giovane si rendeva capace di scatti di sorprendente rapidità, e per quanto ora Markus volendo stare al gioco tentasse di raggiungerla, lei riusciva sempre a sfuggirgli.
    Sembrava piuttosto contenta di vederci, ma per quanto questo appagasse anche me, fremevo all’idea che qualcuno dal sentiero potesse sentirla, quindi vederla.
    «Ehi, Sandy...» la chiamai di nuovo, «vieni un po’ qui...»
    Niente da fare: si divertiva troppo a scappare, e quel buontempone irrecuperabile di Markus le dava pure corda! Fortunatamente, anche per questo vi era rimedio, e spalancato lo zaino che il mio amico e io ci portavamo appresso ne estrassi un paio di sacchetti. Ivi era contenuta la totalità dei miei “esperimenti per la giornata”, e dal momento in cui presi ad armeggiarvi, ottenni la completa e ubbidiente attenzione di Sandy.
    «Guarda cosa ti ho portato» sorrisi affabilmente, facendo tintinnare nel palmo alcune monete che la mattina stessa mi ero preso la briga di lucidare al meglio.
    Sandy sollevò il capo a esaminare quel misero dono come si fosse trattato di un tesoro inestimabile, e a seguito di una prima e breve diffidenza tese le dita a impossessarsene. Io mi ritrassi.
    «Non così in fretta.» Presi una singola moneta e gliela mostrai. «Pensi di meritartela?»
    Sandy mi rivolse un’occhiata obliqua e impagabile.
    «Ma non si era detto di trattarla come una persona?» intervenne Markus. «E poi, che cosa stai facendo con quelle monete?»
    «Potrebbe essere molto più che una persona» sottolineai. «Ricordi quando hai detto che Sandy somigliava tanto ad alcune creature della mitologia antica, come le sirene? Ho svolto delle ricerche a tal proposito, e sì, in certi casi delle affinità ci sono. Alcuni tipi di ninfe, per esempio, sono particolarmente attratte dagli oggetti preziosi.»
    Lasciai cadere a terra la moneta e Sandy le piombò addosso in un baleno.
    «Quindi avevo ragione!» dedusse Markus trionfale.
    «Qualche volta deve pur capitare» ribattei. «In ogni caso non ne siamo certi: sono solo supposizioni, e forse la nostra Sandy è semplicemente incuriosita perché non ha mai visto una moneta.»
    «E cosa sono le altre cose che hai messo nei sacchetti?»
    «Ci stavo arrivando.»
    Prima di ricevere la visita di Markus, quel mattino, avevo detto a mia madre che mi sarei recato personalmente al mercato della piazza, per le spese alimentari: attività piuttosto insolita, ma che giustificai sostenendo di dover comunque passare di lì per acquistare dei quaderni nuovi.
    Naturalmente, non tutta la spesa sarebbe stata destinata alla famiglia. Dal secondo e più capiente sacchetto estrassi un avvolgimento di carta stagnola e un piatto di plastica bianca largo e sottile.
    «Molte altre creature, persino tra quelle di origini più recenti» spiegai, «sono accomunate dall’identica passione per la carne: meglio se cruda.»
    Misi a terra il piatto e vi rovesciai una succulenta bistecca disossata cui mancava solo il contorno, e che speravo valesse a tentare l’appetito della nostra amica.
    «Sì ho capito, ma non sarebbe meglio cuocerla ugualmente?» domandò Markus. «Sai, per le malattie...»
    Assentii, in effetti colto da qualche remora.
    «Purtroppo questo non è stato possibile: i miei avrebbero fatto domande e non c’era molto tempo. Almeno le ho messo il piatto.»
    Intanto Sandy, senza separarsi dalla sua preziosa moneta, aveva preso a ispezionare lo strano alimento con un’aria meno convinta di quanto avessi sperato.
    «Che c’è?» la esortai. «Non ti piace?»
    Di tutta risposta lei agguantò il filetto come si fosse trattato di uno scarto e lo gettò da parte, con estrema indignazione.
    «Guarda che quella non me l’hanno regalata!» la rimproverai stupidamente.
    Lei mi si rivolse scontenta e spazientita da quello che dovette sembrarle un dono di cattivo gusto.
    «Cos’è, non passano più di dieci secondi dal primo regalo che ricevi che fai già la preziosa?»
    «Suvvia, Valerio, cerca di essere più delicato con lei» intervenne Markus.
    «Sono delicato, ma doveva proprio gettarla via, la carne?»
    «Evidentemente non le piace...»
    «Evidentemente. A tal riguardo possiamo almeno escludere questo tipo di affinità con...»
    Proprio in quel mentre, Sandy sorprese entrambi con uno scatto felino, attraversando la boscaglia in direzione del fiume sparendo dietro l’inestricabile groviglio dei rami nel giro di un istante. Markus e io, scambiataci un’occhiata d’allarme, le andammo dietro senza sapere cos’aspettarci.
    La trovammo poco più avanti sulla spiaggia, seduta sotto la luce del sole sull’ansa delle nude gambe, di spalle, nell’atto di trattenere qualcosa che paurosamente e furiosamente si dibatteva.
    Mi accorsi che si trattava di un’anatra nel momento esatto in cui Sandy affondò entrambe le file dei sui denti aguzzi sotto la gola del pennuto, ed esso si irrigidì in un ultimo anelito di vita. Poi udii un rumore liquido e orribile e compresi che la giovane aveva iniziato a drenare il sangue della preda e a inghiottirlo avidamente.
    Markus, divenuto pallido come un cencio, avrebbe ora voluto fermare Sandy dal compiere tale atrocità, ma gli indicai di non intervenire: non era affatto prudente.
    Rimanemmo attoniti a osservare, mentre Sandy prosciugava il malcapitato volatile sino all’ultima goccia di sangue, per poi spolparlo a morsi sino all’osso. Una volta ch’ebbe terminato il pasto la seguimmo di nuovo all’ombra della macchia, dove soddisfatta e di ritrovato buon umore, e con le labbra ancora madide di sangue, volle distendersi e riposare.
    «Beh, almeno ora sappiamo che è autosufficiente» tossicchiò Markus, dietro il fazzoletto che si premeva sulla bocca. «Cosa ne pensi di questo?»
    Rimasi un istante a ponderare, su quanto appena accaduto e sul poco tempo trascorso in compagnia di quella creatura. Infine risposi:
    «Penso che in fondo ci sia del vero nella leggenda di cui parlava tua nonna, riguardo l’essere che abita in questa riserva, che beve il sangue delle sue vittime e poi le divora» sospirai, mentre guardavo Sandy beatamente accoccolata tra le radici di un albero. «Però non penso che lei sia un mostro... E d’altra parte di qualcosa deve pur vivere, anche a dispetto delle anatre.»
    «Quindi, che si fa?»
    «Non lo so. Ora sappiamo che la nostra presenza qui non è necessaria» ragionai. «Credo che la cosa migliore da fare sarebbe andarsene, e lasciarla in pace.»
    Markus schioccò la lingua amareggiato.
    «Andiamo, non puoi dire sul serio...»
    «E perché no?»
    «Perché Sandy ormai ci considera suoi amici, si è abituata alla nostra presenza...»
    «Sono solo un paio di giorni che veniamo qui...»
    «E si sta affezionando.»
    «E’ lei che si sta affezionando a noi, o tu a lei?»
    «Beh, entrambe le cose» sospirò Markus quasi tra sé. «Vogliamo davvero abbandonarla a se stessa?»
    «Markus, Sandy non è...»
    «Un animale da compagnia» mi precedette. «Lo so, ed è proprio per questo. Un cane o un gatto alla lunga si adeguerebbero alla nuova solitudine; ma Sandy, cosa penserebbe? Da quanto tempo non ha nessuno cui rivolgersi? E se ce ne andassimo tornerebbe a essere sola...»
    Alzai gli occhi al cielo e mi passai una mano attorno alle tempie.
    «Figuratela domani: seduta ad attendere vicina al ruscello e passare le ore, nella vana speranza di vederci tornare e...»
    «D’accordo, finiscila.» Odiavo doverlo ammettere ma le parole dell’amico erano valse a estinguere persino l’esile barriera di distacco che ancora si poneva fra me e quelle pessime idee. «Però non sarà facile, lo sai. E questa situazione deve evolvere, non può rimanere in eterno tanto precaria.»
    «Mi sembra giusto» fece Markus beatamente, concentrato soprattutto sulla prima parte della mia risposta. «Quindi, qual è il piano?»
    «Innanzitutto ci assicureremo di poter comunicare con Sandy chiaramente: per spiegarle quali sono i giorni in cui possiamo venire a trovarla, e perché, il prima possibile, cercheremo un luogo più adatto per le nostre “visite pomeridiane”.» Non ero a mio agio con quell’ignaro e continuo andirivieni di voci a pochi metri da noi e dalla nostra nuova protetta. «In seguito cercheremo di capire se in questa zona Sandy abbia dei simili, e in tal caso, la porteremo a loro.»
    Di udire questo Markus non fu troppo lieto, ma comprese le mie motivazioni e finì per assentire mestamente.
    Radunai i sacchetti vuoti e richiusi lo zaino, disposi le monete che tenevo da parte vicino alla giovane assopita e rimasi a guardarla un istante. Il mio amico aveva ragione: più ancora che il giorno prima sarebbe stato arduo dirle addio... e l’iniziale diffidenza verso quelle forme bizzarre e aliene del corpo di lei, che mi aveva reso cieco nei confronti di tanta bellezza e fascino, cedevano adesso agli albori di un’attrazione che non desideravo. Distolsi lo sguardo e mi rialzai.
    «Vieni, Markus. Lasciamola riposare. Credo che adesso avremo parecchie cose di cui discutere.»

    L’indomani fu l’ultimo giorno di quella settimana che il mio amico e io potemmo trascorrere liberamente e senza limiti di tempo in compagnia di Sandy – per via del lunedì e dei suoi impegni scolastici – e fu comune intenzione di sfruttare al meglio tale occasione per mettere in pratica quanto stabilito.
    Malgrado una prima riluttanza, inducemmo la nostra comune amica a spostarsi più in là nella selva, dove gli alberi si stringevano in una cupola impenetrabile ai raggi solari, se non dal lato del fiume, e l’assiduo cantare dei volatili palustri copriva qualsiasi altro rumore.
    Più arduo compito fu quello di spiegare alla giovane palmipede che “Sandy” era il nome con cui avevamo scelto di riferirci a lei, ma con i primi risultati, fu assai più comodo e soddisfacente ottenere la sua attenzione.
    Con l’ausilio di alcuni bastoni per mezzo dei quali scrivevo e disegnavo sulla sabbia, e a seguito di un ulteriore sforzo d’astrazione, riuscii persino a richiamare nell’intelletto di Sandy il senso del trascorrere delle settimane, di modo che, mi dicevo, molto presto avrebbe imparato a distinguere i giorni nei quali aspettarsi la nostra visita. A tal proposito va detto che ben presto mi avvidi di quanto fosse semplice comunicare con Sandy, poiché malgrado questa si esprimesse per mezzo di un coacervo di strani sibili e soffusi latrati, sembrava comprendere le parole della nostra lingua con estrema facilità, e impararne di nuove con altrettanta perspicacia.
    Con il principiare della settimana scolastica le nostre visite dovettero spesso posticiparsi, farsi più brevi, e talvolta Markus e io fummo costretti a darci il turno, benché tutto ciò non andasse a gravare eccessivamente sull’umore di Sandy, la quale sapeva che presto o tardi saremmo tornati da lei. Di giorno in giorno si faceva più affettuosa, affidabile, e diede prova di grande empatia quando, evidentemente accortasi di destare – con i propri banchetti a base d’anatra – un certo disagio nei suoi amici civilizzati, smise di nutrirsi in loro presenza.
    Inutile dire che l’improvviso e peculiare interessamento per la zona della riserva, come meta delle mie escursioni pomeridiane, finì per attirare l’attenzione di familiari e conoscenti, al che tuttavia rispondevo con la massima naturalezza possibile, di risentire dei primi richiami della bella stagione, e anche in vista degli esami di fine anno, di volermi concedere due o tre ore al giorno per distendere i nervi. In tema di studi, in effetti, nulla dall’incontro con Sandy fu più come prima; e non mi riferisco a grandi mutamenti di pensiero, quanto a un’infinità di piccoli dettagli e situazioni di poco conto che di tanto in tanto si trovarono a occupare le mie riflessioni, alternando momenti di frustrazione ad altri di profonda ilarità.
    Durante le lezioni di chimica e scienze della terra, per esempio, il nostro illustre professore era solito insistere sull’ingenuità delle credenze popolari degli antenati, e una volta se ne uscì con l’esempio delle sirene, poiché a parer suo, un tale ibrido non aveva ragione di esistere, ossia, non poteva esistere in quanto anatomicamente inadeguato alla sopravvivenza.
    Altre occasioni analoghe seppure diametralmente opposte si ebbero con l’insegnante di lettere: un ometto calvo e tarchiato che non mancava occasione per esprimere un parossistico trasporto verso il sovrannaturale delle opere scritte, e che sicuramente, se avessi scelto un giorno di condurre dinnanzi a Sandy, si sarebbe messo a piangere di gioia come un bambino.
    Benché Markus e io frequentassimo la stessa scuola, la fortuna voleva che fossimo stati smistati in due sezioni distinte, il che mi liberava dalle complici altresì irritanti occhiate di quest’ultimo riguardo tali argomenti, per l’appunto segreti. Trattandosi di lui, mi pareva già tanto che l’intero vicinato non ne fosse ancora a conoscenza, e d’altro canto, la serietà con cui egli gestì il caso di Sandy finì per lasciarmi piacevolmente sorpreso.
    Ma tornando alla cosiddetta “vita di tutti i giorni”, quel periodo fu per me cagione di una progressiva ed evidente sovversione d’idee che definirei quasi inevitabile: una nuova e meno ristretta prospettiva in contrapposizione all’indole scettica di cui precedentemente disponevo, poiché pensavo, quanti altri misteri albergavano silenti e obliati da tutti sulla faccia della terra? E quante altre creature e specie d’ogni sorta, come Sandy, potevano uscire senza preavviso dalle pagine dei racconti e dai rassicuranti confini della leggenda?

