RACCONTI EDITATI.

[Contest: Dall'Argomento al Racconto]

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  1. Lucciolavagabonda
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    Se non ci riesce The Aster non ci riesce nessuno, men che meno io ;)
    L'altra volta era andato tutto bene, questa volta il link indirizza sul portale della Vodafone (???).
    L'unica è postarlo qui modificato a tua discrezione; se riterrò necessario fare ulteriori correzioni le sistemerò in un secondo tempo :)
     
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    Giovine scrittore della notte [Dany&Ler]

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    Risolto Aster, ho mandato tutto in privato a Lucciola, grazie per avermi segnalato la non visibilità del file. :)
     
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  3. Lucciolavagabonda
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    Dopo numerosi problemi, tecnici e no, ecco il racconti vincitore del 6° turno, "Mostri", di King Jackal, the Bloody Mad.

    "Non tutto il male vien per nuocere".
    Determinanti sono gli attimi di silenzio, quelli fugaci che ti lasciano privo di respiro, in bene o in male. Quelli che si rimembrano frattanto che l’abbraccio quotidiano di Morfeo, sotto le lenzuola dei nostri giacigli, ci coglie impreparati. Quelli che si raccontano ai nipoti, definendoli avventure o sfortune. Tra questi però, ve ne saranno alcuni che permarranno a tempo indeterminato nei pensieri. Quelli che, dinanzi ai nostri ultimi attimi, ci passeranno davanti agli occhi come se accadessero in quei medesimi momenti, contornati da quelle esalazioni povere, frutto della nostra fine.
    Una cosa che si scopre solo con l’esperienza è che non tutto il male vien per nuocere, non tutti i momenti brutti porteranno a conseguenze dannose. Non tutti.

