La Stanza Grigia

Horror/Drammatico

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    "La Stanza Grigia" è il primo racconto (in ordine cronologico) della serie Zeitgeist Hotel. Ci sono vari collegamenti con altri racconti, ma può essere tranquillamente letto come un racconto indipendente.
    Se volere leggere l'altro racconto della saga, Scricchiolii, potete trovarlo qui http://hotelzeitgeist.wordpress.com/.

    Trama

    Inès e Gustav, reduci da una lunga crisi di coppia, decidono di passare un fine settimana di relax nello Zeitgeist Hotel, in occasione del compleanno di Gustav e della festa di celebrazione della fine del mondo che si svolge nel quinto piano dell'hotel.
    Inès ha organizzato tutto in ogni dettaglio perché tutto risultasse perfetto per il suo Gustav, ma i vecchi dissapori vengono a galla, vecchie conoscenze s'intromettono tra di loro e la loro relazione sembra sgretolarsi di nuovo tra le mura della "Suite degli innamorati".
    Quando la sera della festa la prima goccia di sangue viene versata, la tragedia diventa un'occasione di redenzione e la coppia sarà costretta confrontarsi con le loro paure, le loro insicurezze e risolvere i vecchi rancori, mentre la morte, giunta all'improvviso a rovinare ogni progetto, sembra intenzionata non voler proseguire il suo corso.

    Capitolo I


    Giovedì.

    «Non ti amo».
    «Dillo di nuovo», disse Inès con voce piatta e monotona.
    «Non ti amo».
    «Non mi ami? Non mi ami più?».
    «No, non ti amo e basta. Forse non ti ho mai amato. Tutto qua».
    Inès si sistemò gli occhiali da sole, s'inumidì le labbra e sfiorò con le dita l'angolo del copione poggiato sopra le sue ginocchia.
    «No, no, no», Gustav strinse il volante, facendo scricchiolare il cuoio sotto le dite.
    Spiò Inès con la coda dell'occhio, intenta ad aprire il copione e leggere la prossima battuta, «Ce la fai benissimo. Cerca di capire il personaggio».
    Inès levò il dito dal copione, si morse il labbro imbrattato di rossetto e gettò lo sguardo fuori dal finestrino.
    Poi, si rigirò di scatto. Il suo viso perse di espressione in un attimo, guardando dritto davanti a sé, come un automa.
    Scoppiò in un risata carica di sarcasmo, prese un bel respiro e disse:
    «È buffo. Ogni giorno, potevo guardarti negli occhi e dire con assoluta sicurezza che non mi amavi».
    Le sue spalle si sciolsero di colpo e si piegò leggermente in avanti, come liberandosi di un grosso peso, e sfoggiò un sorriso timido.
    Gustav rise con lei, guardando fisso la strada.
    «Visto che ce la fai tranquillamente?».
    «Mi ci devo abituare», rispose Inès con timidezza.
    «Ti ci abituerai. Allora, ti piace?».
    «È bello. Si, mi piace».
    «Più delle poesie?».
    Inès strinse le labbra, deglutì e piegò un angolino del copione.
    «È una cosa diversa...».
    «Si, è vero», rispose Gustav facendo su e giù con la testa e stringendo ulteriormente il volante, come se rischiasse di farselo scivolare dalle mani.
    Scostò i capelli umidicci di sudore dalla fronte. Le sue guance si erano arrossate durante il viaggio e brillavano di sudore.
    Calò il silenzio, riempito dalla musica di Celentano che usciva metallica e stridente dalle casse usurate della vecchia Panda.
    Inès sbuffò dal caldo, si terse la fronte madida con l'avambraccio e abbassò il finestrino. Inclinò il sedile, slacciandosi la cintura, lasciò cadere laconicamente la testa di lato e sporse un piede fuori dal finestrino.
    Si lasciò cullare dall'andamento saltellante della macchina, mentre l'aria le scompigliava i capelli corti e biondi, freschi di taglio.
    «È pericoloso così», disse Gustav cercando di tenere gli occhi fissi sulla strada.
    «Ti preoccupi tanto».
    «No, te lo dico, così...».
    «Mi piace la tua storia», disse interrompendolo, «Mi piace che racconti storie. Questa la sento molto, non vedo l'ora di interpretarla».
    Le guance di Gustav si fecero più rosse, forse per una naturale reazione a caldo, o per lo sforzo di trattenere il sorriso mantenere un'espressione neutra e disinteressata e mantenere intatta così l'umiltà dell'artista.
    «Davvero?».
    «Si», rispose Inès sorridendo e accarezzandogli il braccio.
    Avrebbe voluto dirle che anche le sue poesie raccontavano storie, che le aveva sempre raccontate, ma si trattenne. Si limitò ad afferrarle mano e stringerla nella sua, baciarla, tenendo sempre un occhio nervoso sulla strada, e accarezzarle le nocche con il pollice.
    Intanto la testa e il piede di Inès si muovevano ritmicamente a tempo di musica. Canticchiò le melodie a bocca chiusa, facendo vibrare le labbra dipinte di rosso accesso e canticchiò alcune parole di quelle canzoni troppo famose per non poterle conoscere.
    «Ma questo è sempre Celentano?», chiese.
    «Si, si, è tutta una cassettina che ho trovato nel portaoggetti tanto che ti preparavi. Ci sono tutti i successi dagli anni '50 agli anni '80. Meglio così».
    «Perché meglio così?
    «È il tempo del declino. Cioè, nonostante...»
    Inès odiava Celentano, così come si poteva odiare il razzismo, l'omofobia, la guerra, i fagiolini o i gatti, ma in quel momento, sulla strada per Castelchiasso, la cosa non aveva alcuna importanza e non ne avrebbe avuta per tutto il fine settimana, se il caso lo richiedeva.
    Questo perché Gustav amava Celentano, e lei amava Gustav più di ogni altra cosa.
    Tutto doveva essere perfetto per quei quattro giorni, dal clima alla musica. Se Gustav avesse voluto Celentano, allora così sarebbe stato, che le piacesse o meno.
    Gustav seguitò nel suo monologo sulla musica italiana degli anni '50, su cosa si era perso nel corso degli anni e cosa si era invece conservato in pochi artisti conosciuti giusto da Gustav e qualche suo contatto nella redazione della rivista musicale per cui, sporadicamente, scriveva qualche recensione, e intanto i campi e le fabbriche dietro i guardrail sfrecciavano riflessi sulle lenti nere degli occhiali di Inès.
    Era l'estate più calda degli ultimi trent'anni, secondo i telegiornali. Il sole restava fisso nel cielo, aggredendo con bordate di calore ogni cosa si trovasse sotto il suo raggio d'azione.
    Gustav continuava a guidare, tenendo gli occhi spalancati e fissi sulla strada come in preda a un eccesso di follia, asciugandosi nervosamente la fronte con il dorso nella mano ogni minuto, sbuffando e tirando il colletto della camicia.
    Inès gli buttò un'occhiata di tanto in tanto, reprimendo l'impulso di chiedergli perché non si togliesse la camicia, o perché non slacciasse almeno un altro bottone, ma era già sicura della risposta.
    Arrivati al casello, Gustav interruppe il suo monologo. Guardò Inès e sorridendo chiese:
    «Ti sto annoiando, questa roba non t'interessa, scusa».
    «No, non è vero, m'interessa invece, davvero».
    «Sicura?».
    «Si, si. Senti...».
    «Dimmi».
    «Se facessimo una sostina al bar, prima di trovare l'hotel? Non abbiamo ancora fatto colazione».
    Gustav aggrottò le sopracciglia e diede un occhio all'orologio.
    «Ma ce la facciamo? Ci stiamo dentro?».
    «Ma siii....», gli diede un leggero colpetto sul braccio, fece rotolare la testa verso il finestrino e si aggiustò gli occhiali, come una vera diva.
    Individuato il primo bar sulla strada, mise la freccia e girò.
    Scesero dalla macchina e Inès si strinse timidamente al suo braccio. Camminando con passo indeciso, cercando di sincronizzare le loro andature, Inès alzò la testa per guardarlo negli occhi, come per chiedergli il permesso di stringersi a lui.
    Gustav sorrise e la strinse a sé, appoggiandole la mano sulla spalla ossuta e le baciò la testa,riempiendo le narici dell'odore dolciastro del gel.
    Era diverso dai bar raffinati e ultra-chic in cui si trovavano a fare colazione. Era il baretto del paese, stretto ma accogliente, con una decina di clienti che si conoscevano e s'incontravano lì da anni, probabilmente da quando erano bambini.
    «Allora...», Gustav appoggiò le braccia al bancone e si guardò intorno, fingendosi indeciso su cosa prendere, «Due cappuccini e due perle al cioccolato, per favore».
    La signora dietro al bancone sorrise, fece un cenno con la testa e iniziò a preparare.
    «Ah, no, scusi...», disse Inès alzando il dito, «Per me un caffè al ginseng e una perla al latte».
    «Quindi due cappuccini, un caffè al ginseng, due perle al cioccolato e una al latte?».
    «No, un cappuccino, un ginseng, una conchiglia al cioccolato e una al latte».
    Il sorriso della barista si spense lentamente, annuì con fare severo e iniziò a preparare i cappuccini.
    Gustav la guardò incuriosito.
    «È da un po' che la faccio così la colazione», rispose Inès con un filo di voce.
    Presero i cappuccini e le paste e si sedettero a un tavolino vicino alla vetrata che dava sul paese. Per un breve tempo, rimasero in silenzio a guardare i passanti entrare e uscire dalle panetterie e dai tabacchini, i cagnolini e i bambini che, mano nella mano delle loro madri, andavano sconsolati verso la scuola. Si concentrarono sugli stessi elementi e sorrisero per le stesse cose. Un raro momento di empatia come non lo avevano da anni.
    «Oggi ho fatto un sogno stranissimo», disse Inès con la bocca piena.
    «Cioè?».
    «È un po' una cazzata».
    «Tu prova».
    Inès si schiarì la voce e prese un po' di tempo per riordinare le idee.
    «Allora, ero imprigionata nella torre di questo castello, ero vestita da principessa e tutto il resto...».
    Gustav sorrise appoggiandosi l'indice sul labbro, un gesto che fino a poco tempo prima Inès odiava quasi quanto Celentano.
    «Carino».
    «Si, ma aspetta. Con me c'erano quest'altro tizio, sembrava uno schiavo del medioevo...».
    «Tipo un servo della gleba».
    «Si. Cioè, forse no, era più uno schiavo... Vabbé, e poi c'era l'attore di quel film che abbiamo visto, quello sul milionario».
    «Quale?».
    «Quello... Quello dell'ultimo film che avevamo visto insieme...».
    L'aria si fece leggermente più pesante. Entrambi abbassarono la testa e guardarono imbarazzati i loro cappuccini. Inès si schiarì la voce e continuò come se niente fosse.
    «Comunque... dovevamo fuggire dalla torretta e non so perché devo tipo salvarti la vita».
    «Dovevi salvarmi la vita?»
    «Si, e...»
    «Ma non sei tu quella imprigionata?».
    «Si, boh, non lo so, era un sogno», rispose Inès con una leggera stizza.
    «Ok, ok, scusami».
    «No, va bé, tranquillo, scusami tu», strizzò un attimo gli occhi, ricordandosi la promessa che si era fatta tempo prima, quella che riguardava il “chiedere scusa per ogni cosa”, «Comunque... apriamo il portone e troviamo questa scala chiocciola. È assurdo perché ci sembra un ostacolo insormontabile e non sappiamo come scendere. Allora tutti e tre tiriamo fuori questi tappeti arabi, tipo quello di Aladdin, ci saliamo su e scendiamo scivolando sui tappeti».
    Gustav rimase un attimo interdetto. Poi, vedendo il sorriso di Inès sgretolarsi, sorrise e cominciò a ridacchiare di gusto, sorseggiando il cappuccino.
    «Era divertentissimo, ci divertivamo un sacco, e scendevamo giù velocissimo urlando e ridendo finché non arriviamo fino in fondo. Poi scendiamo dai tappeti, apriamo la porta e ti trovo lì, vestito da cavaliere e ti abbraccio».
    Inès prese un sorso di cappuccino, tagliò un pezzo di perla, la mangiò e si perse di nuovo oltre la vetrata.
    «E poi?», chiese Gustav sporgendosi verso di lei.
    «E poi niente, mi sono svegliata. Niente di che, ma mi sembrava divertente raccontarlo, si...».
    «È divertente, davvero», disse Gustav sorridendo di nuovo.
    «Va bé, era una cazzata, nient'altro, per ridere».
    Il chiasso nel bar si attenuò. Una vecchia signora asiatica, con il viso morbido e paffuto, entrò, trascinandosi dietro un sacco di plastica bianco pieno di cianfrusaglie. Sotto le ascelle stringeva copie imperfette di spade laser che pulsavano a intermittenza luci rosa e verdi. Camminava con passi piccoli e lenti, le labbra inarcate in un dolce sorriso che mostrava ai potenziali clienti, sporgendosi muta verso di loro per offrire la sua merce. Passò in rassegna tutta la sala caffè, finché non arrivò al tavolino di Inès e Gustav.
    Fece un leggero inchino e, premendo un sensore appiccicato al palmo della mano, mosse le orecchie da coniglio meccaniche che le spuntavano dai capelli lunghi e neri raccolti nella coda, scatenando i risolini di Inès.
    «No, grazie», disse Gustav agitando la mano, senza degnarle di uno sguardo.
    «Che cos'è quello?», chiese Inès indicando il sacco.
    La donna tirò fuori una piccola rana meccanica, l'appoggiò sul tavolo, azionò la piccola manovella che infilzava la costola della rana e fece un passo indietro.
    La rana si piegò verso il basso, prese slancio e fece una piroetta all'indietro e ripeté lo stesso numero per due o tre volte, fino a fermarsi a bordo del tavolo.
    Inès guardò la rana estasiata, unendo le mani e appoggiandole al mento. Si girò verso Gustav e chiese con voce infantile:
    «Me la compri?».
    Gustav guardò prima Inès e poi la donna.
    «Non lo so, io...».
    «Quanto viene?».
    La donna alzò alzò la mano e fece segno di “cinque” con le dita.
    «Facciamo due?», chiese Gustav.
    Scosse la testa sorridendo e replicò segnando “tre”.
    Inès voltò i grandi occhi verdi lucidi di felicità verso Gustav e piegò il labbro inferiore verso il basso, come una bambina triste.
    «Va bene», disse Gustav, sbuffando e infilando la mano nella tasca. Tirò fuori un mucchio di monetine, fece una rapida cernita, scartando le monete di valore più basso e le consegnò tre monete da un euro.
    La donna prese e i soldi e mosse le orecchie in segno di gratitudine. Poi, prese a fissare Inès con i suoi occhi scuri e carichi di dolcezza.
    «La sua ragazza è molto bella, signore», disse con un accento marcato, spostò lo sguardo verso Gustav e il suo sorriso si ampliò, «Lei è un uomo molto fortunato».
    «Si, è vero. Grazie», Gustav sembrò imbarazzato.
    Il sole si spostò e l'ombra si levò dal volto di Inès. I suoi occhi verdi s'illuminarono, la sua pelle sparì in un velo di luce, lasciando che a emergere fosse soltanto il rosso acceso delle sue labbra.
    Entrati nel bar, Gustav aveva visto gli uomini, i ragazzini, i netturbini, gli autisti sbadati voltarsi per contemplare Inès, spogliandosi di ogni vergogna ed educazione, senza nemmeno avere il pudore di levare lo sguardo quando incrociavano il suo o quello di Inès.
    Vedeva i loro occhi perdere ogni compostezza e le loro labbra schiudersi per la meraviglia. Poteva quasi sentire le loro bocche seccarsi e percepire la volgarità dei loro pensieri, delle loro fantasie.
    Forse era davvero un uomo fortunato.
    Guardò Inès immersa nella luce, allungò goffamente una mano verso di lei e le strinse il braccio.
    «Molto fortunato, davvero».
    Il sole si spostò di nuovo e l'ombra tornò a proteggerle il viso.
    Inès si liberò dolcemente dalla sua presa e gli strinse la mano, incanalando tutto il suo affetto in quella stretta, abbastanza forte da fargli schioccare un dito.
    Gustav le fece un cenno con la testa e attese che la donna si levasse di torno.
    «Che carina...», sussurrò Inès piegandosi verso di lui.
    «La rana?».
    «La signora, scemo», disse Inès ridendo, «Sentito che ha detto?».
    «Si».
    «Sei molto fortunato».
    «È vero», disse Gustav cercando di liberarsi dalla stretta di Inès. Tirò leggermente, ma lo sforzo produsse come unico risultato quella di aumentare la sua stretta e trascinarla in avanti verso di lui.
    «Lo sono anch'io».
    Si guardarono in silenzio, sorridendo uno negli occhi dell'altro.
    «Mi sei mancato».
    Gustav deglutì, si passò la lingua sulle labbra e con un leggero tremolio nella voce rispose:
    «Anche tu».
    «Ti amo».
    Un sopracciglio si alzò sopra gli occhi di Gustav, un movimento rapido, poco più che un riflesso, che fortunatamente sfuggì a Inès.
    «Anch'io, Inès. Anch'io ti amo».
    Gustav si liberò dalla presa e le prese la mano tra le sue. Le baciò le nocche e la guardò intensamente, sperando di trasmetterle tutto l'amore che poteva fingere in quel momento, perché sapeva che Inès lo amava più di ogni altra cosa.
     