    Ricordo che un plumbeo mattino domenicale ero sceso al fiume prima di Markus, il quale si trovava ancora in alto mare con gli studi e con un certo rammarico aveva annunciato che mi avrebbe raggiunto entro una o due ore al massimo.
    Ormai ci trovavamo a fine maggio, e senza alcun preavviso il cielo si era fatto nuvoloso, l’aria carica di vento e sabbia ad annunciare il primo di quei temporali estivi, che da sempre imperversano sulla nostra regione.
    Per una volta fu un sollievo addentrarsi nella vegetazione, poiché stretta e robusta fra le proprie cortecce riduceva i sibili graffianti del maestrale a un ululato distante. Eppure, tra i numerosi intoppi ed effetti collaterali legati a Sandy e sui quali mi ero lambiccato il cervello nelle ultime settimane, avevo mancato di considerare l’eventualità di tali fenomeni atmosferici, e ora mi sentivo tremendamente in apprensione per l’incolumità della giovane.
    Se ne vedevano spesso di pesci, gatti e altri piccoli animali trasportati via dalla corrente con la nuova calma di vento; ma ciò non doveva accadere, non a quella creatura, la cui amicizia era un fardello sempre più voluto e meno obbligato.
    La chiamai e lei venne quasi immediatamente, difatti era mio sospetto che trascorresse gran parte delle giornate ad attendere la mia visita o quella di Markus; sembrava innervosita dal maltempo e teneva il capo leggermente reclinato, gli arti anteriori serrati sul petto in atteggiamento di difesa.
    Si guardò attorno smarrita e quando capì che mi trovavo lì da solo dovetti scorgere nei suoi occhi una lieve delusione, ingenua e trasparente. Senza dubbio associava a Markus un’immagine protettiva e amorevole, mentre io rappresentavo, per così dire, il “genitore severo”.
    Misi da parte tali riflessioni e composi un mesto sorriso.
    «Ciao, Sandy» le dissi. «Hai visto che tempaccio che c’è oggi? Per fortuna stai bene... E non ti preoccupare, Markus sarà qui entro un paio d’ore.»
    Oramai l’intesa con lei era tale da poter comunicare speditamente e senza impicci, come tra esseri umani (di cui certamente studiava i linguaggi a debita distanza sin da molto prima di conoscerci), e addirittura, come tra amici.
    Sandy si portò silenziosamente al mio fianco, adesso ch’ero assiso su di un tronco spezzato, e lì parve acquietarsi, posandosi a me e reclinando con grazia il capo sotto il mio collo. In circostanze differenti era mia buona norma evitare il contatto fisico – dacché sebbene d’ibrido si trattasse, con tanto di branchie e macchie di squame sulla pelle, l’aspetto di lei era sempre quello di una ragazza, e di una ragazza svestita – però in questo caso non mi sentii di abbandonarla a sé stessa, o forse cedetti alla tentazione, e per alcuni minuti rimasi ad accarezzarle una spalla, ascoltando l’infuriare del vento e sussurrando che andava tutto bene.
    Adesso udivo in lontananza il boato dei primi tuoni, mentre l’aria si riempiva di quel fruscio di pioggia tra le fronde; avvolsi Sandy al meglio con la mia cerata verde e per la prima volta considerai seriamente l’idea di portarla a casa, con tutto ciò che ne sarebbe conseguito, compresa l’eventualità di imbattersi in qualche passante lungo la strada.
    Era sempre meglio che lasciarla a se stessa.
    Infine Sandy si scrollò di dosso la cerata, e mi venne in mente che per una creatura della sua specie la pioggia non doveva certo rappresentare un problema.
    «Da quanto tempo vivi qui?» le domandai.
    Lei rispose con un cenno che non compresi.
    «Hai già visto altri di questi temporali, prima d’ora?»
    Sandy annuì. Ne fui sollevato.
    «E di solito, come fai a uscirne sana e salva?»
    La giovane scivolò a terra e m’indicò di seguirla fuori dal nostro riparo per uscire sulla riva del fiume. Subito mostrai i miei dubbi a riguardo e tentai di ribattere, ma l’occhiata d’insofferente rimprovero ch’ella mi rivolse non ammetteva repliche e si espresse da sé anche nel silenzio.
    Attraversammo la spiaggia a ritroso, in direzione del paese, sotto una pioggia greve e incessante per una cinquantina di metri, evitando quella zona della selva tanto intricata di rampicanti e roveti da risultare del tutto impraticabile. Giungemmo dinnanzi a un secondo riparo, molto angusto, e che immaginai collocato dietro quella prima scalinata in pietra grezza che Markus e io avevamo disceso il mese scorso.
    Forse era stato proprio dove mi trovavo adesso, proprio allora, che per la prima volta Sandy ci aveva notati, invisibile e silenziosa, studiando indisturbata le nostre voci, e le nostre sagome.
    Vi era un punto in cui gli alberi si stringevano a formare una sorta di tettoia naturale, sotto la quale due lunghe placche rocciose, poste l’una accanto all’altra e inclinate a ‘V’ come lo scheletro di una nave, avevano nel complesso l’aspetto di un nido o un giaciglio.
    «Sei stata tu a fare questo?» indicai il rifugio. «Tu dormi qui?»
    Lei annuì nuovamente.
    Mi esortò a incedere verso quella sua rudimentale dimora, e io mi sentii invadere dal medesimo senso di rispetto che accomuna i rari ospiti di un eremita, quasi che mi trovassi sulla soglia di una reggia, calcolando ogni passo e temendo persino di spostare l’erba.
    Mi avvidi che il nido era stato riempito di recente con foglie giovani e morbide così da risultare più confortevole, e finsi di non notare l’odore di sangue e di pesce spolpato che nella zona limitrofa saturava l’aria. Probabilmente era qui che Sandy veniva a consumare i resti delle bestie che riusciva a procacciarsi, e le fui grato se non altro per non aver lasciato in giro qualche carcassa decomposta.
    Da perfetta padrona di casa mi invitò a sederle accanto sul ciglio del nido, poi si accoccolò al centro della propria culla silvana e lì rimase, quasi che il temporale non le arrecasse più alcuno spavento. Fu proprio allora, mentre fuori la pioggia diveniva un pianto scrosciante sulle onde del fiume, che mi resi conto di quanto Sandy fosse capace di badare a se stessa, meglio di quanto Markus e io tentassimo e tentassimo, e che se non ce n’eravamo mai accorti... se non avevamo deciso di lasciarla sola, questo si doveva unicamente al nostro egoismo, e all’insensato desiderio di possedere qualcosa che non ci sarebbe mai appartenuto.
    Adesso le saette s’inseguivano sopra il nostro cielo scuotendo la terra... ebbi timore che da un momento all’altro qualche albero lì attorno potesse essere colpito, ma poi mi avvidi che ve n’erano così tanti e tanto fitti da impedirsi l’un l’altro di schiantare al suolo, e che persino nell’improbabile caso di un incendio, non sarebbero difettate le vie di fuga.
    «Brava la mia Sandy» bisbigliai, sfiorandole la fronte umida con dita tremanti.
    Ho sempre temuto i temporali, e nella fattispecie i fulmini, poiché rapidi e letali sono liberi di mietere una vita senza alcun preavviso. Mi chiedevo se si avesse il tempo, in tal caso, di accorgersi e soffrire di una morte simile: di sentire la folgore ardente trafiggere il cuore prima di spegnersi con esso... e paradossalmente, immagino che la paura più grande stesse nella consapevolezza d’essere completamente inerme, indifeso, dinnanzi a un’entità senz’argini né controllo.
    Sospirai e mi convinsi a pensare ad altro: come sempre la paura sarebbe estinta in compagnia di se stessa cicatrizzando nell’abitudine. E poi Sandy, quale medicina migliore della sua sopita serenità per curare l’angoscia? Non avendo ancora udito passare Markus dal sentiero e non potendo comunicare con lui, immaginai che avesse scelto saggiamente di rimanersene a casa, evitando complicazioni a noi e a se stesso.
    Doveva essere molto in apprensione al momento, però diceva sempre di nutrire grande fiducia nei miei confronti, e anche se forse mi sopravvalutava, sapere che mi trovavo con Sandy lo avrebbe sicuramente fatto star meglio. Mi dissi fosse raro che i temporali estivi durassero fino a sera; che una volta rincasato, avrei raccontato ai miei di essere stato colto alla sprovvista dal maltempo, e di aver atteso che passasse chiuso in un bar o sotto un portico. Poi chiusi gli occhi, e spesi seduto il trascorrere delle ore successive, ascoltando quella tiepida coltre di nebbia liquida fondere all’unisono con il respiro di Sandy.

    Quella sera stessa il cielo disperdeva le nubi a est e a ovest come le spoglie di due eserciti al concludersi della battaglia, e io mi incamminai verso casa con l’intento d’inventare un pretesto, per sostare da Markus e annunciargli le buone nuove. Giunsi da lui alle sette meno un quarto, e ricordando i dilatati ritmi lavorativi che scandivano le vite dei miei compaesani mi venne in mente di essere appena un po’ in ritardo per la merenda.
    Così gustammo assieme una granita fatta in casa, troppo fredda per la giornata che avevo vissuto, mentre l’amico mi puntava addosso due occhi pieni di gratitudine e ammirazione, che mi fecero sentire inspiegabilmente meschino, tanto che a un tratto dovetti far notare quanto non avessi fatto assolutamente nulla per proteggere Sandy.
    Al che lui ribatteva in un modo che ormai riusciva a convincermi così poco. Era stata Sandy a gestire il temporale, lei a occuparsi di me, lei a dimostrare ancora una volta di non avere alcun bisogno del nostro prezioso contributo, però secondo Markus, ciò che veramente aveva importanza stava nel gesto da me compiuto, perché nella solitudine dell’amica vi era soprattutto bisogno di un po’ d’altruismo.
    «Ma siamo davvero altruisti, noi due, Markus?»
    Con questa frase, dopo aver ringraziato per l’ospitalità e per la granita alla menta, mi congedai dal compagno di studi, e ridiscesi sulla strada di casa sotto l’opale e le ombre longilinee del crepuscolo.

    Fine prima parte.


     
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    Ehi, sfaticati, non lo commenta nessuno questo?? :D
     
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  3. Houyhnhnm
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    Per quanto possa valere la mia opinione, l'ho trovato molto ben scritto e decisamente intrigante! ZhWZZAS
     
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    Houyhnhnm, benché io non sappia pronunciare il tuo nome apprezzo il complimento :) Ecco la seconda parte, la qual comincia: Durante le quattro settimane... (Mi andava di fare una cosa "alla Dante" XD)

    II – Punti di vista


    Durante le quattro settimane successive a tale evento mi trovai ad affrontare l’autentica realtà degli esami di giugno: quella di un’elaborata e minuziosa coreografia, con le sue stelle e ballerine di seconda fila, dove ogni studente impara nel giro di un mese ciò che per anni ha voluto ignorare, ovvero un modo per sembrare intelligente.
    Presto le lezioni sarebbero terminate nel coro contrastante dei miei compagni. Per molti si prospettava la prima e ultima estate da rimandare volentieri, mentre agli occhi del sottoscritto, benché l’esame rappresentasse pur sempre una meta importante, sarebbe stato meglio concludere il tutto in uno o due giorni al massimo.
    Un mattino come tanti mi attardai in aula oltre il termine delle lezioni, con il libro di letteratura aperto circa a metà sul banco e lo sguardo rapito da quel racconto, ch’era un vortice di frasi e pensieri senza fine né fondo; un viaggio d’introspezione che il protagonista si trovava a compiere seduto tra i banchi di scuola, e al pari di me andava lontano, vagava per anni e anni nel passato sino a dimenticare il presente.
    Mi trovai affacciato sulle pagine del libro come dinnanzi a uno specchio o un baratro e istintivamente mi ritrassi. In fondo all’aula il professore d’italiano mi fissava con il sorriso sardonico di uno stregone intento ad ammaliare la sua preda. Dapprima mi limitai a ricambiare macchinalmente il saluto, chiudendo il libro di lettura e accennando un apprezzamento riguardo il suddetto racconto che tentai di sminuire, e che risultò semplicemente troppo secco; poi mi balenò quell’idea tanto scontata, ma che durante i due mesi appena trascorsi non mi era passata per la testa una sola volta.
    «Mi scusi, professore» lo fermai, poco prima che se ne uscisse dalla classe con la valigetta in pelle sotto braccio e i suoi passi corti e saltellanti. «Mi chiedevo se potessi farle una domanda a proposito di un racconto, sempre che non vada di fretta...»
    «Oh, certo che no!» si illuminò il docente. «Un brano affascinante quello testé letto, non è vero? Sono anni che lo ripropongo e non invecchia mai, sebbene a differenza dell’autore io non mi ritenga un vero amante del realismo.»
    «Come dice?»
    «Troppa realtà può nuocere gravemente alla salute, come la fantasia, però chi si ammala di fantasia è pazzo, mentre chi si ammala di realtà è vecchio. In questo senso, temo di appartenere alla prima categoria, perché spesso la realtà mi appare come la più semplice delle fantasie.»
    Quell’uomo piccolo e robusto mi fece l’occhiolino mentre attonito assistevo all’ennesima delle sue digressioni, poi si strinse nelle spalle e soggiunse: «A dire il vero, temo di aver appena usato alcune massime tipiche di quegli scrittori moderni che a voi giovini piace tanto citare... Ma adesso divago troppo, e tu eri sul punto di chiedermi qualcosa a proposito di tale racconto, dico bene?»
    Scossi la fronte sovrappensiero, poi mi ripresi da quel bizzarro arabesco di parole e annuii ancora, in modo più energico.
    Non avevo mai sentito qualcuno esprimersi in quel modo, eccetto che nei libri. Immaginai che il docente indossasse una maschera di realtà durante le sue lezioni e riservasse le proprie autentiche sembianze ai pochi e sfortunati ritardatari.
    «Allora?» mi esortò di nuovo. «Di che si tratta?»
    «Beh, vede, a dirla tutta non si tratta del racconto che abbiamo letto oggi... Anzi, non si tratta nemmeno di un racconto vero e proprio...»
    «Temo di non capire, Valerio, ragazzo mio.»
    «Si tratta di una creatura, di cui ricordo di aver letto da qualche parte tempo fa... Mi aveva molto colpito, però temo di averne dimenticato il nome, e a tal proposito mi domandavo se lei potesse aiutarmi.»
    A queste parole il docente s’illuminò. Ci contavo.
    «Coraggio, dimmi di che si tratta.»
    «Vediamo, da dove cominciare...» finsi vaghezza. «Ha l’aspetto di una ragazza, adolescente, che vive in prossimità dei corsi d’acqua. Bella ed esile, benché a tratti coperta da una sottile epidermide squamosa. Gli arti, superiori e inferiori, estendono lunghe dita palmate.»
    Mentre parlavo il docente annuiva tra sé, stringendo le palpebre come per mettere a fuoco un immagine che lentamente riaffiorava.
    «... Gli occhi, verdi, ricordano quelli di un rettile...» continuai, «però i denti, appaiono stretti e aguzzi come quelli di un pesce tropicale. Le orecchie...»
    Ma a quel punto mi fermai, perché il mio interlocutore, spalancato un nuovo sorriso e battutosi la fronte dava l’idea d’essere ormai giunto alla soluzione.
    «Valerio, tu stai certamente parlando di una leech!»
    «Leech?» domandai.
    «Beh, naturalmente viene chiamata in questo modo a causa delle sue abitudini alimentari, piuttosto che per le affinità anatomiche.»
    «E di che si tratta, esattamente?»
    «Credevo avessi già letto a riguardo...»
    «Ma è stato molto tempo fa» mi difesi. «Purtroppo non ricordo un granché...»
    L’insegnante annuì comprensivo.
    «Come hai ben riassunto, le leech sono donne la cui anatomia presenta evidenti caratteristiche ittiche; sono solite nidificare in corrispondenza di fiumi o nelle paludi, e a giudicare dalla primitiva struttura gerarchica dei loro ceppi familiari, qualcuno sostiene persino che le leech rappresentino il proverbiale anello di congiunzione tra l’uomo e il pesce.»
    «Lei crede che le leech esistano veramente?»
    Il professore fece un passo indietro e mi rivolse un’occhiata diffidente.
    «Non sarai qui per divertirti a darmi del visionario, vero ragazzo?»
    «Nulla del genere, affatto. La prego, mi dica cos’altro conosce riguardo tale argomento.»
    «Si tratta di una leggenda antica, che trae probabilmente le proprie origini o si collega ad altre creature di fatto molto simili...»
    «Come le sirene?»
    «Precisamente, seppure con qualche differenza. Vedi, le leech sono note per sedurre le proprie vittime prima di divorarle, sebbene secondo alcune fonti prediligano la carne giovane, come quella dei bambini. Pare che drenino il sangue e poi...»
    «Lo so» annuii. «Questo me lo ricordo bene anch’io.»
    «Ah, ma sai, ci sono così tanti aneddoti sulle leech. Pare che siano diventate una vera e propria leggenda metropolitana negli ultimi anni... C’è chi dice persino di averne vista qualcuna vicino al nostro fiume.»
    «Il nostro fiume, che sciocchezza!» risi troppo ostentatamente e con un filo di voce.
    Il docente mi scoccò un’occhiata interrogativa.
    «Voglio dire, c’è sempre così tanta gente attorno alle coste del nostro fiume, che se di leech ce ne fosse anche una soltanto ormai non sarebbe più una leggenda.»
    «Sì, in questo senso credo tu abbia ragione» disse lui.
    «Comunque, crede che tra le storie riguardanti le leech, esistano anche versioni meno oscure? Insomma, non è detto che siano per forza degli esseri mostruosi, non crede?»
    «Ah, voi studenti... Volete sempre il lieto fine, vero? No, che io sappia le leech non hanno mai smentito la propria natura, ma aspetta qualche anno e qualcuno scriverà il racconto che fa per te.»
    «Che male ci sarebbe?» domandai quasi d’istinto.
    «Ti piacciono le leech, vero?»
    Mi volsi a guardarlo ed egli poté leggermi la risposta negli occhi.
    «Allora non rovinare questa tua passione con il possesso» riprese. «Esistono creature maestose quanto terribili nella nostra fantasia, Valerio; ma cercare di cambiarne l’indole per farle nostre non le renderebbe migliori, servirebbe soltanto a ucciderle.»
    Chinai la fronte sotto il peso di tali parole – come un rimprovero che la mia lenta coscienza non aveva il coraggio di esprimere. Fui colto senza preavviso da una sensazione d’incertezza, e al contempo insolita e piacevole: ripensai a Sandy, alla natura della sua razza, e questo mi rese più felice che nel saperla vincolata a un’umanità che non l’era mai appartenuta.
    Mi dissi che per il trascorrere di un singolo istante, forse, ero stato la persona altruista che Markus vedeva in me. Un pensiero che non volli rinnegare, ma che finì per scivolare tra le dita e perdersi al pari di un vago ricordo.

