Il bordo.

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  1. Esteban Scri
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    Ok, sì lo so, scusate, sono stato un po' assente. Continuerò anche ad esserlo, sto avendo una vita leggermente impegnata in questo periodo, tuttavia avrei voglia di condividere qualcosa col forum che beh, un po' mi manca, quindi per farmi perdonare per l'assenza carico questo racconto fresco fresco.

    Due premesse: vi sono alcune stranezze letterarie, sono volute. Tenetene conto in caso di correzioni spietate.

    L'ho riletto solo una volta, poiché volevo mantenerne l'immediatezza, potrebbero esserci degli errori, dato che ho terminato la stesura alle 3 di notte, in tal caso vi sarei grato se me li segnalaste.

    Grazie e, spero, buona lettura.




    Il bordo





    Guardo gli strani disegni che la pioggia intreccia sul vetro della finestra. Rifulgono appena, le leggere linee, della luce tremolante della lampada. Rifuggono veloci, come si susseguono i miei pensieri. Rifluiscono disordinate, sul bordo di legno del vecchio serramento, sospinte da un vento che, freddo, entra nella stanza e nelle ossa.
    Le sbarre alle finestre mi ricordano una prigione. Me la ricordano da quando, due anni fa, misi per la prima volta piede dentro all'ospedale psichiatrico. Non potei fare a meno di sentirmi un recluso, fissando quelle scure sbarre stagliarsi nel cielo bianco, anche se lì, per le prima volta, e furono le prime parole che sentii una volta messo piede nella struttura, mi dissero: “Cerca di essere distaccato, alcuni di loro non sono nemmeno più esseri umani, non più.”
    Da allora, più tentavo di convincermi che loro non fossero umani, più a disumanizzarmi ero io, fintanto che arrivai a chiedermi se ancora sangue scorresse nelle mie vene, e non vapore, poiché forse ero diventato una macchina.
    Sento suonare la sirena delle nove. Ora le luci sono proibite al di fuori delle stanze del personale.
    Sarà meglio che spenga.

    Mi rigiro nel letto, quando il buio cancella le forme della realtà sono quelle dei ricordi a invadermi. Mi sento penetrato, violato, e vorrei piangere. Scrivine, ti farà bene, fa sempre bene. I medici lo dicevano a quelli tormentati. Spesso. Mi calo anch'io nelle vesti di un paziente e provo ad ascoltare quel consiglio. La tuta azzurra l'ho già tolta. Non sono l'infermiere ora, non riesco nemmeno a vedermici, non sono comunque più umano di quelli a cui porto le pasticche colorate.
    Bevo un sorso dalla fiaschetta che nascondo sotto al letto. Ormai sono solo più poche gocce. Intingo il calamaio.

    Era la stanza sedici del secondo piano. Era occupata già da due anni quando la notai per la prima volta. Eppure era sempre stata lì, tra la quindici e la diciassette. Mai mi avevano incaricato di portarvi una medicina, per chissà quale caso, e a passarvi innanzi mi era sempre stata tanto anonima da non meritare attenzione più di quanta ne concederei ad una qualsiasi stanza tra una e un'altra qualsiasi.
    Allora non so perché ci prestai tanto caso. Forse quella minuscola macchia di sangue. Era scura e incrostata, appena percepibile, sul bianco consumato di quella porta. Non significava nulla se non la negligenza di qualche inserviente. O forse significava tutto. Non lo so.
    Posai il vassoio, mi guardai intorno per accertarmi di essere solo, e con un gesto silenzioso lasciai scorrere lo spioncino. Sedeva in un angolo, avvolta in quella veste che avevano tutti, che aveva l'aria più d'un sacco di iuta che d'una camicia. Fissava la finestra, goccioline d'acqua che formavano strani intrecci.
    I suoi capelli erano biondi come i campi di grano della mia infanzia, lunghi come nessuna li avrebbe mai portati. Il suo volto era nascosto appena, ma sapevo che doveva essere bellissimo. Sui suoi polsi, appena scoperti, rilucevano delle lunghe cicatrici biancastre, simili a vermi. Le sue mani si muovevano appena, sfiorandole come le corde di un'arpa.
    Accanto alla porta c'era il nome della paziente. Clara. Si chiamava Clara.