    Il traffico giornaliero, la città in movimento, il rumore degli autobus che s’affrettano a raggiungere le proprie fermate in tempo… e io che corro per non lasciare sfuggire il mio. Una leggera pioggerella mi coglie senza ombrello, senza neanche avere il tempo di sfilarlo da dentro la giacca a vento, che svolazza, percossa dalle aeree correnti sospinte dal cielo poco rassicurante.
    Riesco a superare la folla e scorgo il pullman, che è già arrivato alla mia fermata. È lontano, ma posso raggiungerlo. Potrei farcela senza intoppi…
    Attraverso la strada di corsa, noncurante della furia degli automobilisti mattutini e, non so come, riesco a intravedere con la coda dell’occhio una Subaru color blu cobalto in arrivo a chissà quante miglia orarie, ancora con più negligenza di me, pronta a stirarmi. Sono sulla sua traiettoria, il cuore comincia a battere all’impazzata. Mi lancio in avanti, ma vengo colpito comunque. Di striscio, senza gravi danni, sulla coscia un taglietto si forma, rovinando i miei Jeans neri. Si ferma, inchiodando appena dietro l’autobus. Io a terra, comunque dolorante, cerco di voltarmi verso il cielo, mentre in strada le auto frenano per non investirmi.
    Scende qualcuno dall’auto; non riesco subito a inquadrarlo. Mi sento intontito, scevro di forze. Comincio poi lentamente a riprendermi, sedendomi sull’asfalto con la pioggia che ticchetta fastidiosa sul mio crine scuro. E’ un uomo, un bell’esemplare: capelli grigi, brizzolati, occhi chiari, viso squadrato, snello, alto. Veste elegante, completo scuro con cravatta sgargiante, gialla a righe bianche. Macina i metri che ci distanziano, con spavalda camminata, seppur mantenendo al suo arrivo un leggero divario fra noi. Sembra quasi che io gli faccia ribrezzo, a primo acchito… poi una mano mi vien posta. Altre genti si accalcano attorno a noi. Accetto l’aiuto, mi rialzo un po’ a fatica. Falsifico il dolore, lo rendo più grande alla vista. Singhiozzo un poco, tentando di fissare negli occhi il mio mattatore. Ha uno sguardo che mette soggezione: una pungente accoglienza, sensazione aliena a qualsiasi altra avessi provato sino a quel momento. Rimango per un attimo a fissarlo, con l’udito ovattato. Scuoto la testa, avvedendomi della sua espressione interrogativa.
    <allora? Come stai? Tutto bene?> domanda, con una voce a metà fra il rauco e il caldo. Nemmeno questa riesco a inquadrare. Difficilmente descrivibile. Strana.
    Batto le palpebre svariate volte, dapprima di rispondere: <beh, più o meno…>
    <dai, che non ti sei fatto niente!> esclama, dandomi una sonora pacca sulla spalla. La folla lo guarda male, per questo gesto; io pure.
    <facciamo così: vieni da me, domani sera; ora torna a casa, riposati, vai da tua moglie e dai tuoi figli, carezzali con fare paterno e stai con loro. Ho una proposta interessante per te, dato che ti ho provocato la mancata corrispondenza con l’autobus e tutto questo dolore>. Un sorriso smagliante, una dialettica e una parlantina fuori dal comune, la sua. Impossibile da discernere.
    Rovista nella sua oscura giacca, tirando fuori un biglietto da visita.
    <ecco qui. Dai vieni, ti do un passaggio.>, si offre, portandomi alla sua auto e facendomi entrare.
    Mi sento molto scosso e non ascolto particolarmente le tante parole che mi riserva, ma sembra che l’offerta proposta sia qualcosa di relativo a un lavoro. Mi fa scendere dinanzi al mio portone, nel quale entro subito dopo un cenno di saluto. Salgo a casa da mia moglie Dana e dai miei due figli, Dharma e Caleb.
    Spiego loro tutto, sia dell’incidente che dell’invito. Dana mi esorta a riposare, accudendomi tutta la giornata. Devo chiamare il mio capo, però. Lo fa lei al mio posto e, fortunatamente, sembra non esserci alcun problema se rimango a casa.
    Siamo una famiglia povera, che stenta ad arrivare alla fine del mese. Io che sono un operaio, mia moglie, una semplice casalinga, e i miei due figli, due piccoli. Caleb ha nove anni, Dharma cinque. Vado da loro, li carezzo sul capo, muovendo le dita fra i capelli, sorridendo. Il più grande mi chiede: <stai bene, Papà?>
    Io cerco di minimizzare, con un’espressione rassicurante: <sì, sto bene>. Guardo la bimba, le faccio l’occhiolino, lei si attacca alla mia gamba, quella sana, abbracciandola e piangendo. <non è successo nulla, su>, le dico, accarezzandole i capelli biondi. Dopo, vado verso il letto.
    Dharma mi disinfetta la ferita, mette una garza, mi dà un bacio. Mi infilo sotto le coperte, socchiudo gli occhi e, dopo non molto, m’addormento.

    Il tramonto. Il Sole s’accinge a calare, lasciando il posto alla sua amata Luna, tralasciando dietro di sé una leggera scia di calore che preannuncia l’epilogo estivo. La giornata è migliore della precedente, invece piovosa tutto il tempo. Le pozzanghere moltiplicate sull’asfalto riflettono i raggi ultravioletti che distendono arcobaleni su di esse. Maggiore pace, rispetto al caos del mattino.
    Il biglietto da visita reca una sigla, per me incomprensibile. Un indirizzo, scritto da lui. Le 23.00 in punto è l’orario d’incontro.
    Mia moglie è uscita dopo cena; mi ha lasciato un bigliettino con su scritto che andava ai giardini coi bimbi. Non è ancora tornata. Abbiamo un parco, accanto a casa, abbastanza tranquillo. Ci passo davanti mentre vado al rendez-vous: vuoto. Chissà, magari si è semplicemente spostata un attimo. In ogni caso, ho il telefono; mi chiamerà lì, se ci saranno problemi. Ne dubito.
    L’aria fresca della sera mi lambisce le guance, mi rende il naso rossastro sulla punta. Ammiro le architetture del centro città intanto che cammino, con le mani in tasca, pensieroso, a tratti teso.
    Sono una persona puntuale, dunque per le 22.50 mi ritrovo dinanzi al luogo prescelto per l’incontro. Suono, mi rispondono: < Sesto piano! >
    Esito un attimo, poi mi decido ed entro. Non prendo gli ascensori, li odio e ho sempre paura di rimanervi bloccato. Scelgo le scale, arrivo su, con un poco di fiatone; sono in forma, noto. La ferita non mi dà più pensieri: era davvero qualcosa di insignificante, come immaginavo.
    Busso; è aperto. M’addentro. Luce fioca, proveniente da un’altra stanza. Si sente un trambusto, un raccolto di voci che ridono, scherzano. Una riunione di famiglia?
    < È permesso?> domando.
    <aaaah! È arrivato!>, un seguito di risate e una voce che mi pare di aver già conosciuto. Mi perviene un rumore di passi, mentre permango sulla soglia.
    È lui, l’uomo del mattino precedente. Ancora il nome non lo so, sul biglietto c’era solo la sigla: “P.A.R.A.D.I.S.E. F.A.L.L.I.N.G.”. Pacchiana, ma priva di indizi che mi lasciassero presagire qualcosa, come l’appartenenza a qualche azienda del posto. Magari estera, o nuova; chissà.
    <puoi chiamarmi Amadeus>, mi fa l’occhiolino, prima di richiudere la porta dietro di sé e di accompagnarmi nella stanza leggermente illuminata. L’ingresso è tanto buio da non permettermi di vedere alcunché, vado a tentoni, accostandomi a lui.
    Ci sono svariate persone attorno a un tavolo imbandito di ogni prelibatezza. Vedo salumi, pollo, carni di ogni tipo ma nessuna verdura o frutta, fortunatamente. Sono un carnivoro convinto. Non ci sono vino e acqua; soltanto bibite gassate, alcolici.
    Mi offre una sedia, mentre saluto con qualche cenno i presenti, che conficcano i loro facoltosi bulbi sulla mia figura a loro estranea. Lui si pone all’estremo del grande tavolo ovale, presentandomi i suoi amici che hanno nomi che dimentico all’istante. Uomini, donne di tutte le età. Siamo tutti adulti, qui. Sorrisi falsi mi vengono rivolti, succinti e costruiti. Ammiccamenti di tutti i tipi mi sono posti e non ne comprendo il motivo. Quasi sembra mi vogliano comprare. Mi sento come un cane in un canile, che deve essere scelto. Deve mostrarsi il più bello, simpatico, dolce. Di compagnia.
    Non parlo. Non emetto fonema alcuno. Silenzioso, li scruto e cerco di imparare a conoscerli. Sono un tizio molto attento ai dettagli perché, se non facessi attenzione al lavoro, rischierei di perderci le mani; le macchine che uso sono fenomenali ma pericolosissime, a volte ingovernabili.
    <allora, Salem, dai al nostro ospite un pezzo di pollo arrosto! È davvero ottimo!>, esclama Amadeus, guardando dapprima codesto “Salem” e poi penetrandomi con le sue iridi ghiacciate.
    <sì, l’ho cucinato io!>, un’altra voce, squillante e decisamente fastidiosa mi trafuga i timpani, tamponandoli con cruda spietatezza: perviene da una donna sulla cinquantina, dagli arruffati capelli biondastri.
    Deglutisco, a disagio, frattanto che mi viene passato il pasto, che addento. E’ fantastico, davvero, come detto dal capotavola.
    <È vero; buonissimo.>, commento.
    Me ne offrono ancora uno, poi un pezzo di altra carne che par manzo e così via. Comincio a mangiare, con stramba foga, mentre il brizzolato inizia a spiegarmi il movente del suo invito: <allora, non conosciamo ancora il tuo nome, caro ragazzo>.
    Richiesta subito esaudita, con ancora un pezzo di carne fra i denti digrignanti, tento di rispondere:<mi chiamo Leon>, spero l’abbiano capito e così sembra, dato che nessuno mi domanda una replica.
    <come va la gamba?>, mi chiede, con fare preoccupato. Lo sembra davvero.
    <meglio. Infatti, volevo anche riferirle che…>
    Mi ferma subito, esclamando: <non mi dare del lei! Mi fai sentire vecchio! Dammi del tu!>, sorride, subito dopo, continuando a fissarmi. Tenta di legare, Amadeus.
    Cerco di continuare il mio discorso:<beh… dicevo: non voglio farti causa per l’incidente, sei stato comunque molto gentile, anche per l’invito >.
    Mi racchiudo in me, subito dopo, permanendo nella mia timidezza. Ascolto che ha da dire. Non mi sento molto a mio agio lì, seppur sembrino tutti molto accoglienti.
    <tranquillo, a quello ci pensiamo poi! Ti ho fatto venire qui per proporti di lavorare per la nostra azienda. Siamo una multinazionale e produciamo carne di tutti i tipi, rivendendola a tutto il mondo. Come modo per ricompensarti, pensavo fosse bello cominciare un rapporto lavorativo. Che ne dici? D’altronde non tutto il male vien per nuocere…>.
    Rimango a aperta. Una proposta eccezionale, che spiega il perché di tutta quella carne.
    <beh…non so che dire…è una cosa fantastica…non immaginavo una proposta del genere>, affermo, emozionato.
    Comincio a pensarci da subito, attivamente, con gli occhi che brillano di gioia, ma la mia attenzione scema poiché vorrei togliermi prima qualcosa dai denti, anche se non ho stuzzicadenti a portata. Ne ricerco uno con gli occhi. Poi, una chiamata interrompe la mia ricerca.
    <scusatemi, mi chiamano>.
    Mi alzo in piedi, vado nell’oscuro ingresso. Sento la voce di un uomo: <signor Chamber?>
    <sì, sono io. Chi è?>
    <sono il Tenente Kardash. Abbiamo ricevuto una chiamata un minuto fa che ci diceva che sua moglie e i suoi due bambini sono stati rapiti. Non ne sappiamo la provenienza ma…>
    <che cosa? COSA? Rapiti? Da chi? Quando è successo…?>, non so cosa chiedere, come chiederlo. Cosa dire, pensare. Di colpo, il mondo mi crolla addosso. Una gioia e, subito dopo, un problema di simile portata.
    <signor Chamber, abbiamo già cominciato a investigare. Non si preoccupi, li ritroveremo prima possibile. Stiamo setacciando tutto il luogo. Lei dov’è?>
    Ero senza parole. <io…? Sono a una cena di lavoro…>
    <mi dà l’indirizzo? Vorremmo farle alcune domande, tanto che ci siamo e, perlomeno, facciamo le ricerche assieme a lei>.
    <certo…>, non ricordo a memoria l’indirizzo, dunque torno nella stanza illuminata, cercando il biglietto da visita nella giacca. Non lo trovo. Nella tasca dove l’avevo messo non c’è. Cade la linea.
    <pronto? Pronto…?> Nessuno risponde.
    Provo a richiamare, senza successo. Sul telefono c’è scritto che non c’è campo. La tensione aumenta.
    <maledizione!> esclamo, alzando il capo e guardando i presenti.
    Subito in piedi Amadeus, mi prende dalle spalle e mi fa sedere.
    <siediti, su. Racconta che è successo.>
    <non ho tempo, perdonatemi, devo andare a casa, è successa una cosa brutta…scusatemi…> mi libero dalla morsa “accogliente” del brizzolato. Vado verso la porta. Non la vedo. Non c’è nessuna porta. Sono solo nel buio.
    <ehm…dov’è la porta…?> domando, senza ricevere la risposta.
    Torno indietro, per replicar loro, mentre la scena è rimasta la stessa di come l’avevo lasciata. Interdetto, li osservo impaurito.
    Mi osservano tutti, con uno sguardo serio e privo delle espressioni precedenti. Un brivido mi corre lungo la schiena.
    <siediti. Racconta.>, la voce è diversa, fende l’aria senza pietà alcuna.
    Sembrano degli automi e Amadeus par parlare proprio come una macchina, ponendo con la mano l’attenzione alla sedia.
    Capisco che c’è poco da fare. Racconterò loro velocemente, poi andrò a casa. Mi siedo.
    <mia moglie e… i miei due bambini…>, comincio a singhiozzare, con le lacrime che mi inumidiscono le guance: <…Sono stati…presi…rapiti…>, capo basso, sguardo rivolto sui piedi.
    <ti sbagli>. Tonante, la voce di Amadeus. <loro sono qui.>
    <qui dove?> domando, guardandomi attorno.
    <qui>. Punta il dito verso il mio sterno. Immagino parli del mio cuore, dunque abbozzo un sorriso di circostanza, commentando il gesto, quasi rassicurandomi da solo: <sì, certo…sono sempre nel mio cuore…>
    <non hai capito. Sono lì, nel tuo stomaco>. Occhi glaciali, i suoi. Lo guardo, poi vedo dove indica. Mi si chiude il ventre, d’improvviso. Probabilmente non ho sentito bene o non ho capito l’antifona.
    Mi precede, però: <hai capito bene. Erano la nostra cena. E tu li hai mangiati con noi, degustandoli in maniera non indifferente>. Un ghigno sorridente, crudo e malvagio si pone sul viso dell’avverso.
    <se è uno scherzo…è di cattivo gusto!>, gli urlo contro. <non avete rispetto di me e della mia famiglia a dire così!>. Con tutta la rabbia di cui sono capace mi alzo, tornando verso la porta, di corsa. Non voglio stare in quel posto un attimo di più.
    Corro di nuovo nell’anticamera, ma continuo a non trovare l’uscita, mentre un senso d’angoscia terrificante mi coglie impreparato, immerso nel buio. Tasto le superfici, i muri, cerco un interruttore: niente.
    <non c’è più. L’abbiamo nascosta.>, sempre la voce di Amadeus. Continuo a non capire. Nascosta? Perché mi prende in giro?
    <ditemi dove diavolo è la porta!>, urlo contro di lui, perdo la pazienza, seppur non sappia nemmeno più dove sia la stanza illuminata: è tutto oscuro, ora. La sua voce non proviene da nessuna direzione; oppure da tutte, come la seguente: <erano buoni, eh? L’hai detto tu stesso! Li ho cucinati a puntino! “Dharma, Caleb!” Questo urlava quella puttana! Ah ah!>, esclama la donna dai capelli biondi arruffati.
    <quella umana è la carne migliore>. Un’altra voce, maschile però.
    <il sangue, così genuino, così superbo…>. Ancora una femminile.
    <prima le ho strappato i capelli, alla tua Dana. Le ho conficcato una scopa in testa e ho cominciato a girare, tirandoli via uno a uno. Urlava, singhiozzava, come una capretta. Il piacere era sommo, nel vederla soffrire, pregare, chiedere pietà…>
    <la sua pelle, così candida…>
    <il bimbo era un po’ indigesto, in realtà. La sua carne non era così buona. Nutrito male?>
    <e la bimba invece? Deliziosa. Per sbaglio ho ingoiato pure un pezzo di stoffa azzurra, quella del suo fermacapelli…>
    Tutte queste voci. Non capisco nulla. Sembrano dire il vero.
    <vi ammazzo! Dove siete? VI AMMAZZO, avete sentito?>
    Sento delle unghie che si conficcano nel mio collo. Dolore, interno ed esterno. Paura. Angoscia. Un vortice di emozioni troppo forti; raggiungo il climax. Svengo.