    Allora il mio povero amico si trovava alle prese con matematica e filosofia, e a meno di un mese dagli esami l’esito di tale battaglia sembrava ancora incerto: motivo per il quale durante quel periodo, le sue visite al ruscello di Sandy, dovettero ridursi notevolmente di frequenza. Mi ero anche riproposto di aiutarlo, almeno con matematica, ma lui, testardo com’era, aveva detto di potersela cavare, e che era più importante che io badassi alla nostra comune amica, mentre lui si occupava del duetto Nietzsche/Lagrange.
    Sandy sembrava entusiasta della bella stagione che si andava profilando, e come l’espandere di quella macchia di caldi profumi e colori destava a una tersa prospettiva celeste, lei mutava le proprie abitudini.
    Molto spesso mi era parsa piacevolmente irrequieta, ansiosa di condurmi oltre le trame del nostro rifugio per esplorare nuove zone della riserva e io, prudentemente, cercavo di assecondarla. Non ero rapido né silenzioso quanto lei negli spostamenti, e immaginando d’essere poco più che un fardello, tentavo per quanto possibile di non rovinarle la festa.
    Ben presto notai come persino l’aspetto di Sandy presentasse delle piccole diversità: sebbene infatti la pelle rimanesse di quei toni leggeri che l’erano sempre appartenuti, le zone coperte di squame si facevano di un verde più acceso, al pari degli occhi, mentre l’elastiche membrane che le rivestivano gli arti andavano tingendo di una cromia sanguigna.
    In seguito all’episodio del temporale mi ero aggiudicato la sua fiducia, o quantomeno lo stesso apprezzamento che dimostrava nei confronti di Markus, cosicché non se ne stava sulle difensive, agiva secondo la propria indole e mi faceva sentire come un criptozoologo a basso impatto ambientale.
    Uno di quei giorni, mentre se ne stava sdraiata su di uno spesso ramo ricurvo e spiovente sul corso del fiume, vidi una gemma luccicare di smeraldo sotto l’umido livore della spiaggia.
    Mi rialzai e mossi con cautela qualche passo in direzione dell’oggetto nel timore che potesse affondare ulteriormente sotto il suolo sabbioso. Quando l’ebbi tra le dita capii che si trattava di uno di quei frammenti di vetro di qualche bottiglia, che qualcuno aveva gettato nel fiume e ch’esso aveva plasmato e limato a immagine delle pietre e delle gemme.
    Non era nulla di speciale in sé, ma la sagoma allo sguardo sembrava perfetta: quella di una piccola goccia azzurrata dal cuore cangiante e più scuro; all’apice si notava quel lungo foro del calibro di un ago, probabilmente intagliato dal calore, che passava da parte a parte il piccolo oggetto.
    Era tanto bello e resistente al tatto, quasi da ricordare un cristallo prezioso, che nel girarlo tra le dita parve suggerirmi un’idea.
    Andai a frugare nella cartella di scuola che portavo sempre con me e che avevo dimenticato di svuotare di alcuni libri. Vi era un quaderno dalla copertina rigida serrato sul davanti per mezzo di una corda di seta scura piuttosto benfatta, persino graziosa. Slegai i nodi cui si vincolava e mi avvidi ch’era addirittura della lunghezza giusta.
    Con un po’ di attenzione riuscii a far passare il nastro attraverso il foro del cristallo, e dacché ottenni un pendaglio rudimentale ma ben proporzionato, non potei negare a me stesso una certa approvazione.
    Dovetti impiegare uno sforzo ulteriore per convincere Sandy a indossare quel mio regalo, poiché il gesto con cui avevo tentato di cingerle il collo slanciato non doveva averle fatto una buona impressione, e ora scappava avanti e indietro per la spiaggia, tra gli arbusti, sporgendo di tanto in tanto qualche occhiata di terrore alla suddetta collana.
    Alla fine, vinto dalla fatica e da un certo divertimento, sedetti su di una roccia con il nastro sottile tra le dita e attesi che si fosse calmata. Quando riemerse dal proprio rifugio e strisciò verso di me con reticenza decisi di giocare d’astuzia.
    Le volsi le spalle e presi a esaminare la piccola gemma smeraldina alla luce del sole, inumidendola nell’acqua del fiume e tentando per quanto possibile di farla brillare allo sguardo della giovane. Sentii che l’atteggiamento diffidente di lei cedeva il passo alla curiosità, e celando un sorriso di vittoria scelsi di accentuare l’inganno.
    «E’ un peccato che tu non voglia questo mio regalo, cara Sandy» la chiamai. «In effetti non è da tutti apprezzare l’eleganza, anche se conoscendoti pensavo avresti reagito diversamente.»
    Spiai il lento avanzare di lei con la coda dell’occhio.
    «Oh, adesso sei gentile a fingere interessamento» sospirai. «Ma non preoccuparti, me ne farò una ragione... E poi tu non sembri adatta a tutto questo, è stato mio l’errore.» Mi leccai le labbra e attesi un istante, pronto al gran finale. Fissai uno sguardo languido sulla collana e annuii tra me. «Dopotutto, ci sono così tante ragazze che si ucciderebbero per avere una di queste.»
    Mi scostai appena in tempo per impedire a Sandy d’impossessarsi con un balzo dell’oggetto in questione e guardarla fremere d’invidia.
    «Ah, non fai più la preziosa, vero?»
    Di tutta risposta e prima che potessi rendermene conto, Sandy allungò le cinque dita di una pinna contro la mia guancia sinistra a impartirmi quello che risultò lo schiaffo più doloroso della mia intera esistenza. Ritengo di non essere affatto un fuscello, ma dovetti lottare contro il capogiro per non cadere a terra.
    Quando mi ripresi lei era lì di fronte, ancora imbronciata ma sicuramente meno insoddisfatta. Nonostante tutto sentii di essermela cercata.
    «D’accordo, ammetto di aver un po’ esagerato, con l’ultima cosa che ho detto» tentai di darmi un contegno mentre mi inginocchiavo al suo fianco. «Direi che hai dimostrato di meritare questa benedetta collana, quindi, se ti giri e mi lasci prendere le misure, ti accorgerai che non morde.»
    Faceva sempre un certo effetto avvertire il contatto con la pelle di Sandy – calda come quella di chiunque altro, ma coperta da una patina vischiosa e sottile, cui durante le mie riflessioni più ispirate avevo fatto corrispondere una sorta di lubrificante idrodinamico naturale, che le consentiva di nuotare più rapidamente nel fiume –; così, dal momento che le sfiorai la linea della schiena con le dita, dimenticai me stesso e ciò che stavo facendo.
    Mi vidi annodare il nastro di corda delicatamente dietro il suo collo, sull’incontro di quelle scapole perfette e simili ad ali, mentre un improvviso e pernicioso senso di abbandono si impadroniva dei miei pensieri, a insegnare una lezione che non volevo conoscere.
    Sandy stette immobile a spiarmi di profilo e godere d’ogni brivido di quelle involontarie carezze, fintantoché, quasi per caso, mi resi conto d'aver finito.
    Riuscii a separarmi da lei, a riprendere fiato e a sederle di fronte.
    Attenuai un mezzo sorriso. Con quel cristallo pendente sotto le clavicole dello stesso colore degli occhi sottili di predatrice aveva l’aspetto di una bella regina senza veli.
    «Quando Markus ti vedrà così, si innamorerà di te...» dissi.
    Sandy assunse un’aria da civetta, muovendo per gioco le belle gambe sul filo dell’acqua e pettinando da un lato i lunghi capelli.
    «E va bene, Markus è già innamorato di te. Se torna vivo dagli esami ti sposerà e andrete ad abitare ad Atlantide.»
    La giovane si lasciò sfuggire una strana risata serpentina.
    «Adesso però sarà il caso di smetterla. Non dovremmo prenderlo in giro, e non è carino da parte tua giocare con i suoi sentimenti» la rimproverai. «Non si addice a una ragazza per bene come te.»
    Sandy parve non comprendere queste ultime affermazioni, e si limitò a ignorare la cosa, volgendo lo sguardo al suo lontano orizzonte trafitto dagli irti steli palustri. Laggiù un’affilata linea di sera si affacciava a concedere una prima avvisaglia del crepuscolo: tingeva le sagome di un riverbero più scuro e pareva quasi d’intuirne il silenzio.
    «Sandy...» domandai alla fine, «dov’è la tua famiglia?»
    Lei mi rivolse uno sguardo sorpreso e io mi accorsi di quanto in realtà temessi la sua risposta.
    «Intendo dire... Sai se ce ne sono altri, come te, qui nei dintorni?»
    Sandy si fece dubbiosa per un attimo, tentando forse di comprendere per quale ragione mi interessassi a tale argomento. Poi negò, e io mi trovai di nuovo a brancolare nel buio.
    Come comportarsi riguardo i miei iniziali propositi? E se come pensavo la giovane anfibia si fosse smarrita quand’era troppo piccola per ricordare, in che modo l’avrei condotta ai suoi simili?
    In quel mentre udii un esile fruscio scompigliare i cespugli vicino alla spiaggia.
    Sandy si mise in allerta.
    Sporsi lo sguardo appena più in alto e mi avvidi che si trattava dello zampettare frenetico di uno scuro uccello palustre, di quelli per i quali un tempo la giovane non celava l’appetito. La vidi chinare lo sguardo e fingere indifferenza, rinunciando al proprio pasto come sempre ormai, quand’era con Markus o con me.
    Scossi la testa e la chiamai.
    «Tanto la mangeresti comunque, vero?» indicai l’anatra. «Fa parte di te. Non è giusto nasconderlo.»
    Sandy non se lo fece ripetere due volte. La vidi balzare a terra e sfrecciare avanti in direzione del volatile; questo spalancò le ali per una disperata manovra di fuga, e quando capii che non ce l’avrebbe fatta distolsi lo sguardo.
    Udii di nuovo quel rumore straziante dopo tanto tempo, strinsi i denti e mi chiesi quanto ancora sarebbe durato. Anche senza vederla sentivo che Sandy era felice, e per quanto orribile, sapevo di aver fatto la cosa giusta. Sarei rimasto lì, ad attendere che avesse finito e a sorriderle, senza badare al sangue che le rigava le labbra.

    «Oggi dove sei stato?» chiese bonariamente mio padre, quella sera a cena.
    «Sono passato a vedere se Markus aveva bisogno di una mano con matematica, ma ha detto che preferiva studiare da solo» dissi tra un boccone e l’altro. «Così sono andato a fare un giro vicino al fiume.»
    «Ancora il fiume? Che cos’ha quel posto di tanto speciale?»
    «Lascialo in pace, John» intervenne mia madre. «Per una volta che Valerio decide di fare un po’ di movimento...»
    «Dico solo che ormai sarà diventato un esperto a forza di camminare su e giù per quel parco. E con lo studio, ti stai preparando adeguatamente per gli esami?»
    Aprii bocca per ribattere ma fui nuovamente interrotto da mia madre.
    «Valerio studia tre o quattro ore ogni mattina, vero caro?»
    Era vero: malgrado occupassi gran parte delle giornate in compagnia di Sandy potevo fare affidamento su di una buona organizzazione, grazie alla quale assolvevo ai miei doveri di studente senza troppe difficoltà.
    D’altro canto non era abitudine di mia madre prendere le mie difese in modo tanto evidente, né di chiamarmi “caro”, a meno che – iniziai a temere – non stesse cercando di strapparmi un grosso favore. La conferma giunse quasi subitanea.
    «Valerio, caro, ti ricordi della mia amica, la signora Roberts?»
    “Ecco fatto”. Annuii.
    «Sì, mi ricordo di lei, ma...»
    «Bene» intervenne mia madre incrociando le mani: secondo e ancor più nero presagio. Lanciai uno sguardo a mio padre ma lo trovai con la fronte calata sul proprio piatto e un sorrisetto traditore dipinto sulle labbra. «Proprio stamane, la signora Roberts e io parlavamo del fiume, e della zona della riserva. Deve essere molto bello in questa stagione, non è vero?»
    Di colpo sentii il sangue gelarmisi nelle vene. Inconsciamente smisi di masticare.
    «“Valerio ci va spessissimo” le dico, “quasi tutti i giorni”; e lei mi risponde che vede spesso il fiume, passando sull’altra sponda per andare a lavoro...»
    Adesso mi contenevo a fatica. «Cosa centra tutto questo con me?»
    «Beh, come diceva tuo padre, ormai sarai diventato un esperto, di quei sentieri e di quelle piccole spiagge coperte di rami... Le conosci tutte, non è vero?»
    «Se mi stai chiedendo di accompagnare te e la signora Roberts per una visita guidata, la risposta è no.»
    «Non esattamente» ribatté mia madre, per nulla impressionata. «Vedi, la signora Roberts ha un bambino di appena otto anni. Lo conosci, no, il piccolo Lloyd?»
    «Dimmi che non...»
    «Sua madre ha tanto insistito perché lo portassi con te nel parco. Lloyd è buono, non disturba, e vorrebbe tanto vedere la riserva naturale.»
    «Fammi capire bene» sospirai, «vorresti affibbiarmi il figlio di una tua amica che ho visto e salutato un paio di volte in vita perché lei “ha tanto insistito”?»
    «Mi faresti un favore» ripeté mia madre freddamente: si trattava di un’ultima facciata di cortesia per tale imposizione.
    «Lo sai: le passeggiate nel parco servono proprio per rilassarmi dopo lo studio...» tentai di nuovo. «Non posso sperare in un buon rendimento scolastico se il mio unico momento di svago diventa motivo di tensione.»
    «Motivo di tensione?»
    «Devo fare la balia a un bambino... E poi lo sai che preferisco stare da solo.»
    «Però Markus viene con te.»
    «Con lui è diverso: Markus è mio amico.»
    «Cosa c’è di diverso?»
    «Lui può venire con me, perché io gradisco la sua presenza.»
    «Se posso dire una cosa...» si schiarì la voce mio padre, «Valerio ha ragione. Non sarebbe giusto affidargli la responsabilità di un poppante, soprattutto in questo periodo.»
    «Ma non ci vedo nulla di tanto grave» sospirò mia madre. «Potresti portare il piccolo Lloyd con te solo una volta. Cosa ti costerebbe?»
    Inspirai profondamente.
    «Solo una volta» ripetei. «Lo porterò a fare un giro nel parco, per quanto possa camminare un bambino di otto anni.» Mi alzai da tavola, intento a discendere le scale e a rinchiudermi nella mia stanza. «E se la signora Roberts avesse bisogno di un altro favore, che si trovi una babysitter.»

    Sedetti di fronte alla mia piccola scrivania coperta di libri e per qualche minuto rimasi in silenzio, con due dita calate sulle palpebre. Ero riuscito a scampare il pericolo di rendere ancor più faticosi o persino compromettere i segreti incontri con Sandy, ma rimaneva il problema del “piccolo Lloyd”.
    Conoscendo mia madre si trattava ancora di pochi giorni, poi la signora Roberts mi avrebbe affidato suo figlio assieme a un sorriso e i soliti elogi alla mia forzata santità. Allora mi sarei recato al fiume assieme al piccolo: nulla di troppo grave, pensai, perché ero certo che si sarebbe stancato in fretta...
    E tuttavia, se Sandy ci avesse visti, o peggio, se Lloyd avesse visto lei? Dovevo ricordarmi di avvisare la ragazza a tal proposito.