    Per tutto il mese successivo eseguii quella danza i cui passi avevo inventato quel giorno. Controllavo di essere solo e facevo scorrere lo spioncino. Ogni giorno sedeva sul letto, con le gambe strette al petto, e fissava la finestra. I suoi occhi erano colmi di malinconia, ogni giorno le sue mani danzavano su quelle cicatrici. Immaginavo la musica che le sue dita producevano. Quei segni lunghi e sottili, come corde d'un liuto, vibravano. Ogni giorno fissavo il suo nome finché la forma delle lettere non perdeva significato. Clara.
    Sedici. Accarezzai tanto quel numero, in rilievo, che penetrò nelle mie dita. Clara. Sedici.

    La sua immagine iniziò a tormentarmi nel sonno. Era vicina, la vedevo, mi avvicinavo e le parlavo, anche se la mattina mai ricordavo che suono potesse aver avuto la sua voce o quale parola potesse aver proferito.
    Dormivo nelle celle del personale. Non tutti lo facevano, ma abitando fuori città per me era più comodo restare a dormire. Eppure, più mi affezionavo a quell'immagine di Clara che mi stavo lentamente costruendo nella mente, meno mi sentivo lontano dalle persone che ogni giorno assistevo.
    C'era il signor Rally, che credeva di essere Napoleone. “Ce n'è sempre uno che crede di essere Napoleone” aveva riso il ragazzo che mi aveva istruito ai miei compiti, i primi giorni.
    C'era la signora Fitzgerald. Lei pregava continuamente ad altissima voce, ma ogni giorno un Dio diverso. E talvolta anche diversi Dèi. Insegnava religione, una volta. Ora insegna a noi infermieri, ma in un modo più profondo, quale sia il significato di essere umani, quando non ci resta più nulla cui aggrapparci se non la fede.
    La mia preferita è Laverne. E' una donna dolcissima e premurosa. E' convinta di essere la madre di chiunque abbia davanti. A volte, quando nessuno ci vede, lascio che mi abbracci. Sospetto di non essere l'unico che lasci che lo faccia. La fa stare bene. Ha perso i figli in guerra, e sospetto che lo sappia. Ma forse lascia che la sua follia fluisca libera. Grazie a lei mi sono spesso chiesto se un mondo fasullo, purché piacevole, sia davvero peggiore di una realtà univoca ma orribile.
    “E' un lavoro che ti manda fuori di testa” scherza sempre Mike. E' la sua battuta preferita, io inorridisco ogni volta che la pronuncia. Di solito lo dice ad alta voce quando Jeremy è nelle vicinanze, e Jeremy sorride.
    Jeremy ha poco più della mia età, ed è convinto di lavorare qui, non di essere un paziente. Noi gli diamo corda, anche se i dottori non lo sanno. Povero Jeremy.
    I dottori sono un altro mondo. Non li conosco, non ci parlo più di quanto serva. Sono spesso nascosti dietro il riflesso bianco di occhiali spessi e grandi. Io, come gli altri infermieri, siamo gli stercorari della loro esistenza, valiamo meno di nulla e teniamo in ordine i loro escrementi.
    I folli erano la mia famiglia molto più di quanto potessero essere loro, e con questo pensiero, che presagiva solo conclusioni nefaste, scivolavo ogni notte nel sonno.

    Più proseguivo nei dolci pensieri della follia, meno me ne spaventavo, fino a sentirmi come il protagonista d'un romanzo psicologico il cui climax giunge quando si scopre accidentalmente ch'egli era folle fin dall'inizio.
    Continuai a lavorare come se nulla fosse, diligente, celermente, umilmente. Nascondendo il turbamento dei miei pensieri e della mia anima. Clara ospitò il mio sguardo per giorni ancora, settimane, mesi. Era sempre lì, tranquillizzante, con le ginocchia al petto e le mani sulle corde del liuto dei suoi tagli. Il suo corpo parlava al posto suo dei problemi che doveva aver vissuto. Era magra e secca, come le fronde alte d'un albero morente, e il pallore della sua pelle parlava degli ultimi giorni lontani in cui i raggi del sole l'avean accarezzata. Sole che mi scoprii ad invidiare.
    Quando chiudevo lo spioncino, ogni volta mi chiedevo se potesse avermi visto. Lo temevo e lo speravo: così avrei potuto vedere chiaramente quel volto. Forse avrei persino ricevuto una parola, udito quella voce che appariva nei miei sogni, ma non ricordavo mai l'indomani.
    La razionalità che da sempre aveva contraddistinto la mia persona lentamente annegava nelle lacrime che reprimevo. Io, figlio di borghesi benestanti, dalla carriera studentesca irreprensibile, macchiata solo a margine di note di merito. Io, proprio io, mi perdevo in mezzo all'irrazionale e folle brama di follia stessa. E io, che mai avevo amato, mi scoprii a chiedermi se l'amore avesse davvero l'aspetto di quanto ne vergava il calamo di poeti e narratori, i cui scritti s'innalzavano a dogmi del sentimento.