    Mi sembra di risvegliarmi. Sono a tavola. Come lo sono gli altri. Tutti ridono, parlano ed è così… normale. Così ineccepibile, comprensibile. Mi sento così leggero, felice, sereno. Mai stato meglio. Mi sento a casa. Mi sento un altro. Rinnovato, cambiato. Risorto. Il fatto è che… non so il perché di quelle sensazioni, di quella calma. Di quella flemma sconsiderata e negligente. Animale, istintiva. Ricordo vagamente il trascorso dei miei familiari; non mi tange. Sembra tutto così quotidiano, ovvio.
    <leon! Raccontagli di quando hai mangiato quella carne arrosto! La sera che ti sei unito a noi! Non era ottima?>
    Prima di rispondere, sento un pezzo di qualcosa di mezzo le mie fauci. E’ morbido. Ce l’ho da un periodo interminabile. Lo artiglio, lo tiro fuori, con la mano destra. Lo guardo, come un predatore fa con la sua preda. Sembra un occhio. Lo è. Azzurra, l’iride. Dilatata, la retina. Ricorda quello di Dana. Bah, chi se ne importa. Lo rimetto in bocca, gustandone il liquido che ne esce. Non tutto il male vien per nuocere: la carne è eccezionale d’altronde, cotta perfettamente. Riprendo a tagliare quella candida e sanguinolenta nel mio piatto.
    Alzo lo sguardo, sorridente: <oh, sì: deliziosa>.

    Un ringraziamento speciale a JSTJart che ha fatto un lavoro superbo. :fiori:
     
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