    Quel finesettimana la mia famiglia e io lo trascorremmo fuori città, come ospiti della nonna paterna nella sua casa sul lago (attività che ricorreva circa due volte all’anno e che per una volta cadeva d’estate). Così, mentre attendevo senza trepidazione di farmi strappare quell’obbligato favore dalla signora Roberts, spendevo due giorni malvolentieri lontano dal dovere intenzionale che mi ero preso con Sandy.
    Naturalmente lei ne era al corrente: le avevo detto che sarei stato via sino a lunedì, e nel sincerarmi che avesse beninteso tali parole, mi era parso di trovarla piuttosto melanconica. Me n’ero andato dicendole che avrei pensato a lei per tutto il tempo.
    Malgrado la stagione, le serate al lago si dimostrarono più fredde del previsto, e anche gli iniziali propositi di farsi una nuotata tra quelle splendide e limpide rive rocciose, risultarono un impresa adatta soltanto a qualche tedesco dal corpo di ghiaccio.
    Rimasi pertanto gran parte del tempo seduto alla finestra, a leggere un libro e a godermi il panorama. Qualche mese addietro avrei volentieri invitato Markus per avere compagnia, e né la nonna né mio padre e mia madre sarebbero stati contrari; ma lui non avrebbe mai lasciato Sandy completamente da sola, e forse nemmeno io.
    Tornammo al paese domenica sera senza ch’io avessi messo piede fuori dalla casa della nonna nemmeno una volta, tranne che per recarmi sulla più affollata riva del lago assieme ai miei, con l’infelice intento di prendere una boccata d’aria.
    Sin dall’infanzia conoscevo quella zona del lago, che sapevo essere ricca di bei panorami: lingue di sentieri avvolti nell’azzurra foschia e intagliati tra i sibili degli scogli, ancor più suggestivi e intimi al calare della sera, ma per qualche motivo, ciò che un tempo era cagione di fascino e interesse, ora m’infondeva strani sentimenti di repulsione e disagio. Forse temevo d’imbattermi così per caso in una nuova “Sandy”: qualcosa di cui nemmeno sospettavo l’esistenza, eppure in grado di mostrare la fragilità di quell’illusione ch’era il mio equilibrio di certezze.
    Comunque, se si escludeva tutto questo, e il fatto che le ricette della nonna sfidassero quasi di proposito il preconcetto di cucina d’altri tempi, il mio soggiorno al lago trascorse tanto sereno e privo d’imprevisti da lasciarmi credere che nulla potesse andare storto.
    Il pomeriggio seguente, appena dopo pranzo e sinceratomi d’essere al pari con gli studi, raggiunsi casa di Markus con l’intento di procedere assieme verso il fiume.
    «Scende tra un attimo.»
    Così sua madre aveva detto anche stavolta, e io, ormai consapevole della proverbiale pigrizia dell’amico riguardo questo genere di cose, e del fatto che quell’“attimo” si sarebbe dilungato più di una messa di pasqua, cercai lì attorno un buon punto del marciapiede sul quale sedermi ad aspettare.
    Non avevo ancora scelto la superficie più glabra che il cancello esterno emise un singulto metallico e il volto di Markus si affacciò sul viale, privo del suo solito bonario sorriso.
    Lo salutai e lui ricambiò con un cenno svogliato del capo senza nemmeno sollevare lo sguardo.
    «Va tutto bene?» domandai, lievemente irritato.
    «Nulla di che preoccuparsi.» Sicuramente si avvide di quanto laconica fosse suonata tale risposta, e prima che potessi aprir bocca per ribattere si incamminò a passo svelto in direzione della riserva. «Andiamo?»
    Lo seguii per la lunghezza di un chilometro di silenzio trascorso a contare i passi, senza ancora aver tentato un nuovo approccio. Confuso e incerto, mi sentivo assolutamente incapace d’inventare gli argomenti: non avevo mai visto Markus tanto recalcitrante, e per ragioni a me del tutto sconosciute.
    «Si può sapere che ti prende?» tentai di nuovo e con accidentale freddezza.
    «Nulla che ti riguardi» sbuffò Markus.
    «Se non mi riguardasse me lo diresti.»
    «Non possiamo lasciar perdere?»
    «No.»
    Mi arrestai di fronte a lui cercando inutilmente il suo sguardo.
    «Durerà più a lungo se non mi dici qual è il problema.»
    Lui scosse il capo.
    «Si tratta di qualcosa che ho fatto?»
    «No, non è questo...»
    L’idea mi balenò come un fulmine a ciel sereno.
    «Si tratta di Sandy?»
    L’amico non rispose.
    «Markus, cosa l’è successo?»
    «Nulla. Non è successo nulla nemmeno a lei» ribatté Markus seccato. «Però sai, se la mia presenza è tanto sgradita potevate dirmelo. Non occorre che tu venga a chiamarmi ogni giorno per venire al fiume solo per farmi un piacere, quando è chiaro che sono solo di peso.»
    Tali parole mi lasciarono del tutto disorientato, nondimeno mancai di celare un tenue moto d’ironia che Markus parve apprezzare molto poco.
    «Senti, non ho la minima idea di cosa tu stia parlando» confessai. «Perché non ti calmi per un momento e mi spieghi cosa sta succedendo? Cosa ti fa pensare di essere di peso?»
    «Sandy.»
    «Sandy ti ha trattato male?» Mi pentii quasi subito di quel mio tono irrisorio, ma la situazione appariva sin troppo insolita, e conoscendo l’amico questo sarebbe valso a placarlo più ancora che dandogli corda. «Cos’ha fatto, ti ha spruzzato con l’acqua del fiume?»
    «Non esattamente.» Mi rivolse un’occhiata ferita e piena d’invidia. «Cercava te.»
    «Cosa? Me?»
    «Durante i tuoi ultimi due giorni di assenza non ha fatto che guardarsi attorno aspettando di vederti arrivare.» Si strinse nelle spalle nervosamente. «Lei non faceva caso a me... Era come se non esistessi. E quando le dicevo che saresti stato via ancora per un po’ e tentavo di consolarla, lei si scostava e rimaneva a specchiarsi nel fiume. Ero tentato di andarmene... Sapessi quanto sono stato tentato di andarmene, e liberarla della mia inutile presenza! Ma poi ho pensato che sarebbe stata sola e...»
    «Sei rimasto» sospirai.
    «Non pretendevo un ringraziamento. Speravo solo si sarebbe comportata diversamente, tutto qui. Alla fine è diventata nervosa, insofferente. Sembrava un’anima in pena, così di nuovo ho tentato di avvicinarmi a lei e...»
    «E...?»
    Markus sollevò la mano destra, e allora sul palmo, appena sotto le dita, notai quell’ampio livido, scuro, e simile per forma a una mezzaluna d’aghi finissimi.
    «Questo è il risultato.»
    «Ti ha morso...»
    «A quanto pare.»
    Allora fui pervaso da un senso di mestizia e di rispetto nei confronti dell’amico, e gratitudine, per non aver lasciato Sandy a se stessa in simili circostanze, nonostante tutto. D’altro canto, volendo spingere le riflessioni oltre un primo istinto, non ero certo nemmeno di voler condannare la giovane per quel suo comportamento che, per quanto indisponente, rappresentava l’alternativa a una finzione che non era mai stata sua.
    «Mi spiace che sia andata in questo modo» dissi. «Lo sai, Sandy è fatta così: lei non ragiona come noi. E’ molto più “libera”, più genuina...»
    «Quindi lei è l’unica a mostrarmi sinceramente quanto io sia di peso?»
    «Dico che forse lei è l’unica a esprimere sinceramente ciò che pensa» sospirai. «Il che non è sempre un bene, né sempre un male. Forse questo finesettimana voleva starsene un po’ da sola, tutto qui. Magari un’altra persona non te lo avrebbe fatto capire in modo tanto esplicito, però lo avrebbe pensato.»
    «Quindi i veri amici non esistono?»
    «Quindi, non è detto che la “vera amicizia” si basi unicamente sulla sincerità. Non per tutti.»
    «E tu, cosa credi che sia la vera amicizia?»
    «Io...» rimasi a riflettere, «la vedo un po’ come una storia ben scritta.»

    Giungemmo al fiume mezz’ora più tardi, accolti da quella calda brezza estiva che aveva schiuso le margherite e i sorrisi di una torma di massaie, assise ai tavolini dei chioschi o appollaiate dietro i balconi.
    Con un po’ di esperienza e di buona volontà ero riuscito a lenire il malanimo di Markus, ricordando che Sandy aveva ancora bisogno di lui, per quanto magari negli ultimi tempi lo desse meno a vedere, e di come, in qualità di “fratello maggiore”, lui fosse tenuto a chiudere un occhio su certe sue frivolezze.
    «Sandy ti vuole bene» dicevo, «ma tu le dimostri troppe attenzioni, e malgrado tutto, lei non ha certo l’animo dell’ingenua. E poi sono convinto che non sarà bendisposta, se non provi neppure a sorriderle.»
    In seguito, quando ci fummo riuniti, tentai di riaccendere le attenzioni della giovane nei confronti di Markus, e al contempo restituire all’amico un po’ della sua autostima e serenità, fingendo di lasciar cadere quasi per caso l’opinione che vi fossero un paio di ragazze, nella mia classe, che non gli staccavano mai gli occhi di dosso.
    Dapprima temetti che questo diversivo potesse risultare inopportuno e di cattivo gusto, però Markus si illuminò in volto e, facendo attenzione a non perdere la propria flemma, mi esortò ad approfondire l’argomento. Non passò molto prima che Sandy si sentisse esclusa da tale contesto, e nel giro di qualche minuto si trovava già intenta a richiamare l’attenzione del nostro Romeo d’acqua dolce; alche lui, forse troppo bonariamente, le diede un buffetto sulla guancia a mo’ di contentino e soggiunse:
    «... Però nessuno è come la cara Sandy.»
    Conclusa tale parentesi con un certo sollievo, imposi a me stesso di recuperare una qualche facciata di distacco nei confronti della giovane, pur garantendole ogni attenzione di cui avesse bisogno. In questo modo speravo di tornare indietro, o quanto meno di lasciare le cose come stavano, mantenendo l’illusione di un equilibrio che non vi era mai stato e ormai pronto al crollo.

    La notizia mi raggiunse appena due giorni più tardi, all’ora di pranzo, come un fulmine a ciel sereno.
    «Ne vuoi ancora un po’, Valerio?» domandò mia madre, reggendo a fatica quell’enorme padella di verdure grigliate.
    «No, grazie. Basta così.»
    «Ne sei sicuro, ne hai prese così poche...»
    Osservai il mio piatto già colmo dell’alta cucina nostrana come di fronte alle truppe del nemico e mi venne da sorridere. Negai di nuovo e mia madre si ritrasse.
    «A proposito, che mi dici del futuro impegno che mi avevi propinato?» soggiunsi. «E’ da un po’ che non ne sento parlare.»
    Mia madre parve cadere dalle nuvole.
    «Di che impegno stai parlando?»
    «Quello con il piccolo Lloyd, non ricordi? La signora Roberts voleva che lo portassi con me al parco...»
    «Ma sì, certo, ora ricordo...»
    «Allora?»
    «Bah...» Mia madre scosse il capo arricciando il naso in tono vago. «Temo non se ne faccia più niente.»
    Normalmente una simile notizia non avrebbe potuto che recarmi sollievo, d’altro canto pareva una svolta tanto repentina e inattesa da lasciarmi perplesso.
    «E’ stata la signora Roberts a cambiare idea?»
    «Temo di sì, e certamente non la biasimo...»
    «Che intendi dire? E’ colpa mia?»
    «Certo che no... Ma non leggi il giornale?»
    «Perché, ogni volta che mi sfugge un particolare, devi ripetere questa frase?»
    Per una volta mia madre si limitò ad alzare gli occhi al cielo e proseguì:
    «C’è stato un caso di aggressione, o qualcosa del genere, sulle rive del fiume.»
    «Cosa?»
    «Due bambini si trovavano lì con le loro famiglie, una sera di queste. Sono andati da soli lungo il sentiero, i genitori gli hanno persi di vista per alcuni minuti e poi...»
    «E poi?» feci l’eco, senza sentirmi più le gambe.
    «Ne è tornato indietro solo uno» sospirò mestamente mia madre. «Solo un bambino. L’altro non si sa che fine abbia fatto; ma sembra che i due fossero scesi sotto il sentiero, nella zona selvatica. Poveri piccoli, dovevano essersi smarriti.»
    «Qualche traccia del bambino scomparso? Quand’è successo esattamente?»
    «Due giorni fa» rispose mia madre adombrata. «C’è stata una ricognizione notturna e poi un’altra, il mattino seguente: del bambino non vi è traccia ma, Valerio... Sei diventato così pallido. Va tutto bene?»
    Tentò di sfiorarmi la guancia con una mano ma mi ripresi e la tranquillizzai.
    «Non è niente» risposi: un sorriso spaventato sulle labbra. «Però vado così spesso a camminare lungo il fiume, che mi sconvolge scoprire possa rendersi tanto pericoloso.»
    «Dovresti fare attenzione anche tu, verso una certa ora. Non si sa mai...»
    Mi alzai da tavola quasi sovrappensiero e presi a scendere le scale.
    «E adesso dove vai?» udii la voce di mia madre. La mia, più debole, si perse nella distanza.
    «Vado a cercare quel bambino.»

    Suonai al campanello di Markus, ma sua madre affermò di averlo visto uscire mezz’ora prima in direzione del fiume, e immaginai che fosse già là ad attendermi.
    Camminai senza sapere cosa pensare tra quelle case dai bassi tetti crepati dal sole e dall’umidità, mentre un’improvvisa e cocente fitta di silenzio s’impossessava del mio rapido incedere. Qualche schiamazzo sulla prima riva del fiume, di bambini e madri cui temetti di rivolgere lo sguardo; poi raggiunsi l’imboccatura della piccola radura di Sandy e, per la prima volta dacché la carezza del sole sfumò dalle mie spalle e io discesi nella tenebra silvana, fui colto dal fremito di un’aria gelida.
    Ascoltai poco più avanti quei rumori appena accennati che solo io sapevo riconoscere, e la voce di Markus sorridere nell’eco rifratta degli alberi. Lo trovai seduto sul solito tronco spezzato con l’intento di raccontare a Sandy qualche aneddoto dei suoi, ma dal momento che mi vide in volto, le parole gli morirono sulle labbra. Anche la giovane, che normalmente accoglieva il sottoscritto con un caldo bentornato, rimase a fissarmi incerta e vincolata dal timore.
    «Mio Dio, Valerio, che succede?» domandò l’amico. «Non hai una bella cera...»
    «Stai lontano da lei» pronunciai freddamente. «Stalle lontano.»
    Markus, che doveva aver frainteso le mie parole, si fece in volto persino più livido di me, e alzatosi in piedi alla svelta mi venne di fronte.
    «Lei non è come sembra.»
    «Valerio, cosa diavolo ti prende?»
    «Quel bambino... E’ stata lei, non è vero?»
    «Quale bambino?»
    «Il bambino che è scomparso tra questi rami, Markus, quel bambino!» trasalii. «Due giorni fa, proprio qui. Chi altri può essere stato?!»
    Intanto, Sandy, che mai mi aveva visto in quello stato, si era fatta piccola dietro le gambe di Markus e mi spiava con occhi di terrore.
    «Tu, pensi davvero che quel bambino centri con Sandy?»
    «Quindi tu sapevi...»
    «Certo che lo sapevo, io lo leggo il giornale!» sospirò l’amico. «E’ una cosa orribile, e me ne rendo conto; però Valerio, come puoi credere si tratti di Sandy?»
    «Lei è una leech, e le leech si nutrono di... di...»
    «Nei racconti, Valerio. Le leech sono creature inventate presenti in qualche leggenda popolare e sì, nelle leggende si cibano dei bambini sperduti, come Santa Lucia getta il sale negli occhi di quelli che non dormono, la notte del 13 dicembre.»
    Markus si chinò su quella creatura dall’aspetto fragile e indifeso che adesso singhiozzava alla sua maniera, sommessa e lievemente stridula.
    «Qui stiamo parlando della nostra Sandy, non di una leech.»
    «La nostra Sandy?» sorrisi nervoso. «Da quando i pesci hanno bisogno di noi per sopravvivere? Cosa c’è di nostro in lei?»
    Sandy strinse a fatica in una palma il ciondolo che le avevo regalato e lo mostrò ai miei occhi in silenzio. Per poco quel gesto mi lasciò interdetto; sostenni il suo sguardo ferito con il mio, poi mi abbandonai a un amaro sospiro e le voltai le spalle.
    «Sei stata tu a far del male a quel bambino?» sentii Markus rivolgersi alla giovane fingendosi severo e poi chiamarmi di nuovo. «No. Non è stata lei, Valerio.»
    «Come fai a esserne sicuro?»
    «Perché voglio fidarmi di Sandy, maledizione.»
    Tornai a guardare entrambi e mi stupii di trovare la giovane leech ancora fissa su di me, come un’infante spaventata e abbandonata a se stessa.
    «Ascolta» riprese Markus. «Se Sandy fosse come le creature di cui parli, perché a noi non avrebbe fatto del male? Ed è vero, lei si nutre di carne, ma è già tanto se riesce a spolpare un’anatra o un paio di pesci. Ora, immagina che un bambino si trovi da solo, di sera, da queste parti. Non è esattamente un luogo accogliente dove giocare, e non c’è alcun bisogno delle leech perché accada qualcosa di brutto. Poco più avanti c’è una zona malfamata: lo sai cosa si dice in paese; e poi c’è il fiume e...» Si passò una mano sulla fronte e sulle palpebre. «Ti prego, non farmi fare la parte della persona razionale: non riesco a pensare lucidamente a certe cose.»
    Inspirai profondamente.
    «Quindi pensi che non sia stata lei. D’accordo...» Mi incamminai verso la spiaggia. «Andiamo a scoprire se è vero.»
    «Che stai facendo? Dove vai?»
    Camminai lungo il sentiero immaginario per il quale Sandy mi aveva condotto al suo nido, giunsi dinnanzi a quella breccia prodigiosa tra i rami e mi ci addentrai senza far caso alle continue suppliche dell’amico. Pocanzi, lo stretto e umido giaciglio di Sandy affiorava dall’oscurità.
    La giovane mi si portò di fronte con un balzo, d’un tratto tanto fredda e risoluta da sembrare ostile.
    «Spostati, Sandy» dissi a denti stretti. «Per favore.»
    Niente da fare: solo un sibilo in risposta.
    «Levati!»
    Stavolta la giovane ricadde sulla schiena e strisciò sino a ridosso di una corteccia.
    Incedetti verso il nido, e allora mi arrestai sconcertato. Le lunghe foglie fresche di cui si ricopriva lasciavano intuire rimanenze di un pasto precedente: un altro volatile in decomposizione come tanti ne avevo visti lì attorno, e sebbene l’odore fresco del sangue pervadesse l’aria, si sarebbe detto, senz’ombra di dubbio, un famigliare sentore di selvaggina.
    Con forte disgusto setacciai l’intero giaciglio, sino a toccare con le dita la base rocciosa; ma di resti umani non vi era traccia alcuna, e infine mi arrestai nel silenzio generale, senza più il coraggio di voltarmi indietro. Poi fu Markus a venirmi incontro.
    «Puoi almeno rimettere a posto le cose?»
    Rimasi intontito per un attimo, mentre ancora stringevo tra le mani alcune foglie. Scossi la fronte.
    «Sì, subito.»
    Ravviai la culla di Sandy tentando di conferirle un’aria accogliente, malgrado le foglie strappate, e indietreggiai sconfitto. Mi voltai verso la giovane, ancora china e affranta tra le nude radici dell’albero, ma come temevo, non appena tesi una mano verso di lei per implorarle una scusa, Sandy si ritrasse spaventata.
    Avevo profanato il suo rifugio e distrutto quel poco ch’ero riuscito a fare per lei nel giro di qualche minuto, e tutto per un falso allarme.
    «Sandy...» la chiamò Markus «Valerio si è comportato da idiota, ma sono cose che capitano a volte... Che ne dite di fare la pace, adesso?»
    Ma né Sandy né io prestavamo ascolto alle sue parole, e ora gli occhi di lei apparivano spenti come non li avevo mai visti. Mi inginocchiai senza più osar avanzare di un passo e tentai di comporre una futile scusa. Sandy non si mosse. Infine mi rialzai e tornai verso la spiaggia. Salutai Markus, e mi rimisi in cammino verso casa.