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  2. rossellamexi
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    Niente male!!!
    Scritto bene, scorrevole e semplice, forse troppo dettagliato, comunque mi piace
     
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  3. Big jo
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    scorrevole al inizio, ma a tratti pesante, interessante la trama può dare molto. Però i personaggi non hanno personalità, spessore e contrasto. Praticamente identici, soprattutto nei dialoghi. Quello che ti voglio dire e che vorrei riuscire a riconoscere i personaggi senza che tu me li indichi, anche se si amano non devono per forza provare le stesse emozioni, nello stesso momento, diversificale. tutto si tratta di curare i dettagli, quando lo farai, mi piacerebbe continuare a leggere quello che scrivi, perché le tue idee sono molto buone.

    Edited by Big jo - 20/8/2013, 16:59
     
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    Ottimo pezzo. Io trovo invece che le personalità dei due si distinguano, emergano nel contrasto dei sentimenti: reso perfettamente.

    Ti segnalo solo l'eccessiva ripetizione del termine "copione" nella prima parte del testo, occorrerebbe trovare qualche termine alternativo.
     
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  5. Lucciolavagabonda
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    Scritto bene e senza dubbio interessante. :)

    Note:

    Il sì affermativo va scritto con l'accento (è un errore che si ripete, forse una svista).

    Dovresti stare attenta alle ripetizioni (questa è una mia mania, prendila come tale :)) :

    CITAZIONE
    Scostò i capelli umidicci di sudore dalla fronte. Le sue guance si erano arrossate durante il viaggio e brillavano di sudore.

    il primo "sudore" lo toglierei, tanto si capisce ugualmente.

    CITAZIONE
    Gustav continuava a guidare, tenendo gli occhi spalancati e fissi sulla strada come in preda a un eccesso di follia, asciugandosi nervosamente la fronte con il dorso nella mano ogni minuto, sbuffando e tirando il colletto della camicia.
    Inès gli buttò un'occhiata di tanto in tanto, reprimendo l'impulso di chiedergli perché non si togliesse la camicia, o perché non slacciasse almeno un altro bottone, ma era già sicura della risposta

    riferito alla camicia, nella seconda frase si può usare "perché non la togliesse".
     
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    CITAZIONE (Lucciolavagabonda @ 20/8/2013, 22:58) 
    Scritto bene e senza dubbio interessante. :)

    Note:

    Il sì affermativo va scritto con l'accento (è un errore che si ripete, forse una svista).

    Dovresti stare attenta alle ripetizioni (questa è una mia mania, prendila come tale :)) :

    CITAZIONE
    Scostò i capelli umidicci di sudore dalla fronte. Le sue guance si erano arrossate durante il viaggio e brillavano di sudore.

    il primo "sudore" lo toglierei, tanto si capisce ugualmente.

    CITAZIONE
    Gustav continuava a guidare, tenendo gli occhi spalancati e fissi sulla strada come in preda a un eccesso di follia, asciugandosi nervosamente la fronte con il dorso nella mano ogni minuto, sbuffando e tirando il colletto della camicia.
    Inès gli buttò un'occhiata di tanto in tanto, reprimendo l'impulso di chiedergli perché non si togliesse la camicia, o perché non slacciasse almeno un altro bottone, ma era già sicura della risposta

    riferito alla camicia, nella seconda frase si può usare "perché non la togliesse".

    grazie mille, poi nella versione definitiva l'aggiusto. Sono sempre sbadatissimo e le ripetizioni mi sfuggono continuamente (è una pecca enorme) ^_^
     
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    molto bello, e coinvolgente :D!!
    scritto veramente bene, senza troppi errori... molto bravo ;)

    attendo il seguito :D!!
     
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    grazie a tutti per i commenti e, soprattutto, per le segnalazioni di ripetizioni, sviste o riguardanti personaggi, trama, ecc...
    sono tutte critiche utili a rendere la versione definitiva perlomeno leggibile :)
    domani pubblico il secondo!
     