    Alzo la penna dalla carta. Il suono tagliente della lama nera che si stacca con violenza dalla superficie mi ferisce le orecchie. La pioggia batte alle finestre e la luce giallastra della lampadina, dal suono appena vibrante, getta ombre danzanti sulla mia mano dalle spesse vene violacee. Mi scopro senza fiato, e traggo boccate avide d'aria stantia.

    Il 7 Settembre dell'anno successivo, Mike fu sospeso. Turbe psicologiche avevano detto. Questo lavoro rende matti, eh, Mike?
    Jeremy lo pianse a lungo.
    Ironico. Il folle che piange del suo schernitore, divenuto folle a sua volta. Ma non era difficile intenderlo. Jeremy era innamorato di Mike. In un'assurda sindrome di Stoccolma involontaria egli lo amava, e il rendermene conto mi fece male, più di quanto avrebbe il sentimento di un pazzo dovuto, mentre con tiepido entusiasmo i compiti che erano stati di Mike venivano ripartiti dal direttore del personale.
    Sedici. Inchiostro nero, appena rilucente sotto al mio nome e accanto al nome del medico curante. Sedici. Autolesionismo, bulimia. Sedici. Di anni venti, genitori deceduti. Clara. Lieve schizofrenia. Sedici. Il mondo s'arrestò d'un istante, e per inerzia il mio cuore sfondò il petto e proseguì il suo cammino.
    La lingua tagliente di Mike mai aveva proferito parole riguardo la silenziosa abitante della sedicesima stanza del secondo piano. Non so in effetti perché avrebbe dovuto, è forse solo il senno di poi a impormi un ago di fastidio dietro alla nuca, eppure nemmeno io bramavo quel contatto abbastanza da informarmi su chi potesse aver accesso a quella paziente. Che la temessi? Come il lato più oscuro di me, qualcosa di nero e denso e appiccicoso, che una volta avvicinatomi troppo m'avrebbe ghermito e trascinato nel buio del nulla?
    Quella sera accettai il lungo abbraccio di Laverne, silenziosamente, senza distaccarmi dalla sua mole mastodontica. Mi accarezzava il capo, e mi faceva sentire protetto. Il freddo distacco dei sani mi lacerava l'epidermide, affilato come una lama di gelo invernale, mentre il caldo tepore dei folli la sanava.
    Quella sera non dormii turbato. Il giorno dopo avrei parlato con Clara. E non lo sapevo, ma con quel gesto avrei perduto per sempre la mia anima.

    Fu la prima volta che non dovetti guardarmi attorno, mentre lasciavo che lo spioncino tanto noto scivolasse tra le mie dita. Clara si teneva le gambe al petto, come sempre, e come sempre suonava il liuto della sua sofferenza. Portavo con me abbastanza psicofarmaci per abbattere un pachiderma. Erano anni ormai che il medico che aveva Clara in cura non tentava altre terapie. Solo psicofarmaci, tanti da mantenerla in uno stato di torpore sufficiente perché non perpetrasse l'autolesionismo.
    Fino a due giorni prima era stato Mike a penetrare la porta di quella stanza, di quel piccolo mondo, e quando lo feci io, con passo sicuro solo per finta, quel giorno, mi sentii sporco e viscido come un assassino. Con quel singolo passo io la stupravo nell'animo. Scivolavo dentro a quel bozzolo protettivo senza alcun rispetto, frantumando un ulteriore pezzo della mia umanità.
    Quando le fui vicino, e solo allora, mi ricordai di respirare. Clara non si mosse: continuava a fissare fuori dalla finestra, come se qualcosa la stesse ipnotizzando. Le sue mani bianche e macchiate si muovevano regolari avanti e indietro. I suoi capelli sapevano di muffa, ma non vi badai. La traccia della bellezza che doveva aver posseduto quel viso un tempo mi commosse e mi distrusse. Gettai i farmaci nel gabinetto e scappai senza voltarmi. Quel contatto tanto fugace era stato tanto repentino da scuotermi. Poteva veramente esistere un Dio in grado di compiere un tale abominio? In grado di distruggere, noncurante, una delle sue creazioni più belle?
    Lontana, la signora Fitzgerald, rivolgeva un'omelia implorante al Dio degli arabi. L'ironia mi infastidì a tal punto che mi gettai fuori dall'uscita antincendio. Il suono dei miei passi della struttura metallica, l'inevitabile vertigine che ne seguii, mi riportarono alla lucidità.