    Consumai il resto del pomeriggio chiuso nella mia stanza a riflettere. Troppi dubbi e immagini ancora chiamavano da ogni dove soffocando qualsiasi risposta nel proprio ritorto labirinto. Pensai a Markus, al bambino scomparso e a quelli ch’erano stati i miei presentimenti. Pensai a quel colloquio con il mio professore di lettere; e a Sandy: soprattutto a lei, e più di quanto avessi mai fatto.
    Rimasi in casa anche il giorno seguente, benché sapessi che Markus si trovava a scuola fino a sera per un lungo ripasso collettivo, assieme ad alcuni suoi compagni.
    Tentai di nascondere le mie preoccupazioni dietro un falso sorriso mentre assaporavo la cena ed eludevo ogni attenzione di mio padre e di mia madre con un banale “sono solo stanco”: scusa che adottavo sin dai tempi dei primi bisticci al campo-giochi.
    Scorsi poi uno dei titoli di quel giornale, ripiegato e riposto in fondo al tavolo (in quanto era abitudine di mio padre sfogliare la rubrica dei trafiletti umoristici prima dei pasti). Trattava del recente ritrovamento del corpo esanime di un bambino, senza traccia di colluttazione alcuna, che la forte corrente aveva portato con sé sino alla foce. La causa del decesso, senza lasciare alcun dubbio, appariva quindi l’annegamento, e si supponeva che l’infante fosse caduto in acqua mentre passeggiava lontano dalla supervisione dei genitori.
    A quel punto crollai sopraffatto da un singhiozzo senza lacrime e dai sensi di colpa nei confronti di Sandy. Cos’avevo fatto?
    «Suvvia...» sussurrò mia madre sfiorandomi le spalle con un abbraccio. «E’ per la notizia del bambino del fiume, vero? Non credevo avresti preso così male questa storia, non è da te.»
    Il volto mi cadde tra le mani ed ebbi la sensazione che tale rimorso fosse l’unica emozione a supplire a tutte quelle morenti certezze. La certezza di aver condannato una giovane creatura per un crimine mai commesso, quando forse speravo soltanto d’insegnare a costei come somigliarmi. La certezza di essermi trovato nel giusto, dove invero era il mio orgoglio, solo quello ad aver immaginato un tradimento.
    Quando finalmente me ne tornai in camera, e tra le braccia del sonno spensi la luce esortando la notte a trascorrere, mi parve di ritrovare un poco di sollievo, dacché sapevo esattamente cos’avrei fatto l’indomani, non appena mi fossi destato.

    Bisbigliai invano il nome di Sandy per almeno una mezzora, girando attorno senza tregua alla nostra oasi abituale, nei pressi del ruscello. Stanco di aspettare, quel mattino vi ero sceso anzitempo, precedendo anche Markus. Speravo in cuor mio che lui potesse giungere il più tardi possibile, tanto almeno da lasciarmi il tempo e un po’ di solitudine per sistemare le cose.
    Ripresi a chiamare, questa volta più forte, correndo il rischio di attirare l’attenzione dei passanti.
    Mi incamminai verso il nido della giovane, ma quando fui a metà strada la coscienza si impose sull’angoscia e io dovetti arrestarmi. Non potevo varcare la soglia dell’intima dimora di Sandy un’altra volta, senza il suo consenso.
    Sedetti sulla spiaggia e rimasi a pensare: alla mia natura, a tutto ciò che di mostruoso vedevo in quella creatura dalle lunghe pinne, e a ciò che di mostruoso doveva lei vedere in me. Pensai che forse sarebbe stato meglio considerare Sandy come una di quelle leech, terribili e predatrici delle leggende e delle fiabe, perché in tal caso l’avrei temuta, rispettata, e mai mi sarei permesso di rimproverarla, contaminando il suo nome con un falso affetto, che ormai chiamavo possesso.
    Proprio in quel mentre mi accorsi di non essere più solo.
    Una presenza quasi eterea mi osservava immobile e timorosa a circa cinque metri di distanza. Non dovetti voltarmi per capire ch’era lei: chissà da quanto tempo se ne stava lì seduta.
    La salutai, ma rimasi immobile. Lei non emise un sospiro, e per un poco la dovetti imitare.
    «L’ultima volta che ci siamo incontrati sono stato ingiusto nei tuoi confronti» sospirai, quando sentii d’esser pronto. «Ti ho dato una colpa che non era tua, e ora non so più nemmeno di che colpa si trattasse.»
    Finalmente le rivolsi lo sguardo. Aveva gli occhi tristi, come velati, le labbra socchiuse e il capo lievemente inclinato da una parte.
    «La realtà è che si commette sempre l’errore di porsi nei panni degli altri pensando che questo ci renda generosi, ma nella maggior parte dei casi lo si fa solo a metà, e si diventa prigionieri di un cuore che non è il proprio. Io non sono te, e tu devi essere libera: libera anche di scomparire dalla mia vita. Per quanto mi riguarda, invece, sono caduto nella tua rete, e se mi cerchi, mi troverai per sempre tra questi sentieri.»
    Allora Sandy, imperscrutabile al pari di sempre, volle farsi più vicina. Sedette sulle mie gambe, ancora in silenzio, e i suoi gesti di per sé languidi si composero nella grazia di un corpo di velluto, sinché lei non ebbe distesa la nuda schiena contro il mio petto.
    Rimasi immobile, senza un respiro, quasi non mi accorgessi che adesso dolcemente, lentamente la stavo abbracciando. La vidi far scivolare quelle mani dalle lunghe dita flessuose a carezzarsi le membra, guidare le mie lungo ogni curva della sua sagoma, a sfiorarle il ventre caldo e viaggiare sin dove l’inguine si copriva di tenere squame violacee. Poi chiusi gli occhi, e scivolai nel segno di quelle cosce palpitanti di vita lasciva, mentre Sandy levava alta la fronte e io calavo le labbra sulla sua gola, sinuosa e scoperta. Non mi è facile dire quanto quell’attimo ebbe a durare, poiché la mente affogava nel sogno, ma ricordo che a un tratto udii la giovane emettere un lieve sibilo, e io finalmente mi ridestai, confuso e spaventato.
    «Scusami» la scostai. «Questo non lo posso fare... Non è una buona idea.»
    Sandy d’altra parte non oppose resistenza: rimase coricata sulla spiaggia mentre ancora le sedevo accanto... e per un attimo mi parve di cogliere qualcosa nel suo sguardo: una sorta di fredda delusione, che non compresi, ma che finì per svanire in un ritrovato sorriso. Malgrado i miei sforzi lei sapeva: sapeva che nulla sarebbe finito tanto presto.
    Ora comunque veniva il tempo di fermarsi, poiché dalla boscaglia filtrava una voce cui sinora non avevamo prestato ascolto: quella di Markus.
    Sandy, come stizzita da tale interruzione afferrò un grosso sasso dal terreno e lo gettò nel fiume. L’afferrai piano per un braccio e l’esortai a venir via.
    «Coraggio: sii carina e vai a salutare Markus» dissi sotto voce, tentando di mascherare il fatto che in qualche modo, naturalmente, ciò innervosisse anche me.
    Va detto che tale buona volontà valse un poco a lenire i miei sensi di colpa, quando Markus, accortosi che assieme a Sandy c’ero io, si sforzò di comporre un sorriso ed esclamò:
    «Allora avete fatto pace, finalmente!»

    Così, mentre il tempo correva rapido nell’ingrato inganno dell’estate, quasi a tradimento giunsero gli esami. Benché da circa un mese conoscessi la data che avrebbe sancito l’inizio di quella settimana di prove, la seconda di giugno, non presi realmente coscienza di tale evento sinché questo non fu alle porte, e solo allora, mi avvidi non fosse affatto come me l’ero figurato.
    Sembrava un giorno di scuola simile a tanti che ne avevo vissuti: pioveva, e alle nove e un quarto mi presentai in aula al primo piano, dove assieme ai miei compagni avrei atteso l’inizio della prima prova scritta un’altra mezzora.
    A dire il vero, non furono gli esami in sé a trovarmi impreparato – data la mole di esercitazioni propedeutiche sostenute durante l’anno, in vista della “recita finale” – bensì la quasi deludente, ironica, banalità dell’atmosfera. Sino ad allora, quando pensavo agli esami, la mente fantasticava su qualcosa di definitivo, di sentito, come l’ultimo capitolo di una serie di racconti, dove il protagonista si trova faccia a faccia con la propria nemesi: nulla di più, nulla di meno.
    Invece vi era solo caldo, l’aria resa elettrica dal maltempo, quella grigia schiera d’insegnanti mai incontrati in precedenza, e una grande confusione mentale.
    Tutti quei pensieri riguardanti Sandy: l’impossibilità di operare una scelta, tra il mio essere “civile” e il ricordo bruciante del corpo di lei, erano valsi una volta per tutte ad annientare l’enfasi dell’esame stesso.
    Così sovrappensiero vergavo a caratteri stretti la prima pagina di quel tema, e mi dicevo sarebbe stato quantomeno apprezzabile, di poter scegliere un argomento consono a tanti timori, così forse da trovare sollievo, se non una qualche ispirazione. Ma di tutti i temi, di tutti i titoli, il più invitante sembrava riguardare un’improbabile “studio sugli sviluppi dell’arte culinaria nel novecento e i principi del mangiar sano”.
    Ricordo che a un certo punto sollevai la fronte dal banco per concedermi una pausa, e guardandomi attorno, seppure con discrezione per non suscitare i sospetti dei docenti, ebbi l’impressione di trovarmi in un bar, pieno di persone intente a scorticare i propri gratta e vinci. Già scorgevo tra i miei coetanei i notai di domani, gli impiegati bancari, alcuni manager e persino qualche artista. E avevano tutti la stessa, identica, faccia: la mia.
    Chissà se anche tra loro, a qualcuno era mai capitato d’imbattersi in un mistero da non voler condividere? Adesso stavo divagando, ma in fondo poco importava: il tempo che mi era stato concesso per descrivere l’evoluzione della pancetta nel corso dei secoli sarebbe risultato eccessivo persino per stilare un trattato.
    Poi mi venne in mente che nell’aula adiacente, proprio in quel momento, anche Markus si trovava alle prese con il medesimo travaglio. Chissà come se la stava cavando?

    «Benissimo!» esultò sul corridoio, non appena mi vide. «Non poteva andare meglio, e mi sono persino divertito. Chi lo avrebbe detto?»
    «Di certo non io...» sospirai sorpreso, prima che lo stonante buonumore di lui finisse per trasmettersi anche a me. «Su, racconta, com’è andata?»
    «Beh, credo che l’esame sia andato abbastanza bene...» ponderò, «ma non è questo il punto. C’era buio, gli insegnanti lanciavano certi sguardi torvi e i miei compagni avevano paura... e anch’io ne avevo! Sembrava d’essere finiti in confessionale, o nell’ultima puntata di qualche serie televisiva, quando il protagonista si trova faccia a faccia con la propria nemesi...»
    «Già. Esempio calzante.»
    «Dico sul serio, lo rifarei volentieri!»
    «Non ne dubito» tentai di farlo tacere, ma a quel punto molti sguardi affranti dei suoi e dei miei compagni d’arme s’erano volti a cotali blasfemie: alcuni sgomenti, molti arroventati, e non mi sarei sorpreso nel vedere altri di loro segnarsi come di fronte al demonio. «In ogni caso non temere. Siamo solo all’inizio della settimana, e di esami come questo ne vedrai a sazietà.»
    Ma l’ondata di novità non si era ancora placata del tutto:
    «Che stupido!» fece Markus battendosi la fronte. «Dovevo presentarti una persona... Me n’ero quasi scordato!» Questa volta non ebbi neppure il tempo di chiedere spiegazioni. «Imogen?» chiamò volgendosi a un roseo semicerchio di ragazze, che avevano quell’aria vacua di chi ride per il gusto di ridere. «Imogen, verresti qui un momento?»
    Quasi che si attendessero tale risvolto da un minuto all’altro, le giovani finsero reticenza in un malizioso fruscio di sorrisi sinché dal gruppetto ne emerse una soltanto. Un viso fresco e spensierato, il corpo benfatto, ma preso in trappola da un completo giallastro che, a mio parere, risultava eccessivo e caramelloso quanto lo sguardo e quel paio di ballerine che lei calzava con tanto di fiocco.
    Non ebbi chiara la situazione e non mi esposi a commenti fintanto che la strana presenza non si fu avvicinata, e Markus, a seguito di un inutile cenno di riverenza, poté prenderla sotto braccio.
    «Oh...»
    «Valerio, ti presento Imogen. Imogen, questo è Valerio.»
    Lei mi tese una mano e un altro dei suoi risolini insipidi; io ricambiai macchinalmente, sovrappensiero.
    «Imogen è una mia compagna di scuola da cinque anni, e prima d’ora non le avevo mai rivolto la parola, ci pensi? Stamattina eravamo in classe, abbiamo deciso di ripassare assieme e...»
    «Magia!» squittì Imogen. «Abbiamo scoperto di essere fatti l’uno per l’altra.»
    «Ci pensi? E’ successo tutto all’ultimo momento» riprese Markus. «Ancora cinque giorni e ci saremmo persi di vista per sempre...»
    «Ma l’amore vince su tutto, si sa» attaccò l’altra. «E colpisce quando meno te l’aspetti.»
    «Allora, sei contento per il tuo amico?»
    Tale domanda seppe sottrarmi all’orrore e alla nausea appena in tempo, per dar forma a un entusiasmo impacciato e a un mezzo applauso d’incoraggiamento.
    «Beh, felicissimo...» mentii.
    Com’era stato capace d’infatuarsi di quel confetto-casa-chiesa-smancerie nel giro di mezza giornata? E ora a sua volta sarebbe stato contagiato dalla “magia dell’amore”?
    Guarda, pensavo, inizia già a sorridere come lei.
    «Forza, Imogen» chiamarono le sue compagne, quasi in coro. «Non abbiamo tutto il giorno!»
    «Arrivo, arrivo!» sbuffò lei, poi di nuovo allo sguardo spaesato dell’amante: «oh, caro, adesso ti devo lasciare. Ho promesso alle mie amiche che saremmo andate a fare un giro assieme per il centro... Ma non ti preoccupare, tornerò da te immediatamente!»
    «Ci vediamo domani?»
    «Anche stasera!»
    «Magnifico!»
    I due si lasciarono con un bacio sin troppo passionale ed esteso, che finì per spazientire me, le amiche e persino i membri della commissione, offesi da tanta spensieratezza come vampiri al sole di mezzogiorno.
    «Imogen vuole conoscere anche te» esordì Markus quando fummo di nuovo soli, quasi si fosse trattato di un privilegio regale. «Dice che “chiunque sia mio amico, è anche amico suo”. Un giorno potremmo uscire tutti assieme.»
    Deglutii, credendo si trattasse di una minaccia.
    «Un giorno, magari. Molto volentieri.»
    «E tu, hai qualche programma per oggi?»
    Non intesi bene la domanda.
    «Pensavo di mettere qualcosa sotto i denti finché sono qui e... più tardi mi recherò al fiume a trovare Sandy.» Distolsi lo sguardo. «Pensavo saresti venuto anche tu.»
    «Ah, sì, Sandy...» annuì Markus riluttante. «Sai, oggi non credo che verrò. Hai sentito anche tu: Imogen e io abbiamo un appuntamento per questa sera e...»
    «Sì, hai ragione, non ci avevo pensato. Allora ci verrai domani?»
    Markus si strinse nelle spalle.
    «Non lo so. Vedremo.»
    «Sandy sentirà la tua mancanza...»
    «Sì, è vero...» fece Markus, arretrando di qualche passo come prossimo al congedo e accennando un breve sorriso. «Forse in questi giorni non riuscirò a occuparmi di Sandy come prima. Ma tu salutala da parte mia, naturalmente!»
    «Certo, lo farò...» sospirai, colto alla sprovvista dalla realtà dei fatti come da un improvviso senso di vuoto.
    «Ora devo andare. Ci vediamo qui a scuola per gli esami?»
    «Certo...» ripetei, con un cenno della mano. «Ci vediamo per gli esami.»
    A quel modo ci congedammo. Adesso ero io a sentirmi spaesato.

    Così mi spinsi a concludere la settimana degli esami nel migliore dei modi, in vista delle due successive prove scritte e di quella orale, senza per questo far mancare nulla a Sandy. In realtà, potrei dire, seguitai a compiere esattamente ciò che d’alcuni mesi a quella parte si sarebbe definita la mia routine, e se vi furono delle difformità, esse rimasero parte dell’impenetrabile segreto di cui, temevo, io e la giovane creatura ci scoprivamo d’un tratto gli ultimi complici.
    Non trascorse molto tempo prima che Markus gettasse l’ultimo velo delle proprie scelte, e i suoi “un giorno potremmo uscire tutti assieme” divennero “arrivederci a domani” piuttosto brevi.
    Sandy non era l’unica a esser stata lasciata indietro, e mi venne in mente che, se davvero il mio amico doveva cadere vittima d’ipnosi da parte della sua attuale compagna, avrei preferito scorgere in costei un’incomparabile seduttrice dalle lunghe gambe, o una succube diabolica, piuttosto che sapermi soppiantato da quell’Imogen, tanto immatura e dozzinale.
    Ogni volta che guardavo i due piccioncini tenersi per mano e fingere intimità nel bel mezzo dei corridoi dell’istituto, ripetevo a me stesso si trattasse di una tappa obbligata e talvolta conclusiva, per qualsiasi amicizia o pressappoco, quella di sbiadire sotto i raggi di un nuovo e più fulgido sole.