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    qui di seguito il secondo capitolo. Se trovate scomodo leggerlo sul forum, trovate il link per le versioni .pdf, .epub e .mobi sul forum :)

    http://hotelzeitgeist.wordpress.com/

    Capitolo II

    Il viaggio proseguì quasi nel silenzio, con le poche parole di Gustav evaporavano come sudore mentre il sonno pian piano s'impadroniva di Inès.
    Superata Parma, seguirono per Langhirano, per poi seguire le indicazioni per Castelchiasso.
    I palazzi e le fabbriche sparirono, i cartelli si fecero più vecchi e arrugginiti e la zona industriale sparì sommersa dalla campagna.
    Inès, con le ginocchia al mento e la testa inclinata contro il finestrino rovente, si perse a guardare i blocchi spighe dorate che fluttuavano spinte pigramente dal vento.
    Si passò una mano sulla nuca, quasi di nascosto, e lasciò che i piccoli e rigidi ciuffi di capelli cortissimi le solleticassero i polpastrelli, chiedendosi se a Gustav piacessero i suoi nuovi capelli, platinati e corti come quelli di un maschietto.
    Quando si era presentata col suo nuovo look dopo mesi di silenzio, si era limitato a un semplice “wow”, un bacio e una carezza.
    Ma lui era fatto così, non si scopriva troppo, non abbassava mai la guardia. Le emozioni lo plasmavano e lo trasformavano in un uomo ridicolo, almeno a detta sua. C'era un solo posto per le emozioni, e quella zona neutrale dove tutto gli era permesso, anche apparire ridicolo, era la carta.
    Adesso era lui quello con i capelli lunghi fino al collo, costretto a scostarli di tanto in tanto per il solletico.
    Inès provò a misurare il tempo che li aveva separati.
    Tre mesi, forse sei...
    Dopo che aveva deciso di andarsene, quando il suo amore si era totalmente esaurito, i giorni di Inès si sciolsero l'uno nell'altro, lasciandola immersa nella solitudine di muri bianchi del suo (“loro”...) bilocale in centro. Un unico, lungo pomeriggio in cui attendeva speranzosa il suo ritorno, in cui lui avrebbe aperto la porta sorridendo, abbracciandola e sussurrandole “ho fatto più in fretta che ho potuto...”.
    Si era sempre sentita così stupida ad immaginarsi quella scena, ma ormai faceva parte del passato, e quel giorno, nella strada verso lo Zeitgeist Hotel, intanto che le sue palpebre stanche si abbassavano lentamente, cullata dalle tenue vibrazioni della macchina, sorrise, sapendo che il loro presente stava ricominciando.

    Una forza invisibile spinse Inès contro il cruscotto. La cintura di sicurezza scattò in tempo e la gettò indietro contro lo schienale.
    Si guardò intorno confusa e assonnata. Ogni cosa pareva sbiadita, come vista dietro uno strato di cellophane, finché Gustav non tuonò una sonora bestemmia, strappandola dal suo torpore.
    «Non bestemmiare...», piagnucolò Inès, stropicciandosi un occhio con una mano e accarezzandosi l'abrasione sul petto provocata dalla cintura con l'altra.
    Gustav la guardò attonito, come se fosse appena spuntata fuori dal nulla.
    Si passò una mano sulla fronte e si appoggiò al schienale, cercando di riordinare le idee.
    «È colpa di 'sti stronzi», ringhiò scattando in avanti e indicando davanti a sé con la mano tesa.
    Una lunga fila di macchine si estendeva davanti a loro lungo la stretta strada sterrata che portava verso l'hotel.
    Gustav prese a pestare il clacson in piena crisi compulsiva, imprecando e bestemmiando con tutto il fiato che aveva in corpo.
    «Smettila di bestemmiare!», strillò Inès tenendo le mani premute contro le orecchie.
    «Ma non si muovono!», urlò Gustav di rimando.
    «Guarda che mica ti sentono!».
    «Cos'è? Ti da fastidio?».
    «Sì, cazzo!» e finalmente calò il silenzio.
    Era abbastanza raro sentire Inès dire parolacce. Manteneva una media invidiabile di circa quattro o cinque “Cazzo” all'anno.
    Se la sua voce fragile e flebile come quella di una bambina articolava una parolaccia, poteva voler dire che la situazione cominciava a farsi delicata.
    Ci fu un attimo d'imbarazzo in cui Inès guardò giù come offesa dalle sue stesse parole.
    Gustav slacciò un bottone della camicia e si appoggiò di nuovo allo schienale.
    «La macchina è piccola e quando urli rimbomba tutto», riprese Inès con la voce sofferta e assonata, «anche il clacson è fastidioso».
    «Scusa», disse Gustav a voce bassa, quasi controvoglia.
    «Adesso vedrai che vanno avanti, aspetta un po'...».
    «Si, si. Va bene».
    Le macchine ripresero la loro marcia, come in una lunga e solenne processione.
    Intorno a loro vi era una completa desolazione marrone di campi arati, delimitati dai profondi fossati che li dividevano dalla strada.
    Proseguendo in coda alla fila di macchine, una macchia gialla e verde, leggermente distorta dal calore, spuntò dal fondo della strada.
    «È quello?», chiese Inès massaggiandosi gli occhi,
    «Speriamo», rispose Gustav seccato, poi buttò un occhio su Inès, si schiarì la voce e continuò con un tono di voce più cordiale, «Credo di si, comunque».
    La macchia si espanse e si allungò verso l'alto, i contorni si fecero più definiti e davanti ai loro occhi prese forma lo Zeitgeist Hotel.
    La strada terminava in un ampio cortile abbastanza esteso da fungere da parcheggio.
    La fila si frantumò e ciascuna autovettura si separò dalle altre in cerca di uno spazio dove parcheggiarsi.
    La Panda di Gustav attraversò il cortile e si piazzò nell'ultimo spazio disponibile sulla striscia d'erba che separava l'hotel dai campi.
    L'auto si spense, cigolando e sputacchiando il gas residuo, esausta dopo ore di viaggio in cui era stata spinta al massimo delle sue possibilità.
    Scesero dalla macchina, entrambi tenendo le mani premute dietro i fianchi, stiracchiandosi e allungandosi, lanciando al cielo mugolii di dolore e sollievo.
    Si piazzarono davanti la macchina, uno di fianco all'altra, e alzarono la testa in religiosa contemplazione.
    Presentandosi come una macchia gialla che si ergeva in mezzo al nulla dopo ore di viaggio, lo Zeitgeist Hotel appariva come un'oasi felice e accogliente. Mancava totalmente la sensazione di estraneità e alienazione che spesso può trasmette un hotel.
    Davanti i muri giallo ocra, avvolti da edere e rampicanti rigogliosi e curati che brillavano sotto il sole d'agosto, il vostro cuore si sarebbe riempito di una strana famigliarità domestica che ricondurreste alle case estive in montagna dove passavate il tempo ad annoiarvi in beatitudine con i vostri parenti.
    Le altre macchine intorno a loro si spensero contemporaneamente e le portiere cominciarono ad aprirsi e chiudersi intorno alla coppia.
    I passeggeri scesero. A nessuno di loro si sarebbe potuto dare più di 25 anni, a qualcuno nemmeno 18.
    Davanti a loro si parò una sfilata di facce morbide e lisce che non avevano mai incontrato una lametta in vita loro, mescolati in mezzo ad altri visi coperti da lunghe barbe da boscaiolo che arrivavano fino al petto, occhiali da sole dalle montature viola, rosse, verde acqua, rosa shocking o trasparenti, camice a scacchi e t-shirt con loghi di videogiochi, gruppi sconosciuti o bianche con slogan e disegni scritti con il pennarello indelebile.
    Autisti e passeggeri rimasero in piedi e silenziosi di fronte alle rispettive auto, poi si mossero insieme e si riunirono in unico blocco compatto davanti alle scale di marmo dell'hotel.
    Gustav li guardò affascinato. Si avvicinò a uno di loro, un ragazzo dalla carnagione scura e una maglietta raffigurante Albert Ayler.
    «Anche voi qua per la festa?», chiese sorridendo e tendendo la mano.
    Il ragazzo si levò gli occhiali, lo guardò con occhi vuoti e fece per parlare.
    «Youssef», urlò un ragazzo basso e biondo al centro del cerchio, «lascia stare. Non è uno di noi».
    Qualcosa si spezzò dentro Gustav. Il suo sorriso si sciolse, e solo dopo pensò a quanto doveva essere sembrato stupido con quel ghigno disgustato e affaticato dal caldo disegnato sulla faccia e la mano tesa in avanti che lo faceva assomigliare a un manichino scartato.
    Il ragazzo lo squadrò dalla testa ai piedi con aria disinteressata, si rimise gli occhiali e si unì agli altri che stavano entrando all'interno dell'hotel.
    Inès tornò con una grossa borsa sportiva grigia e un paio di valigie.
    «Fai amicizia?», chiese buttando giù le due valigie e sbuffando per la fatica.
    «No...», rispose Gustav calando lentamente il braccio, poi si accorse del carico che Inès aveva faticosamente trascinato fino a lì ,«potevo darti una mano».
    «Tranquillo, ce la faccio. Allora, ti piace?».
    Gustav volse nuovamente lo sguardo all'hotel.
    «Si. È carino. È rustico, diciamo».
    «Vedi che entro dopodomani sera non sembrerà tanto rustico», disse Inès guardandolo complice e tirando fuori la lingua.
    Gustav sorrise, prese il borsone e una valigia, le avvolse il braccio libero intorno alle spalle e, stretti l'uno all'altro, camminarono verso l'hotel, sempre cercando di sincronizzare le loro andature.

    Superata la porta-vetro all'entrata, si viene accolti dallo scintillante atrio dell'hotel.
    La luce del giorno s'infrangeva e rimbalzava in centinaia di raggi sottili attraverso il marmo rosa che ricopriva i muri e il pavimenti. L'aria era impregnata di un odore dolce e fragrante, come se l'atrio si ergesse solitario in mezzo a un campetto di margherite, con il cielo a fare da soffitto. Un tappeto d'archi accarezzava le orecchie dei clienti che entravano per il check-in, o che scendevano semplicemente per chiedere qualcosa alla reception.
    L'unica leggera imperfezione di questa elegante visione era l'impercettibile cigolio del lampadario che pendeva sopra le loro teste e, a detta di Inès, i divani e le poltroncine in pelle nera che riempivano la sala d'attesa a destra dell'entrata.
    «Sembra l'arredamento di un film porno», sussurrò Inès.
    «Hai una cultura in materia?».
    «Mio fratello aveva dei divani così in casa sua», rispose Inès rabbrividendo.
    Un lungo tappeto rosso portava verso la reception, composto da bancone e pannelli in mogano.
    Scaricarono la borsa e le valigie e cominciarono a guardarsi intorno in cerca di un responsabile.
    «Guarda», disse Inès indicando il campanellino sul bancone, «è come nei film».
    «Mai visto uno prima?».
    «No!».
    «Ma dai...», Gustav fece per alzare la mano e suonare il campanello ma Inès lo anticipò.
    Fece spallucce, tirò fuori la la punta della lingua e con tono infantile disse:
    «Volevo farlo io...».
    Dalla porta di fianco il pannello uscì il vecchio direttore dell'Hotel. Una figura lunga e sottile avvolta in un impeccabile abito nero, pochi capelli bianchi intorno alla pelata scintillante e maculata, il volto smunto e gli zigomi tanto sporgenti da reggere la pelle grigia e molliccia.
    Il vecchio li esaminò attraverso gli occhi azzurri, poi sorrise, mostrando i denti corti e le gengive scure. Appoggiò le mani lunghe e scheletriche sul bancone e cominciò a picchiettare il legno con le dita giallognole di nicotina.
    «Buongiorno», la sua voce era roca e le sue parole parevano ribollire nel catrame che gli riempiva i polmoni.
    «Buongiorno», risposero in coro.
    Dopo un breve silenzio imbarazzato, fu Gustav a rompere il ghiaccio.
    «Si, siamo Stahl e Fornari. Abbiamo prenotato per le 11».
    Il vecchio fece un cenno con la testa, tirò fuori un pesante registro in cuoio e lo buttò di peso sul bancone.
    Lo aprì, sfogliò un paio di pagine e fece scorrere l'unghia violacea grattando sulla superficie ruvida del foglio.
    «Ecco qui. Inès Fornari e Gustav Stahl. Stanza 417», staccò gli occhi dal registro e guardò i suoi clienti con sguardo ammiccante, «“la suite degli innamorati”».
    «La suite?», disse Gustav.
    «Si, la suite», rispose Inès dandogli un colpetto col gomito, «è bella la “Suite degli innamorati”?».
    «A dire il vero tutto il piano lo chiamiamo “degli innamorati”. Il caso vuole che le coppie prenotino sempre le stanze dalla 400 in su per le vacanze, o altri eventi..», alzò le sopracciglia, ammiccando e e sorridendo con fare famelico.
    Il suo sguardo si fermò su Inès. Le sue iridi erano di un azzurro chiaro, freddo e insensibile, in mezzo alle orbite bianche e lattiginose. Inès sentì un brivido percorrerle la schiena.
    «Inès Fornari... Inès Fornari... Il suo nome non mi è nuovo, signorina, così come il suo viso».
    Le guance di Inès si colorarono di rosso, piegò la testa, cercando di nascondere il sorriso che le si stava lentamente allungando sul viso.
    «Lei lavora in tv, signorina?», chiese il receptionist.
    «Una volta, si, ma adesso inizio con il teatro. Forse non mi vedrà in tv per un po'».
    Gustav tirò fuori il suo sorriso migliore, quello del fidanzato fiero dei successi della sua ragazza.
    «Si, faceva quella fiction... aspetti era...».
    «”Scampia”», suggerì Gustav in un' espressione di disgusto mal celato. Inès gli gettò un occhiata e annuì come se niente fosse.
    «Esatto. “Scampia”, si, lo seguo ogni sera».
    «Ah, è un ammiratore», disse Inès cercando di trattenere l'entusiasmo.
    «No, no. Non direi proprio. La televisione prende solo sulla RAI e il mio lavoro non mi concede ulteriori svaghi. Sa, la vita, poi, è troppo breve per leggere. Non mi piacerebbe morire lasciando una storia a metà».
    Le ultime parole gli morirono in gola, distratto da un cliente che scendeva le scale a destra della reception.
    «Potreste scusarmi, per cortesia?».
    Fece il girò del bancone e andò zoppicando verso il cliente, arrivando giusto in tempo perché la sua figura non si riflettesse nel grosso specchio che occupava gran parte del muro della sala d'attesa. Messi così vicini, uno di fianco all'altro, sembravano quasi padre e figlio.
    Entrambi così alti e sottili, avvolti da abiti eleganti e scuri che li facevano sembrare ombre sghembe e sottili.
    L'ombra più vecchia afferrò le braccia di quelle più giovane e gli bisbigliò qualcosa a denti stretti, sotto gli occhi incuriositi (e offesi) dei suoi nuovi clienti.
    «Che stronzo...», bisbigliò Inès incrociando le braccia e sfoggiando il suo tipico broncio.
    «E va bé...».
    «Poteva dire che lo guardava e basta».
    «È un vecchio, che ti frega. Ormai non gliene frega più un cazzo, posso capirlo».
    Inès sbuffò di nuovo e si strinse nelle spalle.
    Videro il vecchio fare un passo indietro per allontanarsi dal ragazzo, premurandosi di coprirlo bene dallo specchio. Scosse la testa, sconsolato, e lo si sentì dire:
    «Va bene, va bene. Ma vai in camera adesso. Torna da lei vai».
    Il ragazzo tese le braccia e fece per ribattere, ma il vecchio lo interruppe puntandogli il dito contro.
    «Non mandare tutto a troie. È una cosa che non si può più cambiare. Tra un attimo ti mando Marcellino. Ora vai».
    Ciò che li colpì maggiormente fu la pelle del ragazzo: grigia, sottile e percorsa da vene sottili. Sembrava non godere del contatto del sole da anni, se non dalla nascita.
    Alla fine si arrese, voltò le spalle al vecchio e salì le scale con passo stanco e malinconico.
    Il vecchio si girò e zoppicò verso la reception. Girando intorno al bancone suonò il campanello e un ragazzino basso e tarchiato, con capelli ricci e rossastri uscì timidamente dalla stessa porticina dietro la reception.
    Il vecchio tirò fuori una pila di riviste da sotto il bancone e la cedette al ragazzo.
    «Stanza 310. Subito», il bambino prese la pila tra le braccia grasse e corse con passi piccoli e incerti su per le scale.
    Inès si alzò in punta di piedi per spiare le riviste, lancio un verso acuto e arrossì.
    Senza degnare di uno sguardo i suoi nuovi clienti, il vecchio prese una chiave dal tabellone e l'appoggiò sul bancone.
    «Ecco la chiave. Stanza 417. La colazione è dalle 8 alle 10 e verrà servita all'italiana, quindi caffè, te, cappuccini, marmellata, pane e paste», disse tornando alla sua voce cortese e professionale.
    «Perfetto», risposero all'unisono.
    «Vi augurò buona permanenza e non esitate a contattare la reception per qualunque bisogno».
    «Certamente», rispose Inès guardandolo con imbarazzo dritto negli occhi, «grazie di tutto».
    «Grazie a voi», rispose il vecchio con un calore e una gratitudine sincera, quasi da fargli diventare gli occhi lucidi.
    Caricarono i loro bagagli e salirono le scale.

    La magia dell'atrio svaniva man mano che si salivano le scale. Dopo una prima rampa di scale, il legno gonfio di umidità sostituiva il marmo lucido.
    Gli scalini scricchiolavano a ogni passo, carichi del peso di Inès, Gustav e dei loro bagagli.
    «Hai visto quella roba?», chiese Inès.
    «Quale..?».
    «Le riviste, quelle che ha fatto portare al ragazzino».
    «E quindi?», rispose Gustav digrignando i denti per la fatica.
    «Erano... porno...».
    «E allora?».
    «E allora che schifo, no?».
    «Non mi sconvolge tanto la cosa».
    «Ma perché sei un maschietto».
    «La pornografia è negli occhi di chi guarda».
    «Va bé...»
    Gustav faticava scalino dopo scalino e le sue guance si fecero nuovamente umide e paonazze.
    «Dai, faccio io...», disse Inès prendendogli di mano la valigia.
    «No, ce la faccio...».
    «Ma no, dai», gli strappò la valigia dalle mani. Gustav gliela lasciò controvoglia.
    I muri di ciascun piano erano ricoperti da una carta da parati macchiata di unto e fuliggine che al momento dell'acquisto dovevano essere di un morbido color crema.
    Il pavimento era tutto in legno scuro, vecchio e roso dalle tarme, così come le porte che sembravano esplodere da un momento all'altro.
    Arrivati al quarto piano, cominciarono a girare, in cerca della loro stanza.
    La targhetta in oro opaco su cui era inciso il numero 417 era graffiato e arrugginito.
    Si guardarono per un attimo, ciascuno studiando lo sguardo preoccupato e insicuro dell'altro.
    «Allora, entriamo?».
    Inès abbozzò un sorriso e annuì debolmente.
    «Entriamo?».


    Quando Gustav e Inès entrarono nella stanza 417, il vecchio receptionist stava ancora dietro al bancone a fissare i campi bruciati dal sole oltre la porta-vetro dell'ingresso.
    Le sue labbra sottili erano tese in un sorriso beato che gli increspava la faccia rigata da rughe profonde, rapito dalla bellezza del mondo esterno.
    Il ragazzino scese giù grondante di sudore, con le pezze di sudore scuro a macchiarli la maglietta bianca.
    «Ho fatto, signor Inzani».
    I suoi piccoli occhi blu girarono lentamente verso il ragazzo, senza mutare la sua espressione.
    «Hai portato tutto nella stanza 310?».
    «Si, signore».
    «C'è qualcosa che ti turba, Marcellino? Hai visto qualcosa che non ti piace lì dentro?».
    Marcellino guardò in basso, a destra e a sinistra, ovunque non potesse incrociare lo sguardo del signor Inzani.
    «Non ti preoccupare, Marcellino, entro lunedì non ci sarà più niente».
    «Perché...».
    Marcellino cercò di misurare il peso delle sue parole. Il signor Inzani alzò le sopracciglia, il suo sorriso si allargò e con un cenno della testa lo invitò a proseguire.
    «Perché il mondo finirà?».
    Il vecchio rise di gusto, intenerito dalla domanda innocente del ragazzo.
    «No, Marcellino, il mondo non finirà, che assurdità. Sei un ragazzino operoso, ma anche tanto stupido, ma hai tempo per redimerti, non preoccuparti».
    I suoi occhi tornarono ai campi e sorrise.
    «Tu hai tempo per redimerti... tu hai tempo...».
    Marcellino guardò il vecchio con aria colpevole, con una sola domanda che gli premeva nelle labbra.
    «Si, Marcellino... Puoi andare», lo anticipò il vecchio.
    «Non ha più bisogno, allora?».
    «No», rispose il vecchio come liberandosi di un doloroso fardello.
    «Va bene, signore. A lunedì».
    Il signor Inzani avrebbe voluto sussurrare un altro “No” altrettanto liberatorio, ma temette di inondare le sue rughe con lacrime di gioia.
    «Si, Marcellino. Certo».
    Marcellino se ne andò, lasciando il vecchio nella sua serenità. Sugli scalini incrociò un uomo alto e robusto, con una camicia bianca e stretta che gli evidenziava i muscoli scolpiti.
    Con una mano tenne aperta la porta per il ragazzo, mentre con l'altra reggeva una lunga custodia nera.
    Attraversò il corridoio, guardando con decisione verso il Signor Inzani.
    Il vecchio sfogliò un'altra pagina del registro che aveva volontariamente lasciato aperto, in attesa del suo ultimo cliente.
    «Buongiorno», disse l'uomo.
    «Buongiorno».
    «Sono Damiani, Lorenzo Damiani, ho prenotato per mezzogiorno».
    «La stavamo aspettando. Lei è l'ultimo cliente della giornata».
     