    I giorni passarono, e una nuova routine si impadronì della mia mente.
    Ogni giorno, tra uno dei miei assistiti e l'altro, portavo a Clara il pranzo e la cena, e ogni volta, poco dopo aver gettato nel gabinetto le sue medicine la fissavo, chiedendole silenziosamente, implorante, di tornare in questo mondo. Volevo parlarle. Volevo sapere, volevo conoscere e capire cosa in lei mi potesse spaventare e attrarre tanto. Dovevo capire se avrei fatto la fine di Mike, ma soprattutto, dovevo capire se mi sarebbe dispiaciuto. Ecco cosa mi terrorizzava di lei.
    Sospirai per l'ennesima volta, mentre le posavo il capo su una spalla ossuta. Una lacrima mi scivolò dalla punta del naso, senza che riuscii a contenerla, e mentre guardavo la macchiolina scura allargarsi sopra il vestito di Clara, mi resi conto che le sue mani non si stavano più muovendo da quasi dieci minuti.

    Mi devo fermare, non ce la faccio. La penna mi ferisce le mani, tanto che le setole della piuma sembrano aghi roventi che mi si conficcano nella carne, negli occhi e nel cuore. Il codardo che alberga in me vuole gettare tutto alla fiamme, vorrebbe poter gettare alle fiamme la sua memoria e la sofferenza che con essa giace.
    Getto la penna lontano, mi alzo di scatto, lasciando che la sedia, su cui fino ad un secondo prima ero seduto, cada al suolo con uno schiocco secco.
    Ha smesso di piovere. Mi accascio contro il muro e scivolo fino a essere in ginocchio. La fredda parete appoggiata sulla mia fronte, il duro pavimento sotto le mie ginocchia. E sotto al mio viso la pioggia che ancora non è cessata.

    Ci volle un po' di tempo, inizialmente, prima che Clara riuscisse a mettermi a fuoco, ma io non le donai altro che sorrisi. Non avrei mai potuto sapere il momento preciso in cui la sua vista avrebbe smesso di vedere a sarebbe tornata a guardare, ma non potevo permettere che vi fosse altro ad accoglierla che non un mio sorriso. La mia Clara doveva vedermi sorridere, doveva veder sorridere colui che l'aveva riportata indietro.
    Era brava, era un'ottima attrice. Quando qualcun altro osservava lei si comportava come sempre, mentre quando era solo con me, e solo a me apparteneva, la sua anima tornava a brillare.
    Iniziammo a parlare e, seppur non la ricordassi, la sua voce appariva come nei miei sogni.
    Giorno per giorno ci aprimmo l'uno all'altro, fino a divenire un tutt'uno di esperienze condivise. Io accarezzavo i suoi polsi martoriati, riconoscendo chiaramente i calci di suo padre, la morte di sua madre, il fratello andato in guerra e mai tornato.
    Anche lei accarezzava le mie ferite, seppur non fossero visibili sul mio corpo, e giorno per giorno quel sentimento strano che per lei avevo provato, misto di compassione e timore, si definiva sempre più, trasformandosi nel chiaro amore dei romanzi sulle cui lettere avevo passato intere estati a studiare. Non le dissi che l'amavo. Non glielo dissi la prima settimana, né il primo mese. Continuai solo a gettare le sue medicine per parlarle una volta ancora.
    Dopo un mese presi anche l'abitudine di iniziare a girare per il manicomio di notte, solo per poter aprire lo spioncino e incrociare il suo sguardo.
    Quel suo sguardo era solo per me e per me solo. Era un pezzo di universo tutto mio, e più guardavo i suoi occhi, più loro mi urlavano grazie, come solo gli occhi di una prigioniera che viene liberata sanno ringraziare.