    Mi trovavo alla vigilia dell’esposizione dei quadri, relativi alle votazioni d’esame, contando su di un esito concorde ai risultati ottenuti, ma non all’impegno che, come già menzionato, rasentava ormai l’indifferenza.
    Quel pomeriggio Sandy iniziò a dar mostra di una certa nostalgia nei confronti di Markus: di tanto in tanto volgeva il capo in alto o uno sguardo oltre il confine delle fronde, cercando nei sussurri del vento un segno dell’imminente arrivo del mio amico.
    Ma lui non veniva, e io, scoraggiato all’idea di spiegare alla giovane la realtà delle circostanze, nelle loro complicate e umane ragioni, mi limitai a riferire che Markus si trovava molto occupato al momento, e che forse lo sarebbe rimasto a lungo.
    Sandy annuì a sguardo basso, e mi parve che le dispiacesse di udire tali notizie, poiché, al pari di me, non se le attendeva.
    «Cose che capitano, mia cara» volli sdrammatizzare. «Ma non sarà altrettanto facile liberarti di me.»
    Va detto che oramai la giovane palmipede stravedeva per il sottoscritto, e io stravedevo per lei. Quantunque tentassi ancora di allontanare il ricordo delle sue più recenti avance, e delle emozioni sin troppo interessate che di tanto in tanto esso mi procurava, sentivo di giorno in giorno rafforzarsi quel raro legame, tipico di chi investe molto in un unico individuo e pare ricevere altrettanto.
    Mi sforzavo di vedere Sandy come una creatura libera e unita a me da un legame passeggero, come una rondine compone il proprio nido su di un tetto, per poi partirsene in autunno. E se soltanto avessi potuto conservare quei pomeriggi nel loro eterno silenzio, senza il timore di dovervi un giorno dire addio, credo che ormai non avrei più tentato di creare questo sottile distacco. Ma presto o tardi, sapevo, per un motivo o per l’altro, mi sarei dovuto assentare più a lungo del solito: un mese o due, magari un anno e allora chissà, se al mio ritorno, Sandy sarebbe stata ancora lì ad aspettare? Io stesso non avrei mai chiesto qualcosa di simile.
    Vi erano tante cose che sentivo di poter accettare, ma una tale interruzione, tanto vuota e mancata della nostra amicizia, non era una di queste.
    Si trattava di una sorta d’istinto protettivo che avvertivo nei suoi confronti, e che abbinato ai miei soliti propositi, riflettevo, poteva condurre a un’unica soluzione. Benché ella affermasse d’esser sola lungo le rive di quel fiume, e io dovessi rinunciare all’idea di ricongiungerla ai suoi simili, l’avrei abbandonata solo e soltanto il giorno in cui entrambi fossimo stati pronti, e consapevoli di tale necessità, così che la nostalgia non dovesse mutare in apprensione.
    Sandy lo sapeva, perché di tanto in tanto le accennavo tali discorsi con l’intento d’essere previdente. Lei mi scrutava con quei suoi occhi intelligenti e ambigui, senza mostrare una reale partecipazione.
    Le era evidente, molto più che al sottoscritto, di come tali propositi rimanessero tuttora confinati a orizzonti assai distanti della mia volontà. Mi illudevo allo stesso modo di aver allontanato quelli che del passato consideravo errori: quei sentimenti che non volevo chiamare emozioni, bensì istinti, di continuo destati dalla presenza e dai gesti della giovane; ma persino su tal fronte, mi dovetti ricredere.
    Vi era qualcosa di diverso nei gesti della leech: qualcosa di taciuto e al contempo espresso, da una Sandy sempre meno timida e sempre più diretta, e a modo suo, forse sfrontata.
    Non che manifestasse un’indole prepotente od ostile nei miei confronti – si mostrava quasi sempre affettuosa, come previamente affermato – eppure il suo modo di agire, di “giocare”, pareva spingersi costantemente a un larvato contatto fisico, ogni giorno meno ingenuo.
    Più di una volta era accaduto, mentre sedevo sulle basi di un tronco o una roccia limitrofa alla riva del fiume, che l’amica si portasse al mio fianco con la scusa di un innocuo dispetto, o per mostrare un sasso dalla forma bizzarra, e lì si avvicinasse tanto da poter sentire su di me le sue dolci, calde forme, il piccolo mento chino sulla mia spalla e lo sguardo, lascivo, sempre fisso nel mio.
    Talvolta prudentemente mi scostavo, senza che lei mostrasse più che una lieve delusione, mai prossima alla resa; in altri e meno ponderati casi, lasciavo che fosse Sandy a mostrare l’intima natura dei suoi propositi, del tutto indisturbata.
    Tendeva a me le braccia lentamente e scivolava a cingermi la schiena, poi mi guidava a fare lo stesso, e lì s’arrestava, come intenta a riposarmi accanto.
    Così avanzava le sue intenzioni a piccoli passi, quasi impercettibili, sino ad abbattere giorno per giorno le barriere del mio autocontrollo, rendendo ciò che più di ogni altra cosa paventavo, lo svolgersi di un atteggiamento naturale, finanche seducente.
    Iniziavo a considerare l’affiatamento di Sandy, le carezze che a me domandava, lungo il dorso vellutato di squame e il ventre morbido e glabro, l’odore fresco e silvano dei sui capelli, una sorta di meta stabile dei nostri appuntamenti quotidiani, che di tanto in tanto si mischiava alla semplice affezione che avvertivo nei suoi confronti. Il silenzio di entrambi diveniva il migliore dei consensi.
    Accade, allorché ci si trovi a concentrare ogni sforzo e attenzione su di un unico soggetto, che si scorgano i pericoli e le minacce soltanto nell’ambito ristretto a tale contesto, come le ombre di un piccolo mondo, ignorando per errore tutte le altre. E mentre riflettevo sui possibili risvolti del mio presente e futuro in funzione di Sandy, mi trovavo del tutto cieco nei confronti di un'altra questione, ben più evidente, infelice, e ormai alle porte.

    «Come procedono le cose con Imogen?» domandai a Markus, un mattino di luglio, centrando l’unico argomento che fosse rimasto ai suoi pensieri.
    Lui spalancò le braccia a riprova di tanto buon umore e compose un’espressione tracotante, segno che talvolta Cupido mira alla testa, piuttosto che al cuore.
    «Tu che ne dici?»
    «Hai ragione» sorrisi, diplomatico. «Non ti vedevo così felice dal tempo in cui la professoressa Bennett rimase incinta.»
    In effetti, Markus e la sua dolce metà s’impegnavano tanto nel divulgare nel dettaglio le proprie evoluzioni sentimentali che la mia domanda si sarebbe detta persino offensiva.
    Il fatto stesso che ora mi trovassi a parlare con l’amico senza scorgere l’illustre Imogen nella sua ombra pareva un miracolo.
    Avevo ricevuto la visita di Markus direttamente a casa mia, evenienza ormai rara, pertanto dedussi che l’amico volesse condividermi uno di quegli argomenti – da lui spesso definiti – “di riguardo”. E l’argomento non tardò troppo ad affiorare: giusto il tempo d’invitare l’ospite in soggiorno per una coppa di gelato.
    «Volevo chiederti, Valerio, come sta la nostra Sandy?»
    Non potei celare a me stesso una certa ostilità verso quel “nostra” che aveva usato, ma volli fingere indifferenza.
    «Sandy sta bene» risposi. «Non ci sono grandi novità. E’ più o meno come te la ricordi, anche se l’estate la rende più vivace.»
    Markus annuì, accennando un sorriso che voleva essere affettuoso, ma che nella sua celerità valse solo a instillarmi un vago sospetto.
    «E dimmi, capita mai che manchi ai vostri appuntamenti?»
    «Come dici? Parli di Sandy?»
    «Sì» bisbigliò Markus a testa bassa, quasi furtivamente. «Mi domando se lei sia sempre lì ad attenderti, o qualche volta se ne vada in giro per conto suo...»
    L’amico parlava come se le pareti avessero occhi e orecchie, e per un attimo fui tentato di avvertirlo che mio padre e mia madre non erano in casa. Poi mi sovvenne che tale e insolito comportamento affiorasse in lui quelle volte ch’era in ballo un suo segreto: qualcosa che non andava troppo fiero di raccontare.
    «Markus...» chiesi accigliato, «cosa sono tutte queste domande? Non ci saranno altri problemi con Sandy, spero...»
    «No, non dei problemi...»
    «Allora cosa?»
    Schiusi la vasca dei gelati sopra il tavolo e lanciai una nuova occhiata a Markus. Lui fissava il pavimento.
    «Tu sai quanto Imogen e io siamo legati, vero?»
    «Credo di sì.»
    Perché doveva esserci Imogen di mezzo anche stavolta?
    «Vedi, io mi fido cecamente di lei, e tu...» Markus deglutì nervosamente, fissando il grande cucchiaio con cui ora gli servivo il gelato, «tu hai sempre detto di nutrire fiducia nei miei confronti.»
    «Mi fido di te, infatti» ripetei. «Ma ancora non capisco dove tu voglia andare a parare. E inizi a spaventarmi.»
    «Stavo pensando... Hai detto che Sandy non appartiene a nessuno, giusto?»
    Smisi di armeggiare con il cucchiaio. Lo fissai, sempre meno incline a sorridere.
    «Il fatto è che mi piacerebbe portare Imogen a vederla.»
    Le parole uscirono tanto in fretta dalla bocca di Markus quanto la frecciata gelida che andò a trafiggere le mie sicurezze.
    «Che cosa?»
    D’un tratto sentivo crollare ognuno di quegli orizzonti di segreti che avevo innalzato per Sandy e per me stesso.
    «Ecco fatto» sospirò Markus. «Sapevo non l’avresti presa bene.»
    «Non puoi dire sul serio...»
    «Perché no?»
    Scossi la fronte spaventato.
    «Ascoltami, per favore» pronunciai sottovoce, «io questa Imogen nemmeno la conosco...»
    «Hai detto di fidarti di me...»
    «Ma non di lei. Non è così che funziona, non quando c’è di mezzo qualcuno come Sandy.» Markus tentò di replicare ma lo interruppi. «E dimmi, cosa n’è stato di tutti i bei discorsi che abbiamo fatto? Del fatto che Sandy non è un animale da compagnia, e che non l’avremmo messa in pericolo?»
    «Imogen terrà la bocca chiusa, Valerio...» fece Markus con un tono di sdegno. «Vorrei portarla a vedere Sandy una volta soltanto. Sono certo che nemmeno a lei dispiacerà avere nuovi visitatori.»
    «Avevamo detto di non parlarne con nessuno. Nessuno!»
    «Si tratta di Imogen, capisci? Lei è la persona più importante della mia vita. Ti chiedo solo di lasciarla venire al fiume una volta.»
    «Perché?» domandai mascherando lo sconforto. «Dimmi quale dannato motivo ci sarebbe di far incontrare Imogen con Sandy.»
    Markus si strinse nelle spalle con una puerilità disarmante.
    «Vorrei soltanto che la vedesse.»
    Deglutì, paralizzato da quei timori che sentivo mutare in collera.
    «Ah, certo!» risi aspramente. «Quindi è questa la realtà dei fatti; e io, stupido, che me ne accorgo solo adesso! Non te n’è mai importato niente di Sandy, ho ragione? “Povera Sandy”, “la nostra Sandy”, “non possiamo lasciarla qui tutta sola”. Sei stato un santo con lei, Markus.» Lo fulminai. «Sei stato un santo, finché da lei potevi aspettarti qualcosa.»
    «Valerio, senti...»
    «Ma adesso hai Imogen. Ed ecco svelato cosa rappresenta realmente Sandy per te, dietro quel comodo altruismo di cui tanto ti piaceva parlare. Un’attrazione. Un fenomeno da circo.»
    «Non credevo l’avresti presa tanto male» disse Markus in tono grave.
    «E come dovrei prenderla?»
    «Lo hai detto tu stesso. Sandy non ci appartiene.»
    «Non si tratta di questo. Tu hai cancellato tutto il tempo che assieme le abbiamo dedicato, scegliendo di metterla in pericolo.»
    «Io l’ho solo lasciata andare.»
    «Cosa intendi dire?»
    Stavolta fu Markus a sospirare una risata.
    «Dico che alla fine sei tu, l’unico a non poter rinunciare a Sandy» parlò a sguardo basso. «Fai di tutto per mantenere un distacco, in nome della sua libertà e nel pieno rispetto della sua natura, il che ti farebbe onore, se non fosse che Sandy non vuole essere libera! Lei vuole te, tanto quanto tu desideri lei, ma solo uno dei due ha la decenza di ammetterlo.»
    Osservai la piccola coppa in vetro lucido, che avevo riempito di alcune porzioni di gelato assortito e che sfioravo con le dita: sembrava quasi tiepida, se paragonata al tono che aveva assunto la conversazione.
    «Markus» iniziai, «ritengo di non essere mai stato un individuo dal temperamento bollente, ma non sono nemmeno fatto di ghiaccio.»
    «Adesso cerchiamo di mantenere la calma» disse l’altro, tentando di apparire disinvolto. «Non è il caso di prendersela tanto. Non ho detto nulla a Imogen: volevo prima accertarmi che tu fossi d’accordo, ma a questo punto...»
    «Fuori di qui. E torna quando avrai di nuovo la testa attaccata al collo.»
    Markus rimase fulminato sul posto tra una parola e l’altra.
    «Come hai detto, scusa?» balbettò sgomento. «Valerio...»
    Gli indicai la porta.
    «Fuori – di – qui.»
    L’amico seguì il mio gesto con lo sguardo, un paio di volte a sincerarsi di aver interpretato correttamente, poi arretrò di qualche passo: i movimenti legati e ormai consapevoli di quell’inatteso finale.
    Tentò di pronunciare qualcosa, di cercare la parete della stanza alle sue spalle, infine si lasciò andare a un moto nervoso e incalzò verso la porta d’ingresso.
    Ascoltai l’incedere dei suoi passi sulla strada, in preda all’inquietudine. Camminai avanti e indietro per la cucina senza tregua ragionando sul da farsi.
    Quanto tempo sarebbe trascorso prima che Markus decidesse d’ignorare la mia richiesta e portasse la sua Imogen al fiume? La realtà è che di costei non mi fidavo nemmeno un po’, e immaginai che entro una settimana al massimo, data la nuova e allarmante piega degli eventi, la riserva sarebbe diventata un punto di ritrovo per curiosi e appassionati di fantascienza.
    Così, non potendo più auspicare la continuità di quell’equilibrio cui la mia amica e io c’eravamo sinora affidati, urgeva correre al più presto a rimedi estremi.
    Ma quali?
    Dovevo dunque rapire Sandy alla sua dimora e portarla via con me?
    E dove? Potevo forse parlare di lei con mio padre e mia madre esponendola a ulteriori rischi... o si rendeva necessario che la conducessi lontano, tra i silenzi di una nuova e più sicura riserva, e lì l’abbandonassi a sé stessa per sempre?
    E magari era vero, per quanto interessato, ciò che Markus diceva a proposito di Sandy e di me; e tuttavia, non avrei anteposto quel cieco e possessivo desiderio alla sicurezza di tale creatura. Non io.

    Fine seconda parte.


     
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    Con questo concludo il racconto, e spero di ricevere tanti commenti e consigli :D E un pandoro. Soprattutto quello.


    III – Falsi orizzonti


    Giunto a una prima soluzione e terminato il mio pranzo, mi recai al fiume in tutta fretta, celando l’agitazione agli sguardi di conoscenti e vicini che ormai si attendevano di vedermi passare, come ogni giorno, verso la mia “innocua passeggiata alla riserva”.
    Fui colto da un leggero sollievo allorché, giunto ai margini della grande piazza, che si immette sulla strada d’ingresso alla riserva, scorsi le sagome distanti di Markus e di Imogen, serenamente appartate sul bordo della fontana.
    Mi dissi che ancora per il momento il mio segreto era al sicuro. Ma non vi era un minuto da perdere.
    Ebbi appena il tempo di discendere nel nascondiglio di Sandy, dove la volta delle alte fronde si chiudeva sul suo ruscello, reso sottile dall’assenza di precipitazioni, che udii la ragazza scivolare lungo il terreno e avanzare verso di me festosamente.
    Seppur malvolentieri dovetti frenare il suo entusiasmo, e trattenendola per i polsi sino a placarla, poi mettendomi in ginocchio d’innanzi a lei, la costrinsi a prestarmi ascolto.
    Secondo ciò che avevo ponderato, non intendevo indurre Sandy ad abbandonare la sua dimora, lungo il suo fiume – benché fossi certo che mediante le dovute spiegazioni sarebbe giunta a comprendere anche questo – però l’avrei messa in guardia dal pericolo che correva, e in tal modo, mi auguravo di poterla proteggere.
    «Ho bisogno che tu mi ascolti attentamente» le dissi, in un tono che velò il suo sguardo d’apprensione. «Fino a questo punto credo di aver sempre dato il meglio per te, senza domandarti nulla, nemmeno un favore che potesse ostacolare la tua indole. Ti ho sempre detto soltanto che ci sono altre persone, che non capirebbero la tua diversità, e dalle quali tu devi nasconderti. Ne abbiamo già parlato tante volte, non è vero?»
    Lei rispose con un silenzio e un lieve cenno del capo.
    «Brava la mia Sandy» sospirai, cercando con fatica crescente le mie prossime parole. «Però vedi... E’ successa una cosa che non doveva accadere. Un problema che non avevo considerato. Adesso, Markus, è una di quelle persone.»
    La giovane scivolò dalla mia presa e arretrò sulle gambe di un paio di passi, fissandomi con aria esitante e ancora confusa.
    «Lo so. Tutto questo spaventa e sorprende anche me, tuttavia spero porrai la massima fiducia nelle mie parole. E’ molto importante che tu lo faccia, perché su questo si basa la mia speranza di tenerti al sicuro, nell’immediato futuro.»
    Attesi un istante che lo sguardo mobile e pensoso di Sandy tornasse a posarsi su di me.
    «Sono molto contento di averti incontrata, e dell’entusiasmo con cui mi accogli ogni giorno, qui nella tua casa. Ma d’ora in avanti voglio che tu sia cauta, più prudente, e se qualcuno si avvicina a questa zona, prima di andargli in contro, rimanga ad accertarti che sia io.» Sfiorai con le dita una delle lunghe palme che Sandy teneva chiuse in grembo e ripresi. «Markus ha incontrato una persona... Una ragazza.»
    Lo sguardo di Sandy seppur fermo a terra si fece più freddo, quasi amareggiato.
    «E uno di questi giorni, probabilmente, la porterà qui al fiume per conoscerti. Ma io non mi fido di questa persona, Sandy... Non possiamo permettere che ti scopra: non terrà mai la bocca chiusa. Spargerà la voce, e tu non sarai più al sicuro.»
    Mi portai di nuovo accanto all’amica per tema d’averle condiviso troppe delle mie preoccupazioni. Cercai nei suoi gesti un’agognata conferma.
    «Ecco cosa ti chiedo di fare» pronunciai lentamente. «Se Markus dovesse venire a trovarti, specialmente se accompagnato da qualcuno, tu rimarrai nascosta da qualche parte, e non ti farai vedere, né sentire, fino a quando non se ne sarà andato via. Puoi promettermi questo?»
    Lei piegò lievemente il capo da una parte. Rimase a fissarmi alcuni istanti con aria assorta e un’espressione che non seppi decifrare. E compose un piccolo sorriso, impenetrabile e sicuro. Tese il corpo a chiudere gli ultimi centimetri che separavano l’uno dall’altra, sino a sfiorare con la fronte i miei capelli, la mia gola con le labbra schiuse e umide; sinché quel brivido che mi correva lungo la schiena, di paura e piacere, giunse a descrivere il significato di tali gesti, forte e chiaro.
    Ancora una volta la mia apprensione cadeva del tutto a sproposito. Ancora una volta Sandy si rivelava abbastanza forte da mantenere il controllo assai meglio di me. Ancora una volta la sottovalutavo.