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    Capitolo III

    III

    La suite era molto meglio di quanto l'arredamento e lo stato generale del resto dell'hotel lasciassero presagire.
    Si scoprì che più che una suite, quello che avevano prenotato era un appartamentino, puro e semplice, con stanze varie e tantissimo spazio per muoversi.
    Una volta chiusa alle proprie spalle la porta della 417, la prima stanza in cui si viene accolti e la sala da pranzo, con il suo lungo tavolo in mogano che sembrava emergere dal legno scuro del parquet, così come il camino in pietra che si ergeva a destra della sala.
    Tutto appariva radioso e accogliente, nonostante la luce filtrasse fredda e cruda attraverso le tendine bianche leggermente ingiallite.
    In fondo alla stanza, ricavata in un piccolo angolo, c'era una piccola porta ad arco che collegava la sala da pranzo alla cucina di pochi metri quadrati, con fornello e lavandino in metallo.
    Inès gettò i bagagli a terra e corse urlando attraverso la sala e si fermò di colpo sulla soglia della cucina, come trovatasi di sorpresa sul ciglio di un burrone. Tornò indietro saltellando e spiccò un ultimo balzo verso Gustav, cingendogli le braccia intorno al collo.
    «È bello qui, vero? Ti piace?», disse Inès senza prendere fiato tra una parola e l'altra.
    «Si, mi piace. È.. È grande. Si, mi piace, tanto».
    «Si, si, si! Bello vero? Neanche io me l'aspettavo così, è un po' diverso dalla brochure, ma...».
    «Ma...», Gustav passò in rassegna la sala, fissando preoccupato il lampadario di cristallo che pendeva sopra il tavolo da pranzo, una copia esatta di quello che avevano trovato nell'atrio, «Ma noi ce lo possiamo permettere, vero?».
    «Tu non preoccuparti», rispose schioccandoli un sonoro bacio sulle labbra, lasciando un velo rosa sbiadito sulla bocca.
    Mollò la presa, si rimise a correre e s'infilò nello stretto corridoio alla loro sinistra, svanendo dietro la prima porta. Si udì un tonfo sordo e un grido di gioia che rimbalzò contro i muri dell'appartamento.
    «Oh. Mio. Dio», gridò Inès dalla stanza.
    Gustav s'infilò nella stanza e trovò Inès sdraiata a pancia in giù sul letto, con la faccia immersa in un mare di cuscini bianchi.
    All'iniziò gli parve un normalissimo materasso, nulla di speciale. Non si sarebbe sorpreso a trovare addirittura qualche vecchio cioccolatino sotto il cuscino, ma poi notò il lento e sinuoso ondeggiare di Inès e dei cuscini, e lo sconforto spazzò via ogni sua volontà.
    «È un materasso ad acqua! Non ne ho mai provato uno prima!», Inès prese a muovere freneticamente i fianchi e calciare il materasso, facendolo ondeggiare come una gelatina.
    Gustav sorrise a denti stretti, poco esaltato all'idea di dover passare quattro notti in balia delle acque e della nausea.
    «Tu stai a sinistra».
    «Eh?».
    «Sai che mi piace dormire a destra», disse puntando i gomiti tra i cuscini, «Io sto a destra e tu a sinistra».
    «Non credo farà poi sta differenza».
    «Per me si, invece!».
    «Va bene, va bene».
    Inès si sdraiò su un lato e si stiracchiò, lanciando un lamento liberatorio.
    «Sono stancaaa».
    «Ma se hai dormito tutto il viaggio...».
    «La tua macchina è scomoda. Ho dormito un po' si e un po' no, e male anche», rispose Inès con la sua voce da bimba indispettita.
    Alzò la guancia dal cuscino e picchiettò con la mano lo spazio vacante nel letto.
    «Vieni qua?».
    «Non eri stanca?».
    «Voglio qualche coccola».
    «Magari mi do una rinfrescata, prima».
    «Mi va bene anche se puzzi», rispose di getto Inès, allungando le braccia verso di lui.
    «No, va bé... È che odio quel materasso».
    «Ma come fai?», disse riprendendo a saltellare.
    «È di cattivo gusto, dai».,
    «Non è vero, sono bellissimi! Ne hai mai provato uno, almeno?».
    «Sì, e non mi piace».
    «Questo è meglio!».
    «Ne sono sicuro».
    «Che noioso... Vieni qui, dai!».
    Gustav sbuffò e avanzò verso il letto, levandosi il gilet e mettendo bene in mostra le chiazze di sudore che si estendevano fino a bagnargli le costole.
    Si sedette, cercando di non perdere l'equilibrio, si levò le scarpe e si sdraiò goffamente, cercando di trovare un equilibrio in mezzo al leggero ondeggiare frenetico del materasso.
    Inès balzò verso di lui e lo strinse tra le braccia, strofinandogli la testa contro il petto.
    Già al primo, leggerissimo, contatto, l'odore avvolgente e stantio del sudore evaporò attraverso il colletto e le maniche, riempiendole le narici.
    Sorrise e si strinse di più a lui. Era un odore dolce e famigliare, un vago ricordo delle notti d'intimità passate immersi nel buio della loro camera, illuminati solo dalla luce artificiale dei lampioni e dai fari delle macchine che passavano, stretti sotto le lenzuola a sussurrarsi parole già ripetute la notte prima.
    Gli accarezzò il petto con la punta delle dita, disegnando piccole linee invisibili sulla camicia. Deviò leggermente il percorso e sganciò un bottone, quasi per sbaglio; poi, l'errore si ripeté per altri due, tre bottoni.
    Lanciò una risata debole, quasi sussurrata, montò sopra di lui e cominciò a sbottonare il resto della camicia.
    «Ribadisco, che fino a poco fa mi sembravi stanca», disse Gustav con voce stanca.
    «Mi sto riprendendo, piano piano», rispose Inès facendo spallucce.
    Aprì la camicia e le sue labbra presero a strisciare lungo il petto, risalirono il collo umido e fresco e si arrampicarono sul mento, fino a incontrare la sua bocca morbida e secca, facendo vibrare le labbra dei suoi mugolii.
    Le loro dita s'intrecciarono e si strinsero come in una morsa, mentre i fianchi presero a muoversi dolcemente, danzando con fare lento e sinuoso.
    Gustav accolse i suoi baci e strizzò gli occhi. Cercò di concentrarsi sul calore intenso che cresceva tra le gambe di Inès, a seguire i suoi movimenti sinuosi, ma questi presero a farsi man mano sempre più veloci e sgraziati, e il dolore provocato da ogni colpo d'anca cancellò ogni buona intenzione.
    Liberò le mani dalla presa e le fece precipitare goffamente sul fondoschiena, affondando le dita nei glutei, nella disperata impresa di guidarla e controllare un minimo la sua furia.
    Inès si staccò e raddrizzò la schiena senza smettere di cavalcarlo, gemendo con la testa piegata all'indietro, rapita dall'estasi, accarezzandosi e strizzandosi i seni.
    Poi, come presa da un fremito improvviso, si gettò sulla sue cintura e cominciò a slacciarla.
    «Mi fa male», disse con la voce appesantita dallo sforzo, «Ti dispiace?».
    Si piegò nuovamente a baciarlo, senza dargli il tempo di rispondere.
    Gustav alzò la schiena per levarsi la camicia, rischiando di disarcionarla.
    Slacciata la fibbia, fu il turno di pantaloni, che scivolarono via insieme ai boxer a righe bianche e azzurre.
    Inès scese giù baciandogli il ventre, centimetro dopo centimetro, fino a che Gustav non sentì le sue labbra avvolgergli il pene in un calore umido e intenso.
    Da lì in poi, rimase rigido e immobile a fissare il soffitto bianco e spoglio, spinto dolcemente dall'ondeggiare del materasso ad acqua.
    La lingua e le labbra di Inès si fermarono di colpo.
    «Non ti piace?».
    «Eh? Cosa, scusa?».
    Gustav piegò la testa e trovò Inès con gli occhi alzati verso di lui, con il suo pene floscio stretto nella mano.
    «Non ti piace? Non va bene?», chiese preoccupata.
    «No, mi piace. Mi ci vuole del tempo».
    Inès lo guardò dubbiosa, salì nuovamente sopra di lui e riprese a muovere i fianchi con fare impaziente e meccanico.
    Dopo un paio di colpi, Gustav lanciò un gridolino di dolore, l'afferrò per i fianchi e la buttò sul sul letto.
    «Così mi fai male, che cazzo».
    «Cercavo... di farti eccitare», disse Inès, confusa e allarmata.
    «Non ci sei riuscita».
    Si alzò e si infilò i pantaloni.
    «Non sono una macchina, non mi si rizza a comando. Se non c'è, non c'è e basta», disse cercando di infilare i bottoni nelle asole con le mani tremanti dalla rabbia.
    «Stiamo litigando?».
    «No. Stiamo litigando?».
    «Te lo chiesto io!», strillò Inès
    «Ok, va bene. Allora, non stiamo litigando, va bene? Sono solo stanco, nient'altro».
    «Te lo avevo chiesto se volevi che guidassi io!».
    «Che centra?».
    La voce di Inès si spezzò e le iridi cominciarono a tremare dietro un leggero velo di lacrime.
    «Se guidavo io non ti stancavi, così arrivavi tranquillo e stavamo bene, ecco».
    «Cosa? Cioè... cosa vuol dire», si zittì e strinse le labbra per placare il balbettio, prese un bel respiro e chiese: «Non stai bene?»
    «Adesso no».
    «Senti, mi sarei stancato comunque, saranno state questi tre ore di viaggio... È più complicato di così».
    «“È più complicato di così”. Non sono capace di capire le cose “più complicate di cosi”, evidentemente...».
    «Ma che c'hai adesso?».
    Inès si aggiustò le spalline della canottiera, si alzò in piedi, stizzita, girò attorno al letto con passo svelto e si piazzò dall'altra parte della stanza, tenendo le braccia incrociate contro il petto.
    Guardò Gustav con aria di sfida. Poi, il suo mento prese prima sobbalzare, si agitò convulso e incontrollato e le lacrime presero a colarle sul viso, trascinando sottili fili di trucco scuro.
    «Non voglio litigare. Voglio solo che stiamo bene».
    «Basta non litigare, allora, no?».
    «Tu vuoi litigare».
    «No, Inès, non voglio litigare e non sono arrabbiato. Mi hai solo infilato un coglione in gola e mi sono innervosito. Basta».
    Gustav lasciò cadere le braccia lungo i fianchi, sconfitto. Girò intorno al letto e raggiunse Inès, stringendola pian piano a sé, come accogliendo tra le braccia un oggetto fragile.
    Inès appoggiò la guancia sulla sua spalla, e grosse lacrime calde gli bagnarono la camicia.
    «Non sono una stupida», disse Inès con la voce soffocata dalla camicia.
    «Ma perché lo pensi?».
    «L'hai mai pensato?».
    «Mai».
    «Nemmeno dopo?».
    «Nemmeno nei prossimi giorni».
    «Stai bene qui con me?».
    «Sì che sto bene. Che c'hai?».
    Inès si staccò a mostrargli il viso rovinato dal pianto.
    «Voglio solo che vada tutto bene».
    Gustav le passò un dito sulle guance macchiate dal trucco e sorrise.
    «Siamo appena arrivati. Sei sempre impaziente».
    Inès scosse la testa e si allontanò di un passo, lasciando scivolare le braccia di Gustav dalle sue.
    Si guardò intorno, come a cercare un punto vuoto dove rifugiarsi. Poi prese un respiro e disse tutto d'un fiato:
    «È il tuo compleanno e i compleanni devono essere sempre speciali. Erano i nostri giorni preferiti e sono sempre stati belli e questo deve essere più bello, perché ne abbiamo saltati due e non voglio che non ti piaccia, non voglio che te ne vada di nuovo perché solo con te sto bene».
    Gustav la riprese bruscamente tra le braccia, come rispondendo a un comando esterno.
    «Va bene, va bene. Devi calmarti un attimo. Siediti».
    «No, io...», le spalle di Inès s'irrigidirono. Spalancò gli occhi e prese a boccheggiare.
    «Inès?».
    «Non respiro...», disse indicando la gola.
    «Va bene, va bene, Calmati, lo sai come funziona. Siediti».
    La fece sedere sul materasso, tenendole le mani delicatamente appoggiate sulle spalle.
    «Dov'è la borsetta?».
    Inès indicò la porta, cercando disperatamente di inghiottire più aria possibile.
    «Ok, vado a prenderla. Ma tu respira piano che se no vai in iperventilazione».
    Uscì in fretta dalla stanza, lasciando Inès da sola a cercare di regolare il suo respiro.
    Sentì la temperatura della stanza si abbassò di colpo. Si strinse nelle braccia per scaldarsi, fece respiri brevi, veloci e regolari e l'aria si raffreddò in tante nuvolette di condensa che svanirono serpeggiando davanti i suoi occhi.
    «Eccomi», Gustav rientrò stringendo un boccettino marrone in una mano e un ventolin dall'altra, «Come va?».
    Inès gli strappo il ventolin di mano, premette sul tubetto in cima e incanalò la medicina. Le sue spalle si rilassarono, prese un paio di respiri e disse:
    «Bene. C'è freddo, però».
    «Freddo?».
    «Sì. Tu non lo senti?».
    «Boh.. no. È difficile avere freddo, adesso. Sarà per l'attacco di panico».
    Gustav si sedette vicino a lei e svitò il tappo del boccetttino. Alla vista dell'etichetta con segnato “Xanax”, Inès si piego di lato, lanciando un lamento arreso.
    «Oh, no».
    «Poco, dai».
    «Non mi serve, m'intontiscono un sacco».
    «Allora perché l'hai portato con te?».
    Dopo un attimo d'esitazione, scosse la testa e spalancò la bocca, controvoglia.
    «Quante gocce?».
    «Quaqqo».
    «Eh?».
    «Quattro.».
    Si lasciò scappare una goccia in più, ma fece finta di niente. Richiuse il boccettino e lo mise nella borsa.
    La stese sul letto e la baciò sulla fronte. Le assicurò che sarebbe andato tutto bene, che tutto quello che stava facendo era perfetto e che doveva soltanto riposare un po', come avrebbe fatto lui tra poco.
    «E lo spettacolo andrà bene?», chiese Inès con voce distante.
    «Sarai fantastica».
    Inès lo guardò con apprensione.
    «Scusa».
    «Non devi scusarti».
    «Scusa per il coglione», disse con voce ridicola e infantile
    «Scuse accettate».
    «Mi vuoi bene?».
    «Si, Inès, ti voglio bene. Non è successo niente, adesso dormi un po'».
    Inès sorrise e, lentamente, fibra dopo fibra, si arrese al sonno. Gustav guardò il flaconcino di Xanax e sussurrò un “grazie” sentito, quasi commosso.
    Per quanto fosse una soluzione fin troppo semplice, lo Xanax aveva portato Inès dove l'aveva sempre voluta da un paio di giorni a quella parte: dolce e dormiente, come un angioletto.
    Rimase a guardarla come un padre poteva guardare il suo bambino dormire dopo una giornata faticosa.
    Appoggiò il flaconcino sul comodino e tornò nella sala da pranzo, dove aveva lasciato la valigia. L'aprì, prese copione, blocco note, camicia e pantaloni di ricambio. Infilò le mano nella tasca interna e frugò in mezzo ai calzini appallottolati, finché non trovò il paio che cercava. Ne tastò il fondo, accertandosi di aver preso quello giusto, e lo mise in mezzo all'altra roba.
    Si spogliò, lasciando i vestiti ammucchiati all'ingresso, e imboccò il corridoio, tenendo il necessario per il bagno stretto tra le braccia.
    Erano rimaste due stanze ancora inesplorate in fondo al corridoio della “suite degli Innamorati”.
    Gustav tentò la fortuna, girando la maniglia della prima porta a sinistra. La serratura cigolò senza dare alcun risultato. Fece un secondo tentativo, ma rimase chiusa.
    L'ultima porta a destra si aprì. Lanciò un mugolio e alla vista della vasca e della fila di piastrelle bianche e blu che ricoprivano il bagno, si lasciò scappare un sarcastico: «Che lusso...».
    Aprì il rubinetto e cominciò a riempire la vasca di acqua calda, ignorando la calura d'agosto.
    Appoggiò la roba sulla tavoletta del water, infilò le mano nella pallottola di calzini ed estrasse un piccolo sacchettino di plastica, riempito per un terzo di una polverina bianca e sottile.
    Ne versò un pizzico sulla nocca del pollice, chiuse una narice e sniffò la prima dose.
    Ripeté l'operazione per l'altra narice, rimise il sacchetto nei calzini e si sedette a bordo vasca.
    Incrociò il suo sguardo nello specchio, e rimase immobile a guardare la sua figura sparire lentamente nel vapore, dietro una patina di umida condensa.
    Piegò la testa verso le piastrelle, le fissò lasciando che il vapore gli scivolasse sulla pelle. Sentì un calore intenso bagnargli il labbro e una piccola goccia di sangue macchiò una piastrella immacolata.
    «Oh, cazzo».
    Corse a prendere un pezzo di carta igienica, pulì la narice dal sangue residuo e s'infilò nella vasca. Si lasciò andare in un lamento di sollievo e chiuse gli occhi, lasciandosi cullare dolcemente dall'acqua, ignorando come quella piccola gocciolina di sangue svanisse lentamente, risucchiata dalla piastrella che l'assorbiva e l'assimilava a sé, come una spugna.
     
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    Capitolo 4

    Venerdì

    Inès si risvegliò, investita da uno spesso strillare di trombe. Un suono lungo, vibrante e denso che le penetrò lo stomaco.
    Poi la voce di Celentano esplose e l'illusione di essere ancora immersa in un sognò svanì, man mano che le tendine svolazzanti della finestrella comparivano sempre più nitide davanti ai suoi occhi.
    Il materasso ad acqua ondeggiava leggermente mente una lieve nausea le accarezzò lo stomaco. Il lato del letto di Gustav era ancora fatto, liscio e ordinato come lo avevano trovato appena arrivati nella stanza.
    Man mano che la nausea si faceva più intensa, realizzò di aver perso la loro prima giornata di vacanza, tutta passata a ondeggiare sul materasso, strafatta di Xanax e inzaccherando il cuscino di bava.
    Si alzò con fatica, mugolando per il dolore e la confusione e uscì barcollando dalla stanza.
    Non c'era vita nel salone, se non per la musica che usciva da un vecchio mangianastri posto sulla mensola del caminetto.
    Si avvicinò a esaminare quell'oggetto nuovo, con la testa ancora ridotta a un fitto groviglio di cavi pulsanti.
    Il tavolo era ricoperto da un tappeto di fogli di carta appallottolati con rabbia, sopra cui spiccavano la sceneggiatura del loro spettacolo, un blocco note riempito dagli scarabocchi di Gustav e una busta della spesa bianca.
    Aprì la busta e il sacchetto di carta al suo interno e un sorriso stanco le si disegnò sul viso.
    Tirò fuori una delle brioche e l'aprì, facendo fuoriuscire la cioccolata al suo interno. Si era ancora dimenticato che preferiva le perle con crema al latte, ma non importava. Era da tanto che Gustav non le comprava la colazione.
    Girò intorno al tavolo e aprì alcune pallottole di carta per vedere a cosa avesse lavorato tutto il tempo.
    Stralci di dialoghi e versi di poesie slegati tra di loro. Avrebbe sempre voluto sapere di cosa parlasse. Ciò non significava che non lo apprezzasse e che non lo sostenesse nelle sue creazioni. Non le importava del significato effettivo delle cose che scriveva, adorava l'uso che faceva delle parole, il suo creare immagini così belle, così strane.
    Fece un altro passo verso il blocco note e lesse la prima pagina. C'erano scritti solo pochi versi, segnati a matita e con la solita calligrafia disordinata, scritti come se andasse di fretta.

    Il nostro amore è una stanza grigia,
    dove giriamo intorno e ci cerchiamo
    confondendoci tra le pareti.

    Uno strano senso di disagio s'impadronì di lei. Era diverso dalle cose che scriveva. Per la prima volta si sentì colpita sul personale. Non doveva parlare necessariamente di loro. Gustav parlava sempre di tante cose in quello che scriveva. Parlava sempre di amore, indipendentemente dal fatto che fosse un amore bellissimo o un amore terribile. Avrebbe voluto essere più intelligente, profonda e sveglia, capirlo, e parlare delle cose che faceva per ore e ore.
    Pensare a lui riaccese il desiderio di rivederlo. Si guardò intorno, in cerca del suo Gusty.
    «Gusty...», chiamo con la voce frizzante, nonostante il sonno, «Amore...».
    La canzone finì, e lo scrosciare dell'acqua si levò tra le note che morivano in dissolvenza.
    Come per Gustav, l'istinto le suggerì di provare con la prima porta a sinistra. Girò il pomello un paio di volte, si piegò sulla ginocchia e avvicinò il viso al buco della serratura.
    Non vi trovò niente se non un buio denso, palpabile. Uno spiraglio di aria ghiacciata passò attraverso la serratura e le colpì l'occhio, prosciugandolo.
    Si alzò e, stropicciandosi la palpebra, si diresse verso l'ultima a destra. Aprì la maniglia, lentamente, pronta ad entrare di soppiatto e sorprendere Gustav sotto la doccia.
    La maniglia si bloccò dopo mezzo giro. Riprovò altre due, tre volte, sempre con lo stesso risultato.
    Aggrottò le sopracciglia e la delusione del giorno prima ritornò d'improvviso, prendendola alle spalle.
    Che motivo ha di chiudere a chiave se siamo solo noi qui dentro? Pensò.
    Si piegò nuovamente sulle ginocchia e si avvicinò al buco della serratura.
    Il vapore avvolgeva ogni cosa. Attese che la nube si diradò leggermente, rivelando Gustav, girato di spalle a mostrare il fondoschiena ossuto alla serratura.
    Canticchiava a bocca a chiusa, sciacquandosi energicamente le ascelle sotto l'acqua che usciva potente dal bocchettone della doccia.
    Partirono una serie di rumori meccanici dal salone, la cassetta ripartì e cominciò la canzone che li aveva accompagnati nel primo tratto di viaggio verso l'hotel.
    «Mai, mai, mai piùùùù..», cantava Gustav sciacquandosi energicamente la faccia.
    La delusione di essere esclusa dall'intimità di Gustav le diede un attimo di tregua. Scoppiò in un risolino timido, tenero e divertito.
    Gli mancava il suo corpo fragile e goffo, accarezzargli le costole che emergevano spesse sotto la pelle, sentire le sue scapole sotto le dita quando le stringeva, tutte quelle cose che l'erano state negate il giorno prima.
    Le sue mani viaggiavano velocemente sul corpo insaponato, strofinando energicamente il petto, l'addome, il collo, la faccia.
    Poi le fece scivolare giù e prese a strofinarsi i genitali sopra cui andava formandosi una massa di schiuma e bollicine che cresceva sfregamento dopo sfregamento.
    Si fermò e rimase immobile sotto l'acqua, con gli occhi chiusi e la bocca semiaperta, bloccato in un'espressione stanca, affaticata.
    S'inumidì le labbra e guardò verso la porta, incrociando inconsapevolmente lo sguardo di Inès.
    Accertatosi di poter sfruttare ancora qualche manciata di minuti di solitudine, incominciò ad accarezzarsi il pene, finché questo non si fece rigido e duro tra le sue dita.
    Partì con movimenti lenti e dolci. Appoggiò una mano contro il muro, e iniziò a masturbarsi con energia sempre crescente.
    Inès si congelò, svuotandosi di ogni emozione, di ogni sorpresa. Afferrò il pomello della porta, senza accorgersi della condensa gelida che la ricopriva.
    Una scarica fredda le attraversò il braccio e la schiena, le canzoni di Celentano si susseguirono l'una dietro l'altra dal salone, le sue ginocchia cedettero, schiantandosi contro il pavimento, ma nella sua testa niente di tutto ciò stava realmente accadendo.
    L'unica realtà possibile erano Gustav e la porta chiusa a chiave che li separava, escludendo Inès dal suo mondo.
    Rimase ferma immobile, come spettatrice passiva dell'intera scena.
    Quante volte doveva essere successo in tre anni insieme? Forse lo aveva sempre fatto, tenendo da parte le ultime energie per accontentarla, per tenere un legame sottile tra di loro, per placare i suoi capricci.
    Pensava a lei, almeno, quando si masturbava? Qualunque fosse stata la risposta, sarebbe stata comunque una magra consolazione.
    Il corpo di Gustav si piegò in due, come percorso dai dolori, mentre la mano continuava nel suo movimento svelto e meccanico.
    Poi piegò il collo, offrendo il viso contorto dal piacere all'acqua, e uno schizzo lattiginoso uscì rapido dal suo pugno, spiaccicandosi contro il muro.
    La musica cessò e, contemporaneamente, Gustav chiuse il rubinetto, uscì dalla vasca e si legò l'asciugamano alla vita, fischiettando come se niente fosse.
    Inès si rialzò di scatto e corse in punta di piedi verso il salone, digrignando i denti a ogni scricchiolio del pavimento.
    Arrivata nella sala, appoggiò le mani sul tavolo e prese a fare respiri brevi e veloci, così da sciogliere il nodo che le bloccava la gola.
    Una minuscola gocciolina scura le cadde sul dorso della mano, colorando lo spazio tra due nocche. Si passò una mano sulla guancia, guardò sorpresa e inorridita lo sfregio nero che le colorava il palmo e corse in camera a pulirsi il viso sporco di lacrime e trucco.
    Fai finta di niente, pensò asciugandosi disperatamente il viso con il lenzuolo, non rovinare tutto, di nuovo. Risolveremo tutto. Risolveremo tutto insieme.
    Alla fine, Gustav girò la chiave e uscì dal bagno, vestito solo dell'asciugamano che teneva legato intorno alla vita.