    Fui svegliato nel cuore della notte da urla strazianti e inumane. Scattai col petto gonfio d'angoscia, quando sentii quella voce maschile riverberare per tutto l'ospedale psichiatrico.
    Spaventato e trafelato, con indosso solo un paio di pantaloni, mi gettai giù dalle scale, e con me un altro paio di colleghi allarmatissimi. Non ci guardammo, come se nemmeno esistessimo, ma ognuno inseguì il suo allarme.
    Quando raggiungemmo il secondo piano – le stanze degli infermieri erano al quinto – l'urlo si era fatto ormai abominevole, tanto che doveva aver spaventato tutti i pazienti. Era Jeremy, ormai già immobilizzato al suolo. Aveva il corpo pieno di sangue, ma non si riusciva a distinguere chiaramente da che parte del corpo sgorgasse. I suoi urli strozzati presero le mie braccia e le staccarono con violenza dal busto. Era sempre stato un paziente tranquillo, e quella consapevolezza mi aveva aiutato a mantenere separati e razionali i due lati di me. Mi accasciai al suolo inerte, mentre gli altri infermieri scattavano, passandomi accanto come se nulla fosse. Appoggiai la fronte al suolo e cercai di chiudermi in me stesso. Jeremy urlava disperato il nome di Mike, e lo urlò ancora per qualche minuto, incrociò il mio sguardo più volte, sembrando implorarmi di qualcosa che non comprendevo, finché una siringa non brillò nell'aria, seguita da un urlo più rauco e sempre più stanco. Jeremy crollava, e la mia psiche con lui.

    Dopo l'incidente decisi di sospendere quegli incontri con Clara. Continuai a gettare le sue medicine, ma non mi fermai più a parlare, non mi fermai più ad ascoltarla. Tornai a temerla come la temevo all'inizio, come temevo quel lato di me che non comprendevo.
    Jeremy fu trasferito in un centro più severo, e tutti sapevamo cosa gli sarebbe successo. Ma tutti tacevamo. La grande macchia di sangue che aveva allargato sul pavimento quella notte era scomparsa celermente com'era apparsa.
    Mangiai con gli altri quella sera, alla mensa. Solitamente me ne stavo in disparte ma questa volta partecipai. Conversai, perfino. Del più e del meno, dell'esito della guerra, delle elezioni, delle minacce al nostro paese. Di sport perfino: di tutto pur di nemmeno sfiorare l'argomento follia o Mike o Jeremy. E forse per una volta nella vita mi stava bene.
    C'era un equilibrio delicato tra quelle due parti di me, ma più me ne rendevo conto, più comprendevo che solo il fatto di esserne consapevole spostava l'ago della bilancia: solo il caso del destino di esserne consapevole, di provare attrazione dal lato oscuro, ma rifuggirvi appena le ombre si annidavano.
    Ma non facevo lo stesso con l'altra parte di me? Non sfioravo con le dita la luce, per ritrarre la mano appena ne percepivo il calore?
    Dormii nuovamente in modo inquieto quella notte.

    Abbandonai velocemente le mie decisioni. Non resistetti per più di una settimana innanzi a Clara e alla sua recita.
    “Clara, ora basta” dissi, entrando di prepotenza nella stanza. Un medico mi stava guardando con occhi stralunati. Non importa, quello era il mio scopo, volevo che mi vedesse. “Devi dirlo che sei sana. Devi dirlo che non sei una pazza” Ma lei continuò a fingere di non vedermi, né sentirmi.
    Al contrario di quanto potessi pensare il medico non mi si scaraventò addosso. Con calma ripose gli occhiali nel taschino del camice, piegando una stanghetta per volta con lentezza esasperante.
    «Ville» mi disse, con una nota di commiserazione nella voce. «Ville basta.»
    Sì, lo riconobbi, Ville era il mio nome. Mi girai e lo guardai con occhi pieni di lacrime. “Lei non è...” provai a dire, ma le labbra mi tremavano troppo.
    «No Ville. Basta così. Sono passati vent'anni da quando si è suicidata. Devi accettarlo.»