    Trascorse un’atra, lunga, settimana senza che i dissapori sorti tra Markus e il sottoscritto si spingessero oltre una sorta di guerra fredda, di falsa indifferenza e occhiate taciute, né che l’amico cedesse alla tentazione d’ignorare le mie richieste riguardo la faccenda di Sandy.
    Personalmente confidavo nella prudenza di lei, seppure avvalendomi di qualche nuova precauzione. Da quando mi ero scontrato con Markus scendevo alla riserva ogni giorno, senza eccezione di sorta, circa una mezzora prima del solito, e rincasavo un’ora più tardi. Speravo in questo modo che la mia presenza funzionasse da deterrente, per il mio amico e per Imogen.
    Data la bella stagione e l’assenza di reali impegni, nulla di tutto questo destò i sospetti dei miei genitori, e d’altro canto, di Markus nella zona del fiume non si scorgeva neanche l’ombra. Se da un lato non mi sentivo bene per il modo in cui l’avevo trattato, e credevo che di lì a poco sarei persino giunto a scusarmi con lui, dall’altro capivo di non aver detto nulla di troppo distante dalla realtà.
    Sandy per lui valeva ben poco, forse neppure il rischio di mettersi contro di me. Allora commisi l’errore di abbassare la guardia.
    Quella sera dopo cena scesi presto nella mia stanza, leggermente affaticato e innervosito dal lungo periodo di siccità che si prospettava, come una piaga, ora che avevo scelto persino di rinunciare alle vacanze estive. Mi trovavo sul punto d’individuare una facile lettura tra alcuni vecchi fumetti, prima d’impegnare la serata con qualcuno dei miei soliti progetti per l’indomani, quando attraverso il corridoio udii squillare il telefono.
    Dapprima non diedi troppa importanza alla questione: pensai si trattasse di una promozione o dei saluti di qualche parente al mare; e tuttavia, un paio di minuti più tardi, mio padre, mostrando in volto una certa apprensione fece ingresso nella stanza, dicendo che la chiamata era per me.
    Quando udii la voce della madre di Markus all’apparecchio fui grato all’ombra del crepuscolo, scesa ormai del tutto su quel lato della casa, perché credetti d’assumere la tinta stessa delle pareti e dei tendaggi.
    «Buonasera, signora» mi annunciai, tentando di dissimulare l’emozione. «Mi dica, c’è qualcosa che non va? Mi sembra preoccupata...»
    «Ciao, Valerio, come stai?» rispose lei con una sorta di triste devozione nella voce. «In effetti sono un po’ turbata. Si tratta di Markus.»
    Deglutii.
    «Ultimamente se ne va sempre in giro con quella ragazza...»
    «Imogen» le rammentai.
    «Sì, Imogen... E talvolta capita che faccia un po’ tardi a rincasare, però questa sera non è tornato neppure per cena, e inizio a preoccuparmi...»
    «Markus non è ancora tornato?»
    «No» sospirò lei. «E mi auguravo che tu ne sapessi qualcosa. Vedi, è uscito nel tardo pomeriggio con la sua fidanzata dicendo che si sarebbe recato al fiume. Ci andavate sempre assieme, così ho pensato fossi con lui.»
    Rimasi attonito e incapace di rispondere, finché una sorta di fredda e al contempo istintiva concitazione mi spinse a riporre la cornetta.
    «Di cosa si tratta?» domandò mio padre, che non si era perso neppure una parola di quell’insolito dialogo. «Credi che sia grave?»
    «Forse: Markus non è ancora rincasato. Pare che si trovasse al fiume con la sua compagna.»
    Ora anche lui sembrava allarmato, e senza perdere un minuto prese a salire le scale, certo con l’intento d’informare mia madre e discutere sul da farsi. Allora, senza sapere esattamente cosa mi guidasse, misi le scarpe, una giacca leggera, e facendo attenzione a non produrre il minimo rumore me ne uscii di casa, in direzione della riserva.
    La natura dei miei genitori era da ritenersi piuttosto apprensiva in determinate circostanze, e nel caso attuale, non sarei certo stato capace di biasimarli.
    Però ben presto avrebbero notato la mia assenza. Malgrado non mi ritenessero una persona impulsiva, sarebbero giunti a credermi tanto angosciato per la sorte del mio amico da commettere un’imprudenza, e correre a cercarlo da solo.
    Sapevano dov’ero diretto: di lì a poco avrebbero imboccato la strada della riserva a loro volta, per venirmi dietro. E magari avrebbero chiamato la polizia.
    Dovevo fare in fretta.
    Giunsi in riva al fiume allorché il sole scivolava dietro l’ultimo orizzonte. Lungo l’angusto sentiero che si estendeva per chilometri a cingere il corso d’acqua non vi era l’ombra di un solo lampione, e nello stato d’ansia in cui versavo, avevo mancato di portare una torcia.
    Fui lieto se non altro di scorgere sopra di me quel cielo terso, vuoto di nuvole e della minima foschia, perché di lì a poco non vi sarebbe stata altra luce sui miei passi che quella argentea e spettrale delle stelle.
    Scorsi in lontananza l’antro invisibile per il ruscello di Sandy, letteralmente incalzato da un ultimo lungo margine di luce, dove le sagome sicure del giorno si andavano incontrando ai riflessi glabri e azzurrati della notte; dove i roveti e le alte fronde divenivano conciliaboli di scheletri dalle lunghe fauci: la riserva del crepuscolo indossava una maschera tremendamente lugubre, o gettava quella del giorno.
    Non mi ero mai fermato a riflettere, prima d’allora, su quanto realmente distante e irreale fosse l’estendersi di tale linea di terra dal resto del mondo.
    Dovetti scendere a tentoni nella macchia, lungo quella ripida lingua di terra resa friabile dalle temperature estive e costretto, per frenare l’inerzia, a far presa su quei macilenti profili di rami, simili per tatto a corde intrecciate e lugubri che a stento potevo riconoscere. Poco a poco la vista cedeva alle tenebre, ogni immagine perdeva consistenza, e i suoni dimentichi della propria natura vestivano quella dei più ciechi timori.
    Un brivido mi colse: quell’umido abisso celato a una giornata di luglio era già freddo quanto il corpo di un rettile.
    «Markus?» chiamai. «Sei qui?»
    Lo chiamai di nuovo, con voce più forte, e incedetti in direzione del fiume facendo dell’udito la mia sola guida. E là dove l’alto intreccio delle chiome diradava un poco, e i primi flebili riflessi di luna filtravano simili a cortinaggi impalpabili, sentii nascere in me un’incognita inquietudine.
    Vi era qualcosa di diverso in quel luogo. Qualcosa che ancora non riuscivo ad afferrare.
    Forse si trattava di un’infondata suggestione dettata dal silenzio.
    No. Non per me. Io che avevo veduto quel ruscello, quel cimitero di rami sbrecciati e cortecce almeno un centinaio di volte prima d’allora.
    Forse si trattava del terreno: sollevato e cosparso di lunghi solchi in diversi punti; o della mancata familiarità di alcuni cespugli, le cui scabre silhouette parevano strappate, quasi che qualcuno al pari di un fantasma avesse tentato di passarvi attraverso.
    Infine scorsi quella schiera d’ombre sparse a terra, incerte ma pur consistenti, che ad alcun oggetto sembravano appartenere.
    Mossi un poco più distante, verso il fiume, ed ecco che il terrore mi colse. Non era d’ombre che si trattava, bensì di macchie liquide, dense, e nere.
    Alcune di queste parevano trascinarsi fuori dai margini del ruscello, e dove esso formava risacche nella semioscurità s’intuivano ondeggiare sottili e copiosi filamenti di porpora.
    Cosa diavolo era successo là sotto?
    «Markus...?» tentai di nuovo, ed ebbi quasi timore della mia voce, ridotta a un tremito solitario nella sovrana notte. «... Sandy?»
    Niente. E quasi mi pentii di aver gridato.
    Distinsi una sagoma di tronco abbattuto stagliarsi poco più avanti, sui riflessi del fiume, dalla quale si dipartivano alcuni rami dall’aria tozza e robusta, e allorché l’istinto mi fece desiderare di adoperarne uno, al pari di un’arma, compresi l’autentica gravità della situazione.
    Diedi un’occhiata rapida a quei bracci di legno e ne scelsi uno centrale, che di tutti mi parve il più bilanciato. Puntai una scarpa sul tronco disteso e feci leva sul ramo sino a udire un sordo fremito: l’utensile, forse un po’ troppo secco, fu libero dal suo fodero naturale. Calcolai che dovesse misurare circa un metro di lunghezza e fosse spesso per due pollici. Mi ritenni soddisfatto.
    Uscii sulla spiaggia in direzione del nido di Sandy senza saper bene cosa cercare. Il fiume alla mia destra gorgogliava in un modo inquietante e alla vista pareva un’immensa lingua d’inchiostro.
    Nell’aria aleggiava quel sentore metallico, salmastro e dolce allo stesso tempo. Sembrava sangue, ma stavolta non era d’anatra, né di pesce.
    A quel punto anche il coraggio parve cedere al buonsenso: mi trovai sul punto di voltarmi, ripercorrere il sentiero in tutta fretta e ritornarmene a casa, destinando ogni ricerca all’indomani, quando intravidi, nelle profondità del nido della giovane leech, una sagoma mai scorta in precedenza. Una sorta di piccolo tronco, fatto a pezzi e riposto ai piedi del giaciglio di Sandy.
    E vi era un rumore, debole quanto un sospiro, che pareva giungere da dietro quel pietoso oggetto.
    Mi morsi le labbra e incedetti. Poco a poco lo sguardo imparò a leggere le tenebre, la voce del fiume si fece più tenue.
    Così riconobbi nel rumore che avevo udito un gemito strozzato, e il tronco... quel tronco mutilato e pallido: mio malgrado, riconobbi anch’esso.
    «Markus!»
    Le mie labbra non produssero alcun suono.
    «Markus!»
    Riuscii a stento a dominare i nervi e sentii il bastone che tenevo nella destra scivolare tra le dita.
    Di nuovo lo strinsi, saldamente per un’estremità, quando l’allerta ebbe ragione dello sgomento e io scorsi un’altra sagoma, sottile e rilucente come un guizzo argentato, strisciare lungo i margini della mia prospettiva e farsi più vicina.
    Troppo tardi mi sovvenne di lanciare un’occhiata alla culla di Sandy, per trovarla vuota.
    Volsi di nuovo l’attenzione a quel fruscio che ora chiudeva le distanze. Le retine violacee della leech balenarono come piccole sfere di vetro nelle tenebre, e di nuovo la persi di vista.
    «Sandy, cosa stai facendo?» Mossi un passo indietro, verso la riva. «Cosa ti hanno fatto?»
    Udii un sibilo prolungato del quale non colsi la direzione, e altri occhi saettare più distanti nella selva. Molti altri occhi, molti altri sussurri della notte. Una costellazione di freddi riflessi che pareva serrare su di un unico centro. Me.
    Tra tutti tentai di scorgere gli occhi di Sandy. Tentai di chiamare lei mentre il terrore s’impadroniva dei miei sensi e mi spingeva ad arretrare e arretrare, verso la breve striscia di terra e sabbia che dalla riva del fiume conduceva al sentiero.
    «Aspettate...» ansimai. «Sandy... Perché?»
    Il vocio delle creature si fece fitto e intenso tanto da togliermi il respiro.
    Presi a correre prima ancora di voltarmi indietro lungo il margine del corso d’acqua. Un passo di fronte all’altro, corsi più rapido di quanto avessi mai tentato in vita, poiché sentivo quella moltitudine invisibile d’esseri terribili simili a bestie cacciatrici incalzare alle mie spalle: l’ovattato rumore dei loro quattro arti moltiplicato al pari di una pioggia mortifera.
    Attraversai per miracolo la piccola radura del ruscello senza essere raggiunto. Udivo le creature farsi strada anche attraverso la macchia per serrarmisi sui lati.
    Forte della precedente rincorsa mi inerpicai lungo la stretta pendenza che s’immetteva sul sentiero, e dovetti ringraziare il mio buon equilibrio, perché sul punto di perderlo e ricadere all’indietro verso le tenebre, mi piegai sulle ginocchia e mi trascinai sino in cima, allorché sentii uno di quei latrati alle spalle; il terreno spirare come graffiato dove pocanzi si trovavano le mie caviglie. A stento mi rimisi in piedi.
    Ripresi ad avanzare in direzione del paese: lontano oltre gli alberi e i tetti disabitati che delimitavano la riserva s’innalzavano le luci dei lampioni, simili ad aurore biancastre ed elettriche.
    E man mano che incedevo, il richiamo di quegli esseri si fece più debole... distante. Ne fui rasserenato, sognando per un attimo che rinunciassero all’idea di rincorrermi.
    D’altro canto il sentiero era buio. Completamente buio: tanto che a stento potevo scorgere i miei passi, e talvolta ero costretto ad adottare come un cieco la memoria, quale senso supremo dell’orientamento.
    Percorsi in tal modo un centinaio di metri, forse il doppio, dapprima reso sordo dall’orrore, poi sorpreso dall’impulso di conoscere.
    Dunque Sandy non era sola come pochi giorni addietro affermava. Di quelle cose, malgrado le tenebre, avrei giurato di udirne almeno due dozzine.
    Allora le parole del mio vecchio professore ritornarono alla mente: quando mai si era vista una leech opporsi alla propria natura? Forse era questo cui Markus e io andavamo in contro da mesi, senza comprendere: un canto di sirena costretto a durare tanto a lungo da passare inosservato. Ma perché proprio adesso? Non più tardi di ieri Sandy e io scherzavamo come fratello e sorella... Cosa l’aveva resa tanto ostile da trattarmi alla stregua di una preda?
    A quel punto mossi un passo nel vuoto: appena un istante per realizzare quanto sarebbe accaduto.
    Caddi dal lato destro del sentiero, dov’esso si torceva per una curva che avevo mancato di considerare. Trascorsi un paio di secondi tra vuoto e silenzio, poi l’impatto contro una secca rete d’edere e arbusti mi strappò un gemito. La rete andò in frantumi e io finii schiacciato tra le cortecce: se non altro, di nuovo a terra.
    Avvertii un dolore indefinibile percorrermi il dorso delle mani e gli avambracci e immaginai d’essermeli scorticati. Dovetti dominare me stesso e l’affanno arrecatomi da quell’asfittica prigionia d’alberi malsani: per quanto sentissi i movimenti legati, la caduta non era valsa a sottrarmi il senso della direzione. Bisognava incedere verso il paese.
    Trascinai me stesso di busto e di spalle piuttosto che per mezzo delle gambe – costrette tra spire di radici alte mezzo metro sopra il suolo – e divenni ancora più sollecito allorché mi parve di sentire un movimento nella macchia, qualche metro più in là.
    Ancora un paio di strattoni e ringraziai d’esser libero. La selva diradò completamente, tanto da farmi udire i suoni propagare in lontananza e il vento soffiare ampio sulla mia fronte.
    Intesi di aver raggiunto quella vasta lingua di steppa e alti steli d’erba, priva d’alberi, consistente nell’anticamera della riserva vera e propria. Strinsi i denti in una duplice pulsione di sollievo e allerta, grato a me stesso d’aver conservato quello spesso moncone di legno secco saldamente in pugno, malgrado la caduta: se da un lato infatti mi trovavo più vicino alla meta, sarei stato ora costretto ad avanzare allo scoperto.
    Le leech non avevano affatto cessato di seguirmi, di spiarmi: ora le udivo stridere chiaramente il proprio canto come un coro, setacciare i sentieri lungo molteplici direzioni, sfrecciare dentro e fuori dalla selva... e tuttavia, senza una meta precisa. La mia caduta doveva averle depistate.
    Intrapresi quell’ultimo scatto per il quale a stento conservavo le forze, certo che il cuore pulsasse ormai soltanto in merito al terrore d’essere spento per sempre. Ascoltai quei rumori di flutti infrangersi nel fiume come sciabordii di fiere palustri, e altri suoni simili a urla acute, strozzate. Si muovevano sott’acqua.
    Trovai una lingua di terra che si accostava alla parete dell’alto sentiero principale, una decina di metri dinnanzi ai miei passi. Risalii fino in cima e il suolo sabbioso, friabile, divenne solido e ancor più scuro.
    Era cemento. Ormai mancava poco!
    L’ultimo tratto della riserva serrava quel sentiero dissestato e artificiale tra due file di possenti conifere – sorte dal terreno come artigli infernali, che tesi al cielo frantumavano la terra – prima di passare su di un ultimo ponte che fungeva da diga, per reimmettersi sulla strada del paese.
    Una sagoma longilinea e ricurva emerse sulle quattro zampe alla mia destra, avanzando sino a sbarrarmi la strada.
    Era Sandy. Il suo sguardo reso impenetrabile da un istinto sanguinario e un rosso sorriso macchiato sulle labbra.
    Altre leech comparvero alle sue spalle e si spostarono sulla sinistra, laddove invano avevo scorto una fuga e m’ero tradito. Di lì non potevo più passare: non lo avrebbero permesso, e un’ultima speranza mi portò a cadere nella loro trappola.
    Ripresi a correre, rimasi a destra del percorso, ma anziché seguirlo per finire tra le fauci delle leech, discesi sotto il ponte, dove la spiaggia cadeva a strapiombo coperta da una stretta volta di rami spioventi, e terminava con la parete della diga stessa: una sorta di strettoia naturale, e per di più, un vicolo cieco.
    Mi avrebbero raggiunto, ma non vi era altra scelta, e in cuor mio auspicavo l’intervento tempestivo dei soccorsi, o in un miracolo. Perché mio padre e mia madre non si erano ancora fatti vivi?
    Arretrai di qualche passo ancora e attesi il peggio.
    Mi auguravo se non altro che tale espediente potesse ridurre la disparità numerica, tra quella moltitudine di creature e il sottoscritto. Per raggiungermi dovevano per forza passare attraverso l’angusto corridoio di rampicanti. A meno che... Il fiume!
    La sagoma di Sandy emerse dal nero abisso e mi balzò di fronte. Persino nella tenebre più fitte distinguevo le sue pallide membra, e lo sguardo riflessivo di colei che infine, attendeva l’ultimo dei miei passi falsi.
    «Stai indietro, Sandy» le intimai, ben sapendo d’essere inerme nei suoi confronti. «Non voglio farti del male.»
    Lo ripetei, ma la giovane continuava a incedere. Strinsi allora il pesante bastone che mi portavo appresso e vibrai un colpo contro il suolo. Sandy emise un sibilo che valse a mostrare due file di denti madidi dell’altrui sangue senza cedere terreno.
    Stavolta e con immensa tristezza mirai alla base dei suoi arti anteriori, su cui poggiava metà del corpo, ma allorché la leech scivolò di lato, e io sentii il colpo andare a vuoto, seppi di aver esaurito ogni risorsa. Mai più avrei tentato di ferirla. Non n’ero capace.
    Alzai il bastone troppo lentamente. Stavolta Sandy non rimase ad aspettare. Scattò in avanti flettendo i lunghi muscoli e mi fu addosso.
    Caddi a ridosso di un cespugli di rami taglienti e lei sopra di me. Sentii la pelle bagnata delle sue spalle sotto le dita e la fissai negli occhi, credendo la mia fine dovesse sopraggiungere nel giro di un istante. Sandy mi scrutava di rimando, alla sua solita maniera, come stessimo giocando e lieta d’avermi sottomesso una volta ancora.
    Mi sfiorò la guancia sinistra con una carezza e io la cinsi attorno la schiena, sotto i suoi lunghi capelli appesantiti dall’umidità. Al collo portava ancora il pendaglio che le avevo donato: freddo e lucente nella notte quanto i suoi occhi tinti di smeraldo.
    Vidi altre coppie di quei punti luminosi: altre fauci di leech dischiudersi sopra di me, ma dietro di Sandy, e quest’ultima calare le labbra sulla mia gola.
    Avvertii una lieve fitta... una sorta di bruciore che si sparse al pari di un’anestesia, e i miei arti farsi gravi, come di piombo. Non potevo più muovere un muscolo.
    Sentii il fruscio di sibili immoti delle altre leech, assumere i toni di un rimbombo ipnotico e tagliente, quasi capace di ferire l’udito; il corpo di Sandy aderirmi per intero, farsi un poco più caldo per ogni istante che il mio si raffreddava.
    Compresi la mia fine allorché mi accorsi di non biasimarla. Ciò che la spingeva a divorarmi lentamente era un istinto radicato nella sua natura: incontrollabile, incompatibile.
    Quanto a me, oramai, ero cibo per i pesci. Chiusi gli occhi.
    Poi una luce. E un’altra.
    Lunghe saette artificiali trafissero le tenebre e il mio sguardo offuscato. Alcune voci chiamavano un nome. Il mio.
    Tentai di rispondere, ma non produssi che un gemito.
    Le leech intimorite scivolarono nel fiume, una dopo l’altra, e nel tuffarsi le più rapide dovettero produrre qualche fiotto, perché tutte le luci presero a puntare da quella parte.
    Ma l’ombra calava sul mio sguardo inerte... Le voci troppo distanti. E l’ultima cosa che vidi fu Sandy, che strisciava a ritroso con le labbra e la gola grondanti di un sangue ch'era mio. Mi scrutava languente per l’ultima volta, e s’immergeva nell’abisso: reale quanto un incubo, e come non fosse mai esistita. Non scorderò mai quello sguardo.