    Dopo un attimo di panico in cui cercò di valutare se fosse stato meglio fingere di dormire o aspettare furente Gustav davanti la porta del bagno e urlargli addosso le sue ragioni, alla fine optò per aspettare buona e tranquilla nella sala da pranzo a torturare un pezzetto di brioche tra le dita.
    «Ben svegliata!», disse lui con voce carica di energia, la voce chi avrebbe qualcuno pronto ad affrontare tutto ciò che la giornata aveva da offrirgli.
    «Ehi...».
    L'abbracciò e la baciò, come avrebbe potuto fare ogni giorno, un giorno qualunque, come se fossero appena arrivati come la coppia felice che parevano essere da lontano. Le prese il viso tra le mani e la fissò dritta negli occhi, esaminandola come un medico.
    «Allora? Va bene? Va tutto meglio?».
    «Si».
    «Ti vedo ancora un po' intontita».
    «Si, lo sono. Mi sono appena svegliata, ci vuole tempo».
    Si divincolò dolcemente dalla sua presa. Mostrò un sorriso stanco e fece un cenno con la testa, rivolto ai fogli appallottolati sul tavolo.
    «Ti sei messo al lavoro».
    «Eh si. Ho dormicchiato un po' vicino a te e poi mi sono messo al lavoro. Ho anche trovato un vecchio mangianastri. Carino vero?».
    «Già. Dov'era?».
    «Nell'armadio in camera da letto. Forse l'ha dimenticato qualcuno, boh».
    Si chiese dove avesse preso tutta quell'energia. Dov'era il Gustav stanco e apatico che doveva essere trascinato a forza in ogni attività che passava per la testa di Inès? Nessuna domanda. In fondo era bello vederlo così.
    «Mi dispiace», disse Inès.
    «Perché?».
    «Ci siamo mangiati il primo giorno. Così...».
    «Capita», rispose tranquillo ingollando un pezzo di brioche, «Oh, ti ho preso la colazione, visto?».
    «Sei stato molto dolce, grazie».
    L'immagine di Gustav che veniva contro il muro, contorcendosi sotto l'acqua, l'accecò come un flash.
    «Inès? Stai bene?».
    «Parliamo un attimo?».
    L'espressione solare di Gustav si sciolse lentamente. Si leccò le labbra e alzò le sopracciglia, arreso.
    «Vuoi parlare di ieri?».
    «No, non voglio parlare di ieri. Ieri era solo... una “cosa”», rispose Inès.
    «Una “cosa”... cosa?».
    «Una “cosa”, un episodio. È che...».
    Lo dico o non lo dico?
    Gustav si sedette, prestando attenzione alle sue parole.
    «Senti...», inizio Inès facendo strisciare timidamente la mani lungo il tavolo, come per cercare di afferrarlo.
    «Dimmi», rispose Gustav, quasi a denti stretti.
    «Penso che ieri, abbiamo iniziato col piede sbagliato, ma è una cosa già risolta per me, capisci?».
    «Si», rispose Gustav, guardingo.
    Inès sembrava farsi sempre più piccola, come se ogni parola pronunciata fosse un azzardo, un piede nudo che si fa strada su una pista lastricata di cocci di bottiglia.
    «Però, sì, avevi ragione, abbiamo fatto tutto troppo in fretta e... e io ci tengo che tutto vada bene questi giorni».
    «Certo, Inès. Siamo qui apposta, no?».
    «Si, è vero. Quindi, boh, volevo proporti una cosa, così da iniziare ad aggiustare le cose».
    Gustav incrociò le gambe e si guardò intorno imbarazzato.
    «Cioè?».
    «Era una cosa che facevano Mariangela e Carlo. Ricordi?».
    «Mariangela e Carlo...».
    «Si, tipo quando avevano un conflitto... boh... irrisolto, ecco, si sedevano e facevano prima la lista delle cose che non gli piacevano l'uno dell'altra, e poi finita la lista si dicevano quello che adoravano l'uno e dell'altro...».
    «Abbiamo qualche conflitto irrisolto, Inès?».
    «Be', sì...».
    «Ok... E funzionava questa cosa?»
    «Bè, sì, ha funzionato delle volte».
    «Ma non si erano lasciati Mariangela e Carlo?».
    «Va be', non centra»
    Gustav scoppiò a ridere, roteando la testa e battendo le mani sulle ginocchia.
    «Dai, perché non riesci a prenderla seriamente?», disse Inès, stizzita.
    «Perché si stanno ancora sbranando per gli alimenti!», continuò Gustav, ridendo.
    «Va bene, allora nulla».
    «No, aspetta, aspetta».
    Si prese del tempo per ricomporsi, si asciugò le lacrime e appoggiò le mani sulle ginocchia, in posizione d'ascolto.
    «Facciamolo, va bene».
    «Seri però, eh».
    «Seri. Serissimi».
    «Ok. Uno di noi dice una cosa che non piace all'altro, o parto io o parti tu, tanto è uguale. Poi l'altro ci riflette un po' e dice 'accetto la tua critica e ne farò tesoro', e poi è il turno dell'altro. Finito questo poi ci diciamo cosa ci piace l'uno dell'altro. Così possiamo cominciare pregi, difetti, cose che non facevamo prima», la voce di Inès prese un tono timido e implorante, un tono a cui difficilmente si poteva dire di no.
    Gustav rimase in silenzio, guardando Inès con un leggero sconcerto.
    «Allora? Ti va?», chiese lei.
    Gustav buttò fuori l'aria dal naso. Vide le mani di Inès tremare terrorizzate. Si muovevano senza logica per una piccola area del tavolo, muovendo le dita come le zampette di un ragno per poi unirsi in un abbraccio, cercando di trattenere i rispettivi tremori.
    Il cuore di Gustav soffocò in una morsa di pena. Inès teneva gli occhi fissi sul tavolo, saltando inquieti verso la finestra o alle paste che si stavano raffreddando sul tavolo.
    Gli diede l'impressione che sarebbe umiliata in qualunque modo pur di far andare le cose per il meglio, o per farle apparire vagamente sopportabili.
    «Ok. Va bene, proviamo», rispose alla fine mettendosi composto sulla sedia.
    «Ok», rispose Inès cercando di non apparire troppo eccitata per la vittoria.
    «Inizi tu o inizio io?».
    Inès ci pensò. «Facciamo che inizio io?».
    «Perfetto. Ok. Vai».
    «Allora...», si sfregò le mani e dosò con cura il peso delle sue critiche. Gustav ere sempre stato così permaloso... Il gioco doveva risolvere piccoli conflitti irrisolti, e non creare di nuovi.
    «Ok», riprese, «non mi piace quando ti devo trascinare a fare le cose».
    «In che senso?».
    «Nel senso che...».
    «Non mi sono sentito trascinato a venire qui. Anzi, te l'ho proposto io, e...».
    «Non dico oggi. Dico che qualche volta sembra che mi faccia un favore».
    «Ecco, sembra, ma non è così».
    «No, ok, va bene, mi sembrava», Inès si strinse nelle spalle. Cominciò a sentire la tensione inspessirsi e pesarle sulle spalle. Cercò di rilassarsi e propose: «Ok. Facciamo che vai tu».
    «Sicura?», chiese Gustav, sperando che si accorgesse di quanto sembrasse stupido quel gioco.
    «Sicura».
    «Va bene. Allora... a me non piace...», rimuginò a lungo. A Inès parve un tempo infinito, «Non mi piacciono... i tuoi piedi».
    «I miei piedi?», disse tirandoli indietro fin sotto la sedia.
    «Si. I tuoi piedi. Sono grandi, troppo grandi, venosi e le dita sono troppo lunghe. Sono strani, ecco».
    Rimasero in silenzio a guardarsi. La tensione sparì lasciando un vuoto innaturale. Il viso di Inès s'irrigidì, una maschera di cera. Senza scomodare un muscolo facciale, Inès aprì le labbra. Gustav si appoggiò allo schienale, aspettandosi la risposta: Accetto la tua critica e ne farò tesoro.
    «Merda, Gustav. Vaffanculo».
    «Eh?», chiese Gustav.
    «Non ti piacciono i miei piedi. Che cazzo di critica è?».
    «Ho pensato a qualcosa che non mi piacesse e mi sono venuti in mente i tuoi piedi».
    «In tre anni insieme, l'unica cosa che hai da rimproverarmi è che i miei piedi fanno schifo?», la voce di Inès si alzò fino a farsi stridula.
    «Non ho detto che fanno schifo. Dico che per i miei gusti...».
    «Va bene, va bene», disse Inès, implorandolo e nascondendo la faccia dietro le mani. Rimase in silenzio, respirando profondamente. Poi riemerse, e con tono arreso ripeté:
    «Va bene».
    «Forse dovremmo evitare questo gioco», disse Gustav con voce carica di premura.
    «Forse non dovevamo venire qui...».
    «Ma che dici?».
    Inès si alzò e prese a fare avanti e indietro mordendosi l'unghia dell'indice.
    «Non lo so, boh, sta andando tutto male».
    «Niente sta andando male. È passato un giorno, anzi, neanche quello. Tu vedi tutto come se stesse andando male».
    Inès lo guardò di sfuggita e continuò a camminare, ignorandolo.
    «Perché non ti siedi un attimino? Facciamo colazione, poi magari facciamo un giro per il paese, riproviamo qualche scena dello spettacolo e...».
    «A te non va di stare qui».
    «Oddio, ancora. Inès vuoi sederti, per favore?»
    Inès si fermò, guardò la sedia, insicura, e si risedette.
    «Inès», Gustav si allungò verso di lei e le prese le mani nelle sue, s'inumidì le labbra e fissò lo sguardo su un angolo della sala, cercando di trovare le parole giuste, «forse ti stai facendo troppe pare, ecco».
    «No, Gustav», disse con voce decisa e adirata, «Non mi faccio troppe pare».
    «Ah, no?», disse Gustav strisciando indietro, separandosi dalle sue mani.
    «No».
    «Non mi vuoi scopare. Non me lo sono immaginata, l'ho visto. Tu non mi vuoi scopare. C'è qualcosa che non va».
    Gustav rimase a guardarla, boccheggiando. Poi s'irrigidì, scosse la testa e rispose:
    «Non ti voglio scopare».
    «No».
    «Tutto qua?».
    «Tutto qua?», rispose Inès, basita.
    «Per te il problema è solo il sesso. Nient'altro?».
    «Scusa s'è poco... ».
    Provò con tutte le sue forze a tenere una voce forte e decisa, cercando di soffocare ogni tremolio d'incertezza.
    Gustav si mise comodo contro lo schienale, incrociò le braccia con fare pensoso e, allo stesso tempo deciso, e tirando fuori la sua aria da certosino, rispose.
    «Perdonami, Inès, ma penso che questa sia una motivazione un po' frivola».
    Inès smise di respirare, e quel gelo polare che sentì il giorno prima durante l'attacco d'asma ritornò, facendole venire la pelle d'oca.
    «Un po' frivola?», chiese per conferma.
    «Si, cioè...».
    «So che cazzo vuol dire 'frivolo', Gustav».
    «Non ne dubito».
    L'aria tra di loro si ghiacciò, e Gustav, per un motivo a lui stesso ignoto, si sentì in una posizione di svantaggio rispetto a Inès.
    «Quello che voglio dirti», riprese Gustav cercando di dosare il panico, «Non sono così terra terra».
    Inès aggrottò le sopracciglia e rimase in silenzio. Gustav si passò una mano lungo i capelli e accavallò nuovamente le gambe.
    «Quindi io sì, lo sono? Sono così frivola? O terra terra?».
    «No, non dico questo, assolutamente. Io sono un uomo di amore, non di carne. Per me il sesso è un traguardo, non un mezzo. Non mi serve scoparti per provarti che ti amo. Anche semplicemente stare sdraiati sul letto, accarezzarci e sussurrarci parole dolci o, non so... prenderti la colazione. Questo è quello che conta. Io cerco la tua anima Inès, un tuo sorriso, non quello che hai tra le gambe. E poi, ci vuole tempo, siamo tornati insieme da poco».
    Inès non mutò la sua espressione interrogativa. Si rilassò e l'immagine di Gustav sotto la doccia le ritornò in mente un'ultima volta.
    «Sono la tua ragazza, Gustav. Quello che ti chiedo è solo di volermi bene e di sbattermi di tanto in tanto, ecco tutto».
    Gustav si allontanò di scatto, quasi spaventato. La persona davanti a lui gli parve una totale sconosciuta. La sua espressione più decisa e agguerrita e perfino la voce sembrava diversa, più profonda e adulta.
    Inès sentì una vertigine. La testa cominciò a girare e un'altra ondata di gelo la investì, facendole venire un brivido. L'aria uscì dalla bocca e si raffreddò nell'aria.
    «Inès? Ti senti bene? Non riesci respirare?», disse Gustav balbettando.
    «Dio, Gustav», disse Inès alzandosi e coprendosi gli occhi con la mano, «Ti rendi conto che tra noi due quello che fa la figura della figa sei tu?».
    I vetri della finestra tremarono, come percossi dalla sua voce piena di rabbia.
    «Cosa?».
    «'Ci vuole tempo'... Ma non sai dirmi nient'altro? Quanto tempo ti serve? Siamo stati insieme per tre anni e adesso ti fai dei problemi per fottermi?».
    I vetri tremarono sempre più forte, parola dopo parola. Gustav guardò la finestra terrorizzato, mentre, insieme ad Inès, veniva investito dal gelo.
    «Adesso calmati, Inès».
    «Perché, sennò? Che rischio possiamo correre, tanto? Di litigare? Ti spaventa la cosa?».
    «Mi preoccupa che sembri una pazza bipolare».
    Le braccia di Inès si rilassarono. Guardò Gustav con sguardo stanco e atterrito. La malinconia s'impossesso nuovamente di lei.
    «Perché sei tornato con me, Gustav? Ti ripresenti come se nulla fosse successo, m'ignori e mi tratti come una bimbetta, proprio come l'ultima volta. E allora perché sei tornato?».
    Gustav rimase muto e a bocca aperta. Boccheggiò e mosse le mani nel vuoto.
    Prima che potesse dare una risposta, un'ombra coprì il tavolo, inghiottendo ogni striscia di luce e la finestra esplose, sparpagliando scintille di vetro in aria e sul pavimento.
    Si buttarono a terra urlando, coprendosi la testa con le mani e rimasero in ginocchio, terrorizzati.
    Si sentì un tonfo sordo, poi di qualcosa di pesante che percuoteva disperata le schegge di vetro sul pavimento, gracchiando disperata.
    Gustav fu il primo ad alzarsi. Girò intorno al tavolo e sussurrò:
    «Oh, cazzo».
    Inès si alzò con cautela e raggiunse Gustav. Lanciò un esclamazione di sorpresa e disgusto, strinse il braccio di Gustav e si riparò dietro di lui.
    Rimasero muti e attoniti a guardare l'enorme corvo che aveva invaso l'appartamento contorcersi e sbattere le ali tra i cocci di vetro zuppi di sangue.

    «Inezie di questo genere capitano spesso, signori. Siamo pronti per qualunque evenienza», disse distrattamente il receptionist, sfogliando il registro dei clienti.
    «Ma che vuole dire che succede spesso?», rispose Gustav, lanciando di tanto in tanto uno sguardo sul divano della sala relax dove stava seduta Inès.
    Il vecchio chiuse il registro, si levo gli occhiali dalla montatura sottile e si rivolse al suo cliente sfoggiando un sorriso paziente e professionale.
    «Intendo dire che non è la prima volta che un corvo irrompe nelle nostre stanze. Almeno due volte all'anno vengono attirati da qualcosa... non so, la luce, probabilmente».
    «E non avete ancora fatto nulla a proposito? Tipo boh, trappole per piccioni o qualcosa di simile?».
    «Bè, inizialmente ci eravamo proposti di assumere un tiratore scelto appostato sul terrazzo del quinto piano, ma poi abbiamo desistito».
    Era difficile constatare se la sua fosse una battuta carica di sarcasmo o meno.
    «Stavate fornicando, signore?», riprese il receptionist con aria professionale.
    «Scusi?».
    «No, le chiedo se il corvo avesse rovinato un momento intimo».
    «Non sono affari che la riguardano!».
    «Ok, immagino di no... Era solo curiosità, ecco».
    «Quando sarà pronta la nostra stanza?», chiese stizzito.
    «Mezza giornata. Ore che ovviamente si aggiungeranno all'ultimo giorno. Per ciò lunedì siete liberi di lasciare alle 16 piuttosto che alle 11, se la cosa vi aggrada».
    «Vedremo... Grazie».
    Gustav tornò nella sala d'attesa, rallentando il passo a pochi metri dal divano di pelle nera.
    «Dicono che dovremo aspettare qualche ora».
    Inès restava immobile, con il gomito puntato sul bracciolo del divano e la mano a reggerle la testa.
    «Possiamo farci un giretto del paese volendo, no?», disse Gustav sedendosi dall'altro lato del divano, lasciando un lungo spazio di pelle nera a separarli.
    «Voglio tornare a casa», disse Inès con voce bassa e laconica.
    «Come?».
    «Mi sbagliavo. Mi sono sbagliata. Mi sbaglio spesso».
    Gustav strisciò lungo il divano fino ad arrivare ad Inès. La strinse a sé e lei, dopo una leggera esitazione, gli appoggiò la testa al petto e gli circondò il torso con il braccio.
    Sembrava una bambina, lo è sempre sembrata, pensò, e ancora una volta, pensò che come qualunque altra bambina, non meritasse di provare dolore, piangere e provare qualunque sentimento negativo. Inès semplicemente non se lo meritava.
    «Sono tornato con te perché voglio restare con te, Inès».
    Inès rimase immobile e silenziosa.
    «Ho visto che ti masturbavi in bagno stamattina».
    Anche senza guardarlo, sapeva che Gustav stava probabilmente boccheggiando in preda al panico, come al solito.
    «Non importa. Non ti giustificare. E poi gli uomini non sono mai sinceri quando si parla di seghe. Quindi lascia stare».
    Alzò la testa verso Gustav. I suoi occhi sembravano vuoti, privi di tutta la dolcezza e la fragilità che gli faceva pensare che Inès fosse qualcosa da proteggere, da preservare.
    «Ormai abbiamo prenotato la festa e ho pagato la camera. Tanto vale restare. Se ci comportiamo in maniera civile, può darsi che qualcosa funzioni».
    «Certo che funzionerà. Inès, devi solo essere felice».
    Lo guardo con sguardo vacuo e disse:
    «Grazie».
    La borsetta vibrò in un angolo del divano.
    «È il telefono», disse Inès.
    «Chi è?».
    «Forse il lavoro», disse, sperando la chiamassero per rigirare tempestivamente delle scene aggiuntive, strappandola dall'imbarazzo, presente e futuro, della loro vacanza.
    Guardò il display e aggrottò le sopracciglia.
    «Chi è?», chiese Gustav.
    «Boris».
    «Boris?», il tono di Gustav mutò in un attimo. Sembrava sorpreso e leggermente irritato.
    Inès lo guardò, vagamente soddisfatta della sua sorpresa.
    «Sì. Boris. Qualche volta chiama. Non sempre, ma spesso sì», chiese mostrando un ghigno di soddisfazione. Ebbe l'impressione che Gustav non fosse così contento che la chiamasse. Forse se si fosse ingelosito, avrebbe trovato le palle di scoparla, pensò, o di prendere la situazione in mano. Doveva rendersi conto che, a malincuore, poteva scivolare da lui se le cose fossero continuate cos'
    «Scusa un attimo», si alzò e si allontanò, uscendo dall'hotel e restando in piedi di fronte la porta vetro.
     
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