    Ora che l'ho scritto me lo ricordo. Mi accascio sul pavimento, la penna rotola via, scivolando fuori dall'anello di luce della lampadina ronzante. La mia mente vaga. Abbandona questa stanza, si guarda attorno nell'ospedale psichiatrico deserto, ospedale che una volta aveva ospitato un ragazza bellissima, la cui vita solo gli psicofarmaci tenevano ancorata a questo mondo, psicofarmaci che io avevo deciso di sospendere. Ormai la stanza sedici è mia, come il ricordo di lei e di quel piccolo universo che era solo nostro, la cui porta era il bordo. E' mia da quasi vent'anni. Da quasi vent'anni su quella targhetta non c'è più scritto Clara, ma Mike Ville.
     
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    wow :woot: :woot: :woot: !!! è troppo forte questo racconto!

    l'ho letto tutto d'un fiato e... mamma sul finale sono rimasta del tipo: :linguacc: :linguacc: :linguacc: ma hai spaccato alla grande :D!!

    l'intero racconto è velato di una tristezzza incredibile :)

    mi è piaciuto davvero molto ;)

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    'avean

    piccolo refuso

    complimenti vivissimi!
     
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  3. Esteban Scri
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    Ti ringrazio per aver sfidato questo testo, ahimé forse un po' lungo perché tanti provino a leggerlo :)

    Sono molte felice ti sia piaciuto e che il finale ti abbia colpito

    *l'avean non è un refuso, ma una piccola licenza ;)

    Grazie di cuore!
     
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    è stato davvero un piacere ;)

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    ahimé forse un po' lungo perché tanti provino a leggerlo

    una volta lette le prime due parti una voglia mista di curiosità ti constringe a continuare :D

    ma però se il problema è della lunghezza, perchè non provi a dividere il racconto in due parti??
     
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  5. Esteban Scri
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    CITAZIONE (PÅvoneBiÅnco @ 13/11/2013, 16:01) 
    ma però se il problema è della lunghezza, perchè non provi a dividere il racconto in due parti??

    non mi piace molto dividere i racconti
     
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    non mi piace molto dividere i racconti

    i see :)

    una curiosità: il titolo. cosa ti ha portato a scegliere questo titolo?

    non che sia brutto, per carità. non te l'ho chiesto per criticare :)
     
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  7. Esteban Scri
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    CITAZIONE (PÅvoneBiÅnco @ 13/11/2013, 16:22) 
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    non mi piace molto dividere i racconti

    i see :)

    una curiosità: il titolo. cosa ti ha portato a scegliere questo titolo?

    non che sia brutto, per carità. non te l'ho chiesto per criticare :)

    Il titolo è sempre l'ultima cosa che scelgo nei racconti che scrivo. A volte è più semplice, altre più difficile. Questo è stato un caso difficile: mi ci è voluto un po' per giungere ad un titolo che mi soddisfacesse.

    Il protagonista, per tutto il racconto, pondera su quale sia il bordo tra follia e sanità mentale, e su quello stesso cammina. Allo stesso modo quel bordo è sottolineato dai paragrafi, che separano la narrazione scritta da quella narrata, ovvero la narrazione di un passato da "sano" contrapposta ad un presente da "folle" che sembra comunque meno folle del sé stesso di cui narra.
    Alla fine sottolineo con forza questo passaggio quando rivelo che il bordo non è altro che il confine che lo separa dalla stanza di Clara, la donna di cui si è innamorato, che alla fine ha ucciso, evento che lo ha trascinato dentro alla stanza 16, al di là del bordo, cioè nella follia.

    Spero di essere stato esauriente nella spiegazione :)
     
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    Il titolo è sempre l'ultima cosa che scelgo nei racconti che scrivo. A volte è più semplice, altre più difficile.

    per me invece è il contario :D se non ho un titolo ben preciso in testa non riesco a scrivere nulla!

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    Spero di essere stato esauriente nella spiegazione

    certo, chiarissimo ;)!!! capisco comunque che sia stata difficile la scelta del titolo...
     
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7 replies since 12/11/2013, 02:42   55 views
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