    IV – Amore incondizionato



    Trascorsero diversi giorni prima del mio risveglio in ospedale, tra le fitte di quei candidi macchinari e le sacche di sangue, e un’altra mezz’ora perché potessi realizzare di essere vivo.
    D’allora i miei genitori non furono gli unici a vegliare su quella lenta convalescenza. Come previsto, la notte ch’ero sceso alla riserva mio padre aveva contattato le forze dell’ordine, e ora un commissario di polizia dalla giovane carriera, chiedeva di scambiare qualche parola in privato con il sottoscritto.
    Inutile dire che il corpo del mio amico Markus era stato rinvenuto quasi immediatamente, così come quello di Imogen, nel quale per mia fortuna – a giudicare dalle descrizioni poco velate dell’ufficiale – avevo chissà come mancato d’imbattermi.
    Non fu mai menzionato il nido di Sandy. Dapprima credetti non fosse ancora stato trovato, in seguito mi sarei reso conto che le leech lo avevano distrutto.
    La versione più accreditata voleva che il mio amico, la sua fidanzata e io fossimo stati aggrediti da una qualche bestia selvatica la cui specie rimaneva stranamente sconosciuta, e io non feci che avvalorare tale tesi, senza elargire ulteriori indizi.
    Dopo tutto la riserva era al buio, e io vi avevo fatto ingresso per cercare Markus (come sua madre, tra una lacrima e un singhiozzo aveva confermato).
    Nessuno vide più Sandy, né udii i sospiri di un’altra leech in quella zona.

    Quando ripresi a camminare e in seguito alla riabilitazione, riuscii a sorprendere mio padre e mia madre per caparbietà, scegliendo come prima meta delle mie passeggiate proprio la tanto famigerata riserva in riva al fiume. Li tranquillizzai dicendo di non correre alcun rischio, purché fossi rincasato prima del tramonto, e che intendevo rivedere quel posto di cui mi ero innamorato, prima che la distanza ne rafforzasse il timore.
    D’allora mi recai spesso nella zona del piccolo ruscello di Sandy, o poco più avanti a visitare il luogo dov’era stata la sua casa.
    Ben presto iniziai a riflettere su alcuni particolari: piccoli dettagli che sino a quel punto mi erano sempre sfuggiti.
    Sandy aveva dato mostra in diverse occasioni di un’indole in sé piuttosto curiosa e indagatrice... ma lo era mai stata abbastanza? Era mai stata lontanamente vicina a quello stupore che Markus e io tornavamo a provare ogni giorno nella sua compagnia?
    Sandy aveva appreso in fretta... troppo in fretta i mille segreti del nostro linguaggio, dei nostri desideri e costumi, persino per l’intelligenza che le attribuivo. Era davvero la prima volta ch’entrava in contatto con l’essere umano?
    Aveva sempre negato la presenza di altre creature a lei simili nella zona del fiume, e io stesso non mi ero mai imbattuto in alcun nido all’infuori del suo.
    Potevano trovarsi sull’altra sponda del fiume, pensai, ma perché fingere così a lungo d’essere sola?
    Infine la risposta mi giunse quasi scontata assieme a un brivido d’ironia: conosceva le mie intenzioni. Sapeva che quando fossi riuscito a ricondurla ai suoi simili, soltanto allora, l’avrei abbandonata.
    Ma allora per quale motivo restare con noi? Cos’aveva spinto Sandy a cercare la mia compagnia e quella di Markus; ad attenderci ogni mattino e accoglierci nel suo nido per quasi quattro mesi, prima di aggredirci come le prede ch’eravamo ai suoi occhi?
    Quest’ultima risposta non mi fu chiara all’istante, né il giorno successivo, e al pari di una goccia rimase a echeggiare in fondo ai miei pensieri senza tregua, sinché trovai il coraggio di uscire allo scoperto, e di rivolgermi a colui che solo poteva risolvere il mio dilemma.

    «La ringrazio per avermi ricevuto, professore» pronunciai sommessamente nella tenue penombra di quel cortile. «Vedrà lei stesso che non è mia intenzione farle perdere tempo, ma vorrei sottoporle una questione che ritengo d’estrema importanza, almeno per me.»
    Sull’altro lato del tavolino in legno d’ebano sedeva quell’uomo piccolo ma acuto ch’era stato il mio insegnante di lettere. Fece un sorriso che si sforzava d’essere accomodante, nel celare un’insolita apprensione.
    «Non preoccuparti, Valerio. Deve essere questa la prima volta che ricevo direttamente a casa la visita di uno dei miei ex studenti, e ciò non mi reca alcun disturbo. Ma sei stato fortunato: ancora un paio di giorni e me ne sarei andato in vacanza all’estero.» Deglutì, e calò uno sguardo sulle proprie mani, conserte sul margine della tovaglia. «A proposito, ho sentito di quella brutta storia, alla riserva naturale... Sono molto dispiaciuto per te, e più ancora per i tuoi amici.»
    Annuii, mordendomi le labbra.
    «Non è facile, vero?»
    «Per niente...» Portai una mano alle tempie per nascondere la commozione e rimasi un attimo in silenzio. «In effetti è proprio di questo che si tratta.»
    «Come dici?»
    «Vorrei che lei mi aiutasse a far luce su quella faccenda, a proposito di un argomento del quale una volta abbiamo discusso, ma a quanto sembra, purtroppo non abbastanza.»
    Il docente intese:
    «Le leech?» avanzò, con il timore d’aver equivocato e di apparire inopportuno.
    Annuii nuovamente, in un modo che dovette fargli paura.
    «Lei tentò di mettermi in guardia, e io non la presi sul serio.»
    «Valerio...» sorrise lui con aria incerta. «Che cosa ti succede?»
    Tentai di rispondergli, ma finii per domandare a mia volta.
    «Accade mai, nei romanzi, che le leech s’intrattengano per un lungo periodo con l’essere umano?»
    L’insegnante attese un poco in balia dei suoi pensieri, poi decise di assecondarmi e scosse il capo lentamente.
    «Non che io sappia... No» sospirò. «Anche se, pensandoci bene, non vi sarebbe nulla di strano...»
    «Come mai?»
    «Beh...» si spinse a considerare, «è risaputo che le leech siano tutte femmine, e che necessitino dell’essere umano per riprodursi e portare avanti la propria specie.»
    Quelle parole mi diedero la conferma di una consapevolezza che non osavo chiedere a me stesso. Chiusi gli occhi e ringraziai d’essere seduto per il capogiro che m’invase.
    «Nei racconti popolari riferiti alle leech non si fanno particolari riferimenti al “periodo di covata”, come immagino si chiami in gergo tecnico, però è plausibile che, dovendo sedurre un essere umano, l’intera operazione possa talvolta richiedere del tempo. So che la matriarca diventa piuttosto territoriale in quella stagione dell’anno.»
    «La matriarca?»
    «L’unica leech del gruppo che ogni lustro affronta la gravidanza... ma, Valerio, ti senti bene?»
    Mi sforzai di sorridere senza grandi risultati.
    «Non è niente.»
    «E’ un piacere scoprire un giovane tanto interessato a questi argomenti, però non mi ritengo un ingenuo» riprese il docente fissandomi con attenzione, e una perspicacia sulle labbra che in altri momenti mi avrebbe fatto fremere. «Mi dirai qual è l’autentica ragione della tua visita, non è vero?»
    «Certo, mi scusi. Ma se non le dispiace, sento che dovrei farle ancora qualche domanda. La prego di comprendere.»
    Lui assentì. «Prego allora...»
    «E’ possibile che la leech-matriarca, minacciata dalla presenza di un intruso nel proprio nido, divenga tanto aggressiva da...»
    «Uccidere? Direi proprio di sì, anzi, lei uccide e si nutre indistintamente di tutti coloro che non ritiene idonei all’accoppiamento» illustrò il docente, nella sua dottrina, con aria quasi divertita. Se solo avesse saputo.
    «Ed è mai capitato che la leech attaccasse colui che aveva scelto come padre per i suoi piccoli...» mi vergognai a domandare, «ancor prima d’aver consumato il rapporto?»
    «“Il Nido della Leech”» pronunciò misterioso l’insegnante, come a rievocare un trascorso ben distinto.
    «Di che si tratta?»
    «Un racconto, scritto un paio di secoli fa e ambientato nel medioevo. Tratta appunto di questo fatto. La leech comprende di aver perso la fiducia del suo amante, tanto da dover rinunciare alla gravidanza; così quest’ultimo diventa ai suoi occhi niente più che un pasto, e lei lo aggredisce. Capita persino che tenti – chiedo venia per questo termine brutale – un “rapporto forzato”, poco prima di mietere la sua vittima.»
    Dunque è così che erano andate le cose, per Markus prima ancora che per me. Aveva perso la sua attrattiva come possibile candidato per la progenie di Sandy, il giorno che era sceso alla riserva assieme a Imogen. Pertanto doveva morire.
    «... Poi la mia paura ha superato l’affetto, e anch’io sono diventato una preda.»
    «Come dici?»
    «Nulla, mi scusi ancora...»
    «Valerio, ti confesso che vi è qualcosa, in questa storia, che mi convince ben poco. Si può sapere cosa ti prende?»
    «Eppure credevo fosse tutto diverso... Tutto più semplice.»
    «Valerio?»
    «Aveva ragione su ogni cosa, professore. Talvolta crediamo di possedere... di controllare la bellezza più fatale. Ma è solo un’illusione.»
    Sentii il calore di quelle dita robuste sulle mie.
    «Valerio...» ripeté accigliato l’insegnante: lo sguardo penetrante quanto uno stiletto nel mio. «Che cos’hai tu a che fare con queste storie.»
    «Troppo.»
    «Esse possono rivelarsi entusiasmanti, io lo so bene, ma vanno prese come tali, o rischierai di trasformarle in ossessione. Vanno prese come tali finché...»
    «Finché non cessano di essere storie?»
    Il professore si fece ancora più scuro in volto. Tentò di ribattere ma lo prevenni.
    Portai una mano al collo della camicia e lo sbottonai, mostrando la base della mia gola e delle clavicole sotto il tessuto.
    Vidi quell’uomo farsi di pietra; ritrarsi contro il proprio schienale e masticare qualche sillaba insonora, con gli occhi sbarrati seppur fermi del loro solito contegno. Lo sguardo fisso sulla mia gola, trafitta da quella scura cicatrice simile a un morso. Due fitte file di denti acuminati e voraci.
    Richiusi il colletto sino in cima senza smettere di fissare l’insegnante.
    «Confido che questo sarà il nostro piccolo segreto.»

    Quel pomeriggio tornai alla riserva come sempre facevo e come sempre avrei fatto, sapendo che se un giorno il destino fosse tornato sui suoi passi, e io una volta ancora mi fossi imbattuto nella giovane leech che chiamavo Sandy, quel giorno non sarei stato più capace di oppormi, né di fuggire.
    Sentivo di aver già lottato e perso la mia battaglia in quel triste gioco ch’è la sopravvivenza. Non potevo più credere che Sandy fosse un’amica, né una nemica: ognuna di quelle comode illusioni era morta assieme a una parte di me.
    Restava solo la mia natura di preda consapevole, che per sempre avrebbe atteso la sua bella, bellissima predatrice. Tanto bella e perfetta da non potersi cambiare, né possedere.
    Tanto da credere di amarla, d’essere spacciato e inerme, e certo che il mattino in cui l’avessi reincontrata, assopita al sole su una riva o celata tra i rami del suo ruscello, quel giorno, senza timore, avrei sorriso alla mia morte.


    FINE


     
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