We've got to get in to get out

Avevano combattuto fino allo stremo contro se stessi per dimenticare tutto ciò che avevano passato, tutto il tempo che avevano lasciato indietro e ora non ricordavano neanche il perché.

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  1. Brat Fitzparker
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    Pretty faces of a black rotten soul.

    Mary camminava. Semplicemente camminava sotto il sole tiepido del 7 Settembre 1990, in una foresta di riflessi luminosi prodotti dalle opache carrozzerie delle macchine, nella periferia di Seattle.
    Camminava quando guardò alla sua destra, incontrando il proprio sguardo riflesso nella vetrina di un vecchio negozio di cappelli. Hats & Hats. Non dovevano avere troppa fantasia con i nomi e forse era anche per questo che avevano fallito, o magari perché le tasse erano salite del 20% quell’anno, e ora la proprietaria di quel piccolo e grazioso emporio di cappelli non guadagnava abbastanza per mantenerlo, ma Mary non pesava a niente di tutto questo, era semplicemente impegnata a rimirarsi nel riflesso di una vetrina polverosa. Osservava compiaciuta e tronfia il suo visetto dolce, la sua pelle candida e quei capelli biondo pallido, mossi, corti fin appena sopra le spalle, in contrasto con il rosso brillante che le tingeva le labbra. Gli occhi azzurri stavano d’incanto su quel visetto d’angelo così come la sottile camicetta color crema e la gonna lunga e stretta dello stesso colore calzava a pennello sulla sua perfetta silouette, e a lei piaceva da matti guardarsi. Sembrava una perfetta brava ragazza dell’alta società. Era convinta che niente potesse turbare una così comune e meravigliosa giornata, così come la sua sublime bellezza, ma qualcosa interruppe quell’estatica e patetica contemplazione di se stessa: un uomo che urlava.
    -Se ti prendo ti ammazzo, lurida troia!- seguito da un suono di passi concitati. Tutto ciò che la ragazza riuscì a chiedersi fu come ci si potesse rivolgere così a una donna. Forse era tutto ciò che la sua mente poteva concepire, in fondo.
    Poi, da dietro l’angolo, poco più in là, spuntò una ragazza.
    Capelli rossi come le fiamme, boccoli lunghi e morbidi che le incorniciavano il viso, le labbra erano leggermente velate d’un rossetto scuro, morbide, forse troppo piccole, troppo delicate per lei. Appena sopra di esse erano incastonati due grandi occhi d’un verdi come la giara. Erano quasi luminosi, come il sudore di cui era madida a causa della frenetica corsa in cui era impegnata, ma Mary non poteva notarlo, era troppo impegnata a storcere il naso davanti a quella vecchia camicia di flanella sgualcita, con qualche bottone attaccato nel punto sbagliato. I vecchi pantaloni neri stracciati e un paio di All Star bucate le davano la nausea. La sua piccola e semplice mente non poteva concepire una simile sciatteria. Un stracciona, senza dubbio.
    Non ebbe il tempo di pensare altro, perché ora la ragazza le si era fermata davanti.
    -Hai tre dollari?- le chiese. L’alito puzzava di sigaretta, ansimava ancora per lo sforzo.
    -Come?- Aveva capito, in effetti, la domanda, ma non l’aveva debitamente elaborata.
    -Diavolo, ma sei sorda? Tre fottuti dollari, li hai o no?- adesso la sconosciuta aveva alzato la voce e parlava in fretta, non aveva tempo, rischiava di finire nei guai e lo sapeva, ma come si permetteva di rivolgersi a Mary Smith con quel tono e quel linguaggio? Era inaccettabile. Oltre ad offenderla con il suo aspetto impresentabile, ora anche nei modi si permetteva di mancarle di rispetto.
    -Si, ma non per una come te- rispose, mettendo in quella voce tutto il disprezzo che provava per la ragazza.
    -Hey stronza!- da dietro l’angolo era spuntato un uomo basso e nerboruto. Grasso, maldestro, si avvicinava a lunghi passi. Parlava con la rossa, si capiva.
    -Tre dollari, cazzo tre dollari- mormorò lei, ma era tardi. I guai erano arrivati. L’uomo le poggiò sgraziatamente una mano sulla spalla. Mary la vide sbuffare e poi, senza alcuna ragione, sorridere. Aveva un bel sorriso, certo, ma lei non se ne accorse.
    -Mi scusi, signore, per aver sottratto un cartone di latte da tre fottuti dollari dal suo più che rispettabile negozio, ero venuta a chiedere quanto le devo alla mia amica..- si bloccò, indicando Mary con un ampio gesto del braccio, che, dal canto suo, non comprendendo con esattezza quello che stava accadendo, si limitò a pronunciare il proprio nome. -…che sfortunatamente non li ha con se, perciò ecco- continuò la strana ragazza porgendo all’ uomo il cartone di latte che teneva in mano. La biondina si chiese se l’avesse sempre avuto e come avesse fatto a non notarlo –prenda il suo latte rancido del cazzo e riporti il suo stramaledetto culo ciccione sulla sedia dietro la cassa- concluse.
    L’uomo, non riuscendo evidentemente a controllarsi di fronte all’arroganza di quella insulsa ragazza, le diede uno schiaffo che le lasciò un’ombra vermiglia sulla guancia, per poi afferrarle il polso –Non provarci, troietta del cazzo, è la quarta volta che rubi nel mio negozio, credi che sia scemo, eh? Mi hai preso per uno stupido, eh? Bè, ‘sta volta ho chiamato la polizia, maledetta, e ora tu vieni con me- sbraitò, per poi trascinare la ragazza con se, che per quanto provasse a divincolarsi, non riusciva a liberarsi della presa, e, prima di sparire dietro l’angolo da cui era apparsa, si voltò verso Mary –Bè, grazie, stronza- sibilò a denti stretti, e ora quello sguardo vivo e brillante si era fatto gelido, severo, ma Mary era troppo scossa, o forse troppo concertata su se stessa, per notare la sottile differenza.

    Jane passò la notte in cella. La ragazza con i capelli rossi si chiamava Jane e passò la notte in cella per il furto di un cartone di latte da tre dollari. La polizia non aveva trovato i suoi documenti, lei era un fantasma. Un fantasma di nome Jane. Quel posto puzzava di urina e sudore, puzzava di malavita, di criminale, era quasi nauseante, ma non era certo la prima volta che finiva dentro, ne sarebbe stata l’ultima, si era ormai abituata.
    -Perchè ti hanno sbattuta qui?- domandò il suo compagno di cella. Era un ragazzino, avrà avuto all'incirca sedici anni, ed era finito dentro perchè era stato beccato a spacciare dietro la vecchia chiesa abbandonata. Nella Seattle del 90 se non avevi un soldo o spacciavi o facevi la puttana, se qualcuno l'avesse definita una bella città sarebbe stato quantomeno coraggioso. Era più facile beccarsi una pallottola in testa che comprare delle sigarette, lì. Jane alzò a malapena lo sguardo dall'angolo in cui era seduta.
    -Per tre fottuti dollari, ho rubato un cartone di latte da tre dollari- il ragazzino rise. Aveva una risata fastidiosa, sguaiata e acuta, come quella di un ubriacone, o di un drogato e in effetti quel ragazzino non era altro che un drogato, ma a Jane tutto questo non importava. Lo immaginava, certo, la Speed lasciava marchi indelebili sulla pelle, piccole croste che sparivano dopo qualche settimana, ma era solo uno dei tanti e la triste storia di un ragazzino solo come tanti non le importava.
    -Andiamo, non avevi tre dollari? Cosa sei? Una barbona o cosa?- rise ancora.
    -No, a dire il vero io non avevo neanche voglia di latte, ma c'è un ragazzino sulla sesta, e si chiama Jack. Ecco, Jack non ha un soldo, ma ha una sorellina piccola. Mi ha chiesto del latte e ho cercato di procurarglielo- la risata si fece sempre più fragorosa.
    -Aspetta, fammi capire, hai rubato per un altro e ti sei pure fatta beccare? Accidenti, sei proprio una sfigata- disse, ciondolando avanti e indietro per la cella.
    -Bè, insomma qui dentro ci sei finito anche tu, cosa c'è? Mammina si vende per poco, papino neanche sai chi è e tenti di fare qualcosa per aiutare quella troia a mantenerti? Siamo tutti sfigati qui, pivello- rispose lei, alzandosi e avvicinandosi alle sbarre. Lui si zittì. -Hey, ciambella in divisa!- urlò, chiamando la guardia che russava fragorosamente adagiata sulla sua sedia da ufficio, dietro la sua scrivania, che trasalì e per poco non cadde con il culo per terra. -Voglio una sigaretta, ce l'hai? Una maledetta sigaretta?- Chiese Jane. Era stanca e annoiata. Non sarebbe riuscita a dormire comunque con quel ragazzetto, che, dal canto suo, aveva più paura di lei di quanto non desse a vedere. -Mi ci vorrà un pacchetto intero per sopportare la voce del cazzo di questo ragazzino, andiamo!-
    -Non si fuma qui dentro- bofonchiò la guardia, incrociando le braccia sul petto e tornando a dormire. Jane sbuffò e tornò a sedersi. Poggiò la testa al muro e chiuse gli occhi, ripensando alla biondina di quella mattina: quelli ricchi erano tutti uguali, altezzosi, arroganti, tenevano tutto per se, e non si curavano di tutti quei poveri catorci di uomini e donne che tiravano avanti per miracolo, e dei bambini che al bordo della strada cercavano di venderti una collanina per un dollaro con cui comprarsi un pezzo di pane da dividere con i fratelli. Orfani senza casa e senza nome. E quella andava in giro con un vestito con cui Jane avrebbe potuto pagare l'affitto per mesi, eppure non aveva voluto darle tre dollari. Non le passò per la testa neanche per un istante che potesse essere stata colpa del modo con cui le si era rivolta. Tutti, nella periferia, parlavano così. Semplicemente non conosceva un modo migliore per esprimersi, ecco tutto.

    Mary Smith, figlia dell'ex generale Richard Smith a cui era stato affidato il distretto di polizia di Seattle, sedeva a tavola e rimescolava il cibo nel piatto con la forchetta: non aveva fame. Era seduta sul lato destro del vecchio tavolo in mogano, accuratamente apparecchiato dalla governante con una candida tovaglia di pizzo e il servizio d’argento. Il primo, uno stufato di carne di maiale e patate con un profumo delizioso aveva certo un’aria invitante, ma lei non riusciva a mangiare. La madre stava raccontando dei nuovi acquisti fatti in giornata, aveva speso un centinaio di dollari per delle nuove scarpe per una serata di gala a cui lei e il marito erano stati invitati, ma Mary non aveva ascoltato una parola, rifletteva sull'esperienza di quella mattina, domandandosi come potessero esistere persone così sciatte e scortesi. In effetti non aveva mai avuto a che fare con una persona di quella infima classe sociale, se n'era sempre tenuta alla larga. A riportarla alla realtà fu la voce profonda del padre.
    -Sta mattina è stata portata alla centrale una ladruncola da strapazzo...- diceva. Mary si fece improvvisamente attenta, curiosa. -...iniziano sempre più giovani a rubacchiare, ci ha dato non pochi problemi, e ha preso a calci un paio di poliziotti. Non aveva con se ne documenti, ne soldi, ha detto solo di chiamarsi Jane. L'abbiamo trattenuta in cella, per questa notte. Questi ragazzini senza nessuno.. mi fanno un po' pena. Delinquenti abbandonati a se stessi..- Mary ci rifletté su. Fece fatica, perchè di rado rifletteva su ciò che le accadeva intorno, di solito si limitava a sentire senza ascoltare, ad assorbire informazioni in maniera acritica, ma riflettendoci, pensò che non fosse giusto definire quella ragazza una delinquente, una stracciona, magari, ma non sembrava cattiva. Tuttavia se suo padre l'aveva definita in quel modo, non poteva che avere ragione. In fondo lui aveva sempre ragione. Poi le chiese della scuola.
    Mary frequentava un istituto privato, voleva diventare avvocato. Era brava a scuola, ottimi voti, era puntale, diligente, tutti i professori la ritenevano una ragazza matura e a modo, e tutti i professori conoscevano suo padre e lo rispettavano, ma se qualcuno avesse provato a chiederle perchè avesse scelto quel tipo di studi, o se le importasse davvero della scuola, lei non avrebbe saputo rispondere, o meglio, lo avrebbe fatto, ripetendo come un automa che la scuola era un investimento per il proprio futuro, ma se qualcuno avesse approfondito la questione, lei non avrebbe saputo spiegare se le piaceva davvero il suo corso di studi, o se fosse davvero il suo sogno diventare avvocato. Mary non aveva un sogno, e se ce l'aveva, non si era mai soffermata a capire quale fosse. Era anche una musicista, studiava pianoforte dall'età di sei anni, ed era certamente brava, la rilassava quel suono. Forse era l'unica cosa che apprezzava davvero della sua vita, oltre che se stessa, ma non facendosi troppe domande non era costretta a trovare risposte.
    Quando andò a dormire, quella notte, non pensava neanche più a quella strana ragazza di strada. Non pensava neanche più a Jane.
    Avrebbe rimosso presto quell'esperienza, si era detta, dopotutto non faceva parte del suo mondo. La sua gabbia dorata le bastava, anche se lei non l'avrebbe mai definita tale.

    A svegliarla nel cuore della notte, tre giorni dopo, non fu un incubo, o un urlo per strada, come spesso accadeva il sabato sera, quando qualche ubriacone passava per la Third Avenue cantando serenate alla sua donna lontana, al suo amore perduto. No. La notte fra il 10 e l'11 Settembre del 90 Mary fu svegliata da rumore sordo e penetrante, uno scoppio. Il rumore riecheggiò tre volte e lei non capì.
    Se avesse avuto un po' più di esperienza, se fosse mai vissuta nella periferia di Seattle, o se si fosse anche solo trovata a passeggiare per una strada malfamata, la notte, avrebbe riconosciuto quel suono.
    Ma quei tre colpi di pistola, per Mary, erano solo un rumore terrificante e non identificato. Quei colpi di pistola, per Mary, erano solo il frastuono del suo dolce sonno che si sgretolava.
     
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    Non ho capito perché la seconda parte non l'hai messa direttamente su questo topic, comunque...
    Mi è piaciuta parecchio questa storia! Direi che i personaggi sono resi bene nella loro psicologia, e lo stile di scrittura è efficace.
    La base per un romanzo ci sta, anche se poi ovviamente dipende da te continuarla :D
     
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  3. Brat Fitzparker
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    Perchè non avevo idea di come pubblicarli in successione, poi un santo mi ha spiegato che dovevo pubblicare nei commenti, in ogni caso la pubblicherò interamente qui. Per ora sono diciotto capitoli, un centinaio di pagine in tutto e DEVO assolutamente finirla o non mi darò pace, in ogni caso, grazie, mi fa piacere che ti piaccia e spero apprezzerai anche il resto!

    Good times come and good times go.

    La polizia trovò Mary in bagno. Trovò Mary in bagno raggomitolata dentro la vasca in una pozza di vomito, fradicia, e i cadaveri dei suoi genitori. Quello del padre seduto sul divano, ai suoi piedi un bicchiere infranto e qualche goccia di liquore giacevano sul vecchio tappeto persiano, quello della madre, invece, nel suo letto. Dormiva, probabilmente.
    Era stata Mary a trovare i corpi e la sua fragile mente non aveva retto. I pensieri si erano accavallati e come una mandria inferocita avevano devastato tutto. La sua gabbia dorata era stata aperta al mondo esterno, i suoi dolci sogni infranti come il bicchiere caduto dalle mani del padre. Mary aveva visto tutto quel sangue e la sua mente non le aveva lasciato scampo, l'aveva portata in bagno, e l'aveva costretta ad aprire lo scafale delle medicine e a ingurgitare pillole su pillole, ma anche nel tentare il suicidio aveva fallito. Non era riuscita a lasciarsi andare neanche in quello. Aveva vomitato. Poi la parte di lei che era rimasta cosciente l'aveva spinta a infilarsi in doccia e l'aveva costretta a restare sveglia. Questa è la triste storia della caduta della famiglia Smith.
    La polizia trovò l'arma per terra, vicino al corpo della madre. La pistola risultava essere di Richard Smith, e sopra non vi era alcuna traccia di impronte.
    Il capo della polizia forse avrebbe fatto qualcosa, avrebbe aperto un indagine, se fosse stato in un altro posto, in un altro momento, o se semplicemente fosse stata un'altra persona. Ma era un classico caso di omicidio a Seattle, e il capo della polizia non sopportava il signor Smith, non tanto perchè fosse il suo superiore, quanto per l'atteggiamento di superiorità che dimostrava nei suoi confronti, inoltre erano ormai diverse settimane che dormiva sul divano, la moglie lo aveva pizzicato a spassarsela con una giovane specializzanda di medicina, e ora era vicino al divorzio, dunque non aveva proprio voglia di occuparsi del caso, che venne catalogato come furto, nonostante dalla casa non fosse stato rubato niente, ne la collezione d'arte privata del padre, ne i costosi gioielli della madre, il cui valore ammontava più o meno intorno ai duemila dollari.
    A Mary non venne detto niente. Era in stato catatonico, quando la trovarono, e di fatto non avrebbe sentito niente, se avessero provato a parlarle. Ora non sembrava più la principessa che era sempre stata. Venne portata in ospedale e lì rimase fino alla mattina dopo, quando firmò per andarsene, non tanto perchè si sentisse davvero meglio, quanto perchè quell'odore di medicinali e tutti quei pazienti prossimi alla morte la disgustavano. Vagò per la città fino a notte tarda.
    Sarebbe potuto tornare a casa, e forse avrebbe voluto farlo, ma sapeva che non sarebbe riuscita a rientrare da quella porta. Aveva pensato di affittare una stanza d'albergo, ma per qualche ragione i fondi della sua famiglia erano stati congelati. Magari erano scomparse anche le carte di credito, Mary non lo sapeva, a dire il vero non sapeva neanche se fosse stato effettivamente rubato qualcosa da casa. Non aveva avuto abbastanza tempo per controllare, o per pensare. Camminava come un automa per la strada: per la prima volta nella sua vita, non sapeva dove andare, per la prima volta, nella sua intera vita, era costretta a pensare da sola, perchè non c'era nessuno a dirle come farlo.
    E Mary non sapeva cosa pensare. Camminava senza un'idea precisa di dove stesse andando e, per assurdo, continuava a chiedersi che aspetto avesse.
    -Hey!- gridò una voce, e dall'ombra del vicolo davanti al quale stava passando spuntò un ragazzo. Aveva una cuffietta di lana in testa, e affondava le mani nelle tasche del giaccone nero. Una barba incolta e disordinata copriva tutta la mascella, aveva occhi piccoli e scuri, e un mezzo sorriso stampato sulla faccia. -Ciao, bellezza, che ci fai in giro tutta sola?- Mary non sapeva come rispondere, si limitò ad arretrare lentamente. Non sapeva che fare, una parte di lei aveva percepito le intenzioni del ragazzo, ma nel complesso, lei, provava solo una profonda paura che reputava inspiegabile e in parte infondata. -Una così bella ragazza non dovrebbe girare da sola per la periferia di Seattle, potrebbe fare incontri.. spiacevoli- continuò il ragazzo. Ora Mary sapeva cosa stava per accadere, e avrebbe urlato, se avesse potuto, ma come sempre, in una situazione del tutto nuova, neanche il suo corpo sapeva come reagire.
    Chiamatelo destino, fato, fortuna, o chiamatelo caso, dategli il nome che volete, anche Dio, se vi aggrada, ma qualcosa decise che non doveva andare così.
    -Mary!- una voce la chiamò. Lei si voltò e vide avvicinarsi la ragazza dai capelli rossi. Indossava un completo da cameriera, macchiato e logoro, le stesse All star di tre giorni prima, e i capelli sciolti le ricadevano morbidi sulle spalle. Fra le labbra chiare si posava una sigaretta accesa. -Eccoti, è un'ora che ti cerco!-

    La mattina presto la polizia aveva buttato fuori dalla cella Jane e il ragazzino, restituendole le uniche cose che le aveva trovato in tasca: delle chiavi, un pacco di tabacco e un biglietto per il cinema. Non aveva chiuso occhio, ma non aveva sonno. Voleva uscire, voleva muoversi, era stata ferma troppo a lungo, e voleva bere. Neanche sapeva il perchè, aveva voglia di sedersi sul ciglio della strada vicino a una scuola elementare e mandare giù qualche distillato dal sapore acre, per spaventare tutti quei bambini e le loro madri. Rise tra se e se, pensando alle facce preoccupate di quelle donne, mentre sussurravano al figlio "andiamo a casa, tesoro, no, non guardare la signora" e affrettavano il passo per arrivare alla macchina. Così passò a casa per recuperare qualche dollaro, ma la sorpresa che la aspettava lì non le lasciava tempo per altri impegni. In effetti da tempo si era rassegnata all’idea di non avere tempo per fare piani.
    La casa era poco più che un buco: la porta dava direttamente sulla piccola cucina. Un frigo, un tavolo, dei fornelli, una cassettiera e una piccola lampada che pendeva dal soffitto. Oltre la cucina c’era un piccolo bagno. Il resto dello spazio si esauriva in una grande stanza che era insieme camera da letto e soggiorno. Niente di più ad arredarla, se non un divano e un piccolo televisore comprato a un mercatino dell’usato. Nell’angolo in fondo alla stanza, in linea con la porta d’ingresso, c’era un vecchio materasso gettato a terra e circondato da borse, foto, fogli di carta. Cianfrusaglie, niente di più. Seduto sul materasso, c’era Jim. Il braccio destro abbandonato sulla gamba distesa era ancora stretto in un vecchio laccio emostatico. Nell'incavo del gomito la necrosi si allargava come una macchia d'olio, e fra le coperte, vuota e sporca di sangue c'era una siringa. Jim era il coinquilino di Jane, ed era anche la cosa più simile che lei avesse a un amico e un ragazzo. Era una brava persona, ma aveva qualche abitudine non proprio salutare, e ora era immobile con lo sguardo perso nel vuoto. Respirava lentamente, Jane vedeva il suo petto alzarsi e abbassarsi. Chiunque altro avrebbe avuto paura, in quella situazione, o si sarebbe arrabbiato, avrebbe chiamato un'ambulanza o avrebbe avuto una qualsiasi reazione esagerata, ma Jane ci era abituata.
    -Oh, Jim, andiamo! Sto via per una sera e ti riduci così!- esclamò, avvicinandosi. Jim non rispose. Si accovacciò davanti a lui e gli diede uno schiaffetto -Hey, sei con me?- ora lui aveva spostato lo sguardo su di lei.
    -Credo.. di aver esagerato- biascicò, alchè Jane sbuffò.
    -Tu esageri sempre, diavolo, sono almeno due mesi che esageri, stupido cazzone- disse, per poi prenderlo sotto braccio e trascinarlo fino al bagno, dove lo buttò nella doccia per poi aprire il rubinetto dell'acqua fredda. Così, improvvisamente e come per miracolo, Jim iniziò a muoversi.
    -Sei pazza, brutta stronza!- grugnì, cercando di alzarsi, ma facendo fatica addirittura a parlare, non riuscì a fare altro che scivolare qua e là tentando di alzarsi.
    -Datti una calmata o ti viene un infarto- disse lei. Aveva un'aria profondamente annoiata, e in fondo lo era. Si aspettava di tornare e trovarlo morto da un giorno all'altro e, per quanto quella mattina non le avesse neanche sfiorato la mente il pensiero di doversi occupare di lui, quella situazione non era certo la peggiore che poteva trovare.
    Spense l'acqua e andò a frugare nel frigo.
    -..birra..birra...inutili salse.. latte...uova andate a male... Jim! Non ti avevo chiesto di fare la spesa?- lui dal bagno mormorò qualcosa simile a un non lo so, ma Jane non aspettava certo una risposta. Prese una birra e la stappò, andando ad accendere la radio.
    Story of my life, dei Social Distortion. Quale miglior canzone poteva allietare quella giornata pessima? Alzò il volume e si mise a cantare, mentre ondeggiava qua e là.

    Yeah, good times come and good times go
    I only wish the good times would last a little longer
    I think about the good times we had
    And why they had to end

    So I sit at the edge of my bed
    I strum my guitar and I sing an Outlaw love song
    Thinkin' 'bout what you're doin' now
    And when you're comin' back

    Life goes by so fast
    You only wanna do what you think is right
    Close your eyes and it's past
    Story of my life


    Dopotutto, eccetto quella stronza di una riccona che non le aveva prestato quei tre fottuti dollari e che le aveva fatto passare una notte in cella, eccetto Jim, che come al solito aveva esagerato e ora imprecava nel tentativo di liberarsi della morsa gelida della doccia, e il misero e desolante contenuto del frigo, le cose non le sembravano andare troppo male.
    O forse era solo merito della canzone.

    Così, quando due giorni dopo, Jane si era trovata a osservare Mary che, ormai in rovina, camminava per quella strada malfamata, non aveva potuto fare a meno di ripensare a quella canzone e a quanto fosse tutto molto buffo. Lo trovava addirittura divertente, tanto da rendere quella minuscola pausa che le era concessa dal lavoro, che di solito copriva a malapena il tempo di una sigaretta e di un caffè, addirittura rigenerante.
    E quando aveva visto Griff, il depravato stupratore seriale di quel vicolo, avvicinarsi a Mary con intenzioni poco carine, aveva pensato per un momento di lasciarlo fare, ma solo per un momento. Jane non l'avrebbe mai ammesso, neanche a se stessa, ma in fondo, molto in fondo, dentro di lei, sotto tutti gli strati di fredda apatia, era buona.
    -Mary!- aveva urlato avvicinandosi. -Eccoti, è un'ora che ti cerco!- le aveva detto, afferrandola per un polso -Mi dispiace, Griff, ma sta sera resterai a secco- per poi allontanarsi. Conosceva da un po’ quel ragazzo, e, per quanto ne sapeva, non aveva mai violentato nessuno, fino a quel momento.
    -Sei una guastafeste!- aveva risposto il ragazzo, tornando nell'ombra del suo vicolo. Quel ragazzo aveva dei seri problemi, in pochi lo sapevano, ma era stato stuprato da bambino in quello stesso vicolo. Il suo psicologo ora era andato in pensione ma lui in ogni caso non avrebbe potuto permettersi di continuare a pagarlo, quindi la notte continuava la sua terapia tentando di mandare avanti la tradizione a cui era stato tristemente annesso. Di certo lo faceva sentire più sicuro essere lui il carnefice, invece che la vittima. Una dei tanti oscuri racconti della periferia di Seattle.
    -Grazie mille..- mugugnò Mary, rimestando nella propria memoria per ricordare il nome della ragazza, ma ora le sfuggiva, come un sacco di cose, nella sua vita.
    -Jane. Io sono Jane. Comunque non ringraziare, se sei cristiana ringrazia Dio, perché la sua esistenza è l’unica possibile spiegazione per cui io abbia deciso di aiutarti. E ora sparisci- concluse, buttando la sigaretta per strada e rientrando nel pub da cui era uscita.
    -Rossa, non ti pago per poltrire, torna a lavoro!- la ammonì il proprietario del locale. Jane avrebbe voluto rispondere, ricordargli che la pagava con cento schifosi dollari a settimana per lavorare dodici ore ogni giorno, domenica compresa, ma non aprì bocca. Le serviva quel lavoro, e purtroppo aveva dovuto imparare a tenere la bocca cucita quando doveva.
    Mary, nel frattempo, valutava che cosa fare. A quel punto non aveva molto da perdere, così poco che, anche se mai l’avrebbe ammesso a se stessa, aveva pensato per un secondo che lo stupratore, forse, le avrebbe potuto dare alloggio. Forse solo una persona in quel particolare stato mentale avrebbe potuto partorire un pensiero tanto inquietante, ma comunque ora valutava la possibilità di chiedere a Jane un posto dove stare, sperava di trovare un’alternativa, ma il caso non forniva molte altre opzioni, così entrò nel pub e si avvicinò al bancone.
    -Jane…- chiamò a mezza voce, mentre quest’ultima lucidava un bicchiere. Doveva trovare terribilmente interessante tale lavoro, perché neanche alzò gli occhi. A dir la verità neanche rispose, tanto che Mary pensò che non l’avesse sentita. In realtà Jane stava semplicemente valutando la possibilità di ignorarla del tutto, di far finta che non esistesse, mentre si pentiva amaramente di averla aiutata.
    -Che diavolo vuoi adesso?- disse infine. Iniziava quasi a detestare il suo lato buono. Valutava già di liberarsene con una solenne sbornia e un’altra notte insonne, magari in compagnia di Jim. Se c’era qualcosa in lei che demoliva del tutto il suo istinto alla Robin Hood, era quel ragazzo.
    -Mi serve.. un posto dove stare- la lingua si annodava nella bocca di Mary. Avrebbe preferito non doversi abbassare a tanto, anche perché continuava a trovare ripugnante quella ragazza che ora la squadrava da dietro il bancone in ogni suo più infimo dettaglio. La odiava e neanche lei sapeva perché. Magari se se lo fosse chiesto si sarebbe resa conto di non avere un vero motivo per farlo e tutto si sarebbe dissolto in una nuvola di fumo, ma non se lo chiese.
    -Scordatelo, ragazzina, torna a casa tua- rispose l’altra, poggiando il bicchiere e uscendo da dietro il bancone, per andare a sparecchiare i tavoli ormai rimasti vuoti.
    -Ti prego, devi pur avere un posto per..- continuò lei.
    -Si, ma non per una come te- rispose con sommo piacere Jane, che sorrideva sotto i baffi. In fin dei conti quella situazione per lei stava diventando divertente.
    -Senti, mi dispiace per l’altro giorno… ma ora non ho un posto dove andare e.. ho fame- a questo punto probabilmente una parte della rossa aveva avuto pietà di quella bambolina bionda, ma non abbastanza perché la sua parte cosciente se ne accorgesse o tantomeno la assecondasse.
    -No, ed è l’ultima volta che te lo dico. Tornatene a casa tua, prostituisciti, torna a cercare Griff e sta da lui, non m’interessa, ma levati dalle palle. Se vuoi stare qui devi mangiare qualcosa, altrimenti trovati un’altra a cui rompere i coglioni- disse, e questa risposta non ammetteva repliche, ma Mary era testarda, ed era viziata, e non conosceva la parola “no”, o almeno non se l’era mai sentita dire, e tanto disse e tanto fece che Jane, suo malgrado, accettò.
    -Una notte- disse –E poi sparisci, e se ti rivedo ti do un calcio in culo così forte che i tuoi nipoti sentiranno dolore alle chiappe tutte le volte che dovranno sedersi, o che anche solo penseranno di farlo, ti è chiaro?-
    Mary non rispose, annuì semplicemente: si sentiva patetica, infima, per aver chiesto un simile favore a una persona di quel genere, a una stracciona. Ma qualsiasi cosa era meglio che tornare a casa. Lei non lo sapeva con certezza, ma la sua mente non avrebbe retto, non sarebbe riuscita a muovere neanche un passo nella sua meravigliosa gabbia d’oro ormai sporca di sangue.
     
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    Ben delineato il personaggio di Mary. Ha un passato drammatico e un presente che è lontano dall'essere felice.
     
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    Mi sono piaciute le due parti che hai postato finora, è interessante vedere in un primo momento il contrasto tra la vita di Mary e la vita di Jane e poi il fatto che le loro due vite, per quanto diverse, sembrino sul punto di incrociarsi.
     
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    Infatti. Jane da come un sostegno, ma non vuole farle capire che lo fa volentieri. Credo.
     
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  7. Brat Fitzparker
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    So much damn confusion before my eyes, but nothing seems to phase me and this one still survive.

    Quando Jane aprì gli occhi, la mattina dopo, si ritrovò a fissare il corpo dormiente di Jim che giaceva con lei nel vecchio materasso e a pensare. Lo faceva fin troppo spesso per i suoi gusti. Rifletteva su quanto fosse dannatamente perso, aveva vent’anni e lavorava come cameriere in una pizzeria sulla nona, fino al giorno prima. Ora era di nuovo senza lavoro. I clienti non gradivano essere serviti da un ragazzo simile: aveva i capelli neri, corti, perennemente spettinati, non che non provasse a pettinarli, a ordinarli, lui, ma esattamente come i suoi pensieri andavano dove volevano. Pelle bianca, occhiaie scure, segno indelebile di tutte le sue pessime abitudini, e occhi azzurri, così chiari da sembrare quasi trasparenti. Aveva delle scritte, su tutto il corpo, a sedici anni aveva speso i pochi soldi che restavano della pensione di invalidità del padre per comprare una macchinetta per tatuaggi, e si era fatto scrivere addosso una frase dopo l’altra; film, canzoni, libri, c’era di tutto. Qualcosa dei Misfits e dei Ramones, qualche parola anche dei Clash, una frase di The Catcher in the Rye e dei Fiori del Male, di Baudelaire, una frase dei Queen, e una dei Social Distortion. Qualcosa dei Nirvana e dei The Cure. C’erano anche i Distillers, i Descendents. Il suo corpo era un enorme pagina bianca, per lui, e si era fatto scrivere qualcosa ovunque. Ora Jane leggeva le parole in inchiostro nero “Nobody’s perfect and I stand accused”. Era stata la prima che si era fatto. Jane lo sapeva perché era stata lei stessa a scriverglielo. Erano cresciuti insieme, scappati insieme. Lei era per lui come una madre. In ogni caso ai clienti non piacevano neanche le tumefazioni che si nascondevano all’interno dei gomiti del ragazzo, e fra le dita di mani e piedi, che a volte avevano avuto occasione di intravedere, e neanche l’alito che puzzava di alcol, o le pupille dilatate, perciò finiva sempre per essere cacciato. Avrebbe dovuto arrabbiarsi, cacciarlo via di casa, forse, perché non faceva altro che buttare il poco che guadagnava, non faceva altro che investirlo sulla sua morte, ma in effetti non ci riusciva, magari perché anche lei perdeva un lavoro a settimana, anche se per ben altri motivi, o forse perché, in un certo senso, riusciva a capire perché lo facesse. Era stato un bambino e un ragazzo fantastico, e un musicista formidabile. Aveva perso tutto il suo tempo a scrivere canzoni giuste per il mondo sbagliato, a predicare il bene in faccia al male, aveva sognato di riscattare il suo passato con il suo futuro, ma, che avesse sbagliato strada, o che semplicemente non ne avesse presa una, ora aveva fallito ed era perso, e non faceva altro che lasciarsi andare. Si era rassegnato, e ora si lasciava morire. Jane lo compativa, la differenza fra loro due era che lei era troppo codarda per cercare la morte, o magari non se ne dava neanche conto, ma non si sarebbe mai rassegnata all’idea che tutto il tempo che le era stato dato fosse da buttare.
    Scosse la testa per scacciare il ricordo di quello che Jim era, l’immagine di quello che avrebbe potuto essere. Dal fondo è difficile risalire, lo sapevano entrambi, e ora a lui semplicemente non importava più, e lei si sentiva la vergine Maria dei derelitti.
    Si alzò, e camminando verso la cucina il suo sguardo cadde sul divano nel quale dormiva Mary. Si era dimenticata della sua presenza, della sua stessa esistenza. Non riuscì a controllare l’espressione schifata che in seguito si dipinse sul suo volto: quella schifosa ragazza. Magari non avrebbe saputo spiegare con esattezza perché non la sopportasse, magari non aveva motivo di giustificarsi, ma se ci avesse riflettuto sarebbe arrivata alla conclusione che quella stronzetta non aveva dovuto mai preoccuparsi di nessuno, neanche di se stessa, mentre lei, come tanti del resto, fin da quando era piccola aveva dovuto cavarsela da sola. Non aveva avuto nessuno e aveva dovuto imparare a badare a se stessa. La verità era che per Jane trovava il tutto solo completamente e profondamente ingiusto. Mary era una ragazza che non valeva niente, e volendo avrebbe potuto ottenere tutto, mentre un ragazzo come Jim, che valeva tutto, non avrebbe mai ottenuto niente. Non sapeva neanche perché le aveva concesso un posto dove dormire, quella notte, forse perché in fondo non le costava niente, o forse perché senza quella casa non avrebbe superato la notte indenne e non voleva sentirsi responsabile o averla sulla coscienza, ma ora era decisa a cacciarla.

    Mary spalancò gli occhi e si mise a sedere. Le girava la testa, non capiva dove si trovasse, non ricordava. Le carta da parati color crema, macchiata e logora, strappata in alcuni punti, e quel disordine, quella stanza totalmente priva di arredamento, fatta eccezione per il materasso, il divano su cui dormiva, il televisore e le cianfrusaglie sparse per terra la disorientavano. Volse appena il viso e incontrò quello di Jane, appena oltre il bracciolo del suo giaciglio, intenta a colpirlo quasi delicatamente, quanto bastava per farlo tremare e svegliarla. Ricordò tutto e rimpianse quel mezzo istante in cui, nonostante si sentisse totalmente persa, non aveva idea di cosa le fosse successo. Le venne di nuovo da piangere, come la notte prima, quando erano entrate in casa e aveva visto qual’era la miseria in cui era precipitata.
    Enormi lacrime calde iniziarono a cadere dai suoi occhi. Ora si aspettava qualcosa, un abbraccio, una carezza, un qualsiasi gesto di conforto, che però non arrivò.
    -Devi levarti dalle palle- disse gelida Jane, per poi voltarsi e andare verso la cucina.
    Mary rimase immobile, in silenzio. Le sarebbe sembrato di star impazzendo, se non avesse danzato con la follia, qualche notte prima. Si asciugò le lacrime, dicendo a se stessa che non poteva aspettarsi niente da quell’infima ragazza. Probabilmente non sapeva neanche cosa volesse dire dare conforto a qualcuno, probabilmente non provava neanche emozioni. Non la sfiorò neanche il pensiero che, se così fosse stato, lei non avrebbe passato quella notte al coperto.
    La raggiunse in cucina –Non so dove andare Jane..- disse.
    -Non è un problema mio. Tornatene a casa- risposte quella, senza neanche voltarsi, impegnata com’era a tentare di accendere il fornello.
    -Io non ho più una casa…- continuò Mary.
    Jane rise -Senti, probabilmente il paparino avrà avuto i suoi buoni motivi per non comprarti quelle scarpe che tanto desideravi. Magari ha avuto un attacco fulminante di buonsenso e ha deciso che lasciarti spendere quello che pago io di affitto per questo buco in tre mesi era assurdo, in ogni caso, qualunque siano state le sue motivazioni, aveva ragione. Torna da lui, te ne comprerà un altro paio a un prezzo meno assurdo, magari-
    -Mio padre è morto- rispose secca Mary. Jane si voltò.
    -Come?- non si aspettava certo una risposta così. Non aveva pensato neanche per un secondo che potesse essere cambiato qualcosa, nella vita da favola di quella ragazza. Everything turn to dust non pensava che valesse proprio per tutto, o per tutti. Di certo non per lei.
    -L’altra notte. Qualcuno è entrato in casa. Ha sparato ai miei genitori- spiegò. La rossa sbuffò e tornò a voltarsi verso i fornelli.
    -Brutta storia, ma una casa ce l’hai ancora, a meno che non siano riusciti a rubare chissà quante tonnellate di cemento-
    -Ho trovato io i corpi. Non posso tornare in quel posto-
    -Perfetto, allora vado io a vivere lì e tu resti qui, ci stai?-
    -Non sei divertente- niente di quella conversazione aveva senso. Possibile che Jane non avesse un minimo di cuore?
    -Non hai amici? Parenti? Nessun altro a cui spaccare le palle alle nove e mezzo di un Mercoledì mattina?- Mary ci penò su. In effetti aveva amici, aveva parenti, aveva tante possibilità, allora perché non andava da loro? Poco fuori città la sua prozia Katie Barret aveva una villa enorme, di certo non le avrebbe negato un alloggio. Ma allora perché non voleva andarci?
    -No, non ne ho- rispose. Forse era perché non aveva intenzione di mostrarsi in quelle condizioni a qualcuno che sapeva chi fosse, o forse perché dopo esser stata trovata raggomitolata in un bagno, fradicia e circondata dal suo stesso vomito e dai flaconi vuoti di tutti i medicinali che possedeva le sembrava di non appartenere neanche più a quel mondo che tanto aveva amato. Non si sentiva più una principessa e, in qualche modo, non pensava che sarebbe mai potuta tornare ad esserlo. Di certo con una rozza ragazza di periferia con i capelli tinti che vive in una betola come quella poteva continuare a recitare la sua parte da regina in rovina, ma con qualcuno che sapesse cosa significa esserlo non sarebbe stato altrettanto facile. La sua candida purezza di damigella era stata macchiata da quel gesto suicida e patetico, Dio non perdona, figuriamoci l’uomo ricco. Ora sentiva di non meritare altro che quel buco schifoso.
    Jane, nel frattempo, era rimasta in silenzio. Non aveva considerato la possibilità che quella stronzetta bionda potesse avere davvero bisogno di aiuto, e adesso, forse, una parte delle sue convinzioni, secondo cui una riccona non poteva che salire più in alto, stava crollando.
    Non le disse niente, poi. Continuò a stare zitta.

    -La lascerai restare?- chiese Jim. Era pomeriggio inoltrato, e lei quel giorno non era andata a lavoro. Non poteva certo permetterselo, ma se la sarebbe cavata. Come sempre. In fondo non le importava.
    Mary era uscita, non con la promessa di non tornare, certo, ma, almeno per qualche ora, Jane avrebbe potuto stare seduta a bere una birra sola con Jim. Era tanto che non aveva occasione di parlare con lui da sobrio. Jim era raramente presente a se stesso, ma quella sera era con lei, e stavano parlando seduti l’uno accanto all’altra, con i piedi poggiati al davanzale dell’unica finestra che illuminava la casa, con la radio che sussurrava piano le parole di Poison Heart dei Ramones.
    -Non posso dovermi occupare anche di lei, e lei da sola non sa occuparsi neanche di se stessa-
    -Neanche io, eppure sono qui- lei sbuffò.
    -Jim, con te è diverso. Siamo cresciuti insieme, e meritavi aiuto-
    -E lei non lo merita?-
    -No-
    -E perché?-
    -Perché non farebbe mai lo stesso per me, o per te, o per chiunque altro- la canzone andava avanti.
    “No one ever thought this one would survive, helpless child, gonna walk a drum beat behind”
    -Neanche io l’avrei fatto. Nessuno l’avrebbe fatto. Jack non avrebbe rubato del latte per te, ne nessun altro avrebbe mai fatto niente per aiutarti-
    -Mio padre si-
    -Che c’entra adesso?-
    -..non lo so- rimasero in silenzio per un po’. Jim aveva ragione, e forse poteva essere vestito e puzzare come un fallito, ma in fondo era solo troppo furbo, in fondo valeva molto di più e aveva ragione, Jane lo sapeva. Perché poi ora aveva ripensato a suo padre? Questo non sapeva. Forse era perché, in fondo, era il vero motivo per cui cercava di fare tutto ciò che poteva fare per chi pensava ne fosse degno. Erano ormai quattro anni che non lo vedeva, si chiese che fine avesse fatto, ma lo sapeva, lo immaginava e la risposta le faceva più male della domanda stessa.
    -Jane, lasciala restare-
    -Insomma, ma perché ti importa tanto?! Non le piaci neanche, non ti rivolge nemmeno la parola, per lei sei uno stupido fallito, un drogato senza speranza, un patetico ragazzino, un delinquente, hai visto come ti guarda? Come guarda i segni che hai sul braccio e i tuoi tatuaggi? Ti giudica prima ancora di conoscerti-
    -Perché, non è quello che sono?- Sorrise amaramente. “Making friends with a homeless torn up man, he just kind of smiles, it really shakes me up”. -E poi tu stai facendo lo stesso, con lei. Sei patetica, critichi un tuo errore negli altri perché sei troppo cieca, troppo arrogante per vederlo in te stessa, ma quando fai così non sei tanto diversa da lei. Dalle una casa, prova, magari imparerà, magari cambierà-
    -Le persone non cambiano-
    -No, ma crescono. È solo una bambina e tu sei sempre stata una brava sorella maggiore.. almeno con me lo sei stata- sorrise ancora e bevve un sorso dalla sua birra.
    E guardandolo, Jane si rese conto che tutto quello che aveva di buono era Jim.
    -Sei un cazzone- disse, sorridendo a sua volta, e gli diede un buffetto sulla spalla.
    “You know that life really takes its toll and a poet's gut reaction is to search his very soul. So much damn confusion before my eyes, but nothing seems to phase me and this one still survives.”
    E senza una vera ragione si chiese perchè, ogni volta che cantava quella canzone, non riusciva a dire poison heart. La sua versione era “I just want to walk right out of this world, ‘cause everybody has a broken heart”

    Mary camminava, camminava di nuovo senza sapere dove andare. Non sapeva nemmeno se sarebbe poi tornata da Jane, ma lei non le aveva ripetuto di andarsene, anzi, non le aveva semplicemente più rivolto la parola, dunque si considerava in sospensione di giudizio. Non avendo molto da fare, aveva avuto occasione di osservare tutte quelle cartacce appese al muro, quei disegni, quelle foto, incollate appena sopra il materasso. Quei disegni erano fantastici, e le foto, bè.. alcune erano di Jane e Jim, più piccoli, meno sciupati, più fragili forse ma più felici, o forse solo più ingenui. Per un istante la sua mente era andata vicino a capire qualcosa in più, una verità su tutti loro, su tutti quei disgraziati, ma solo per un istante, e ci era andata solo vicino.
    E ora camminava per strada e per una volta non si chiedeva che aspetto dovesse avere. Per una volta non si stava chiedendo se sembrasse una principessa, per una volta non le importava sembrarlo. Camminava e basta, e si ritrovò sulla sesta, dove dei bambini vestiti di stracci giocavano con un vecchio pallone da basket sgonfio in un piccolo spiazzo oltre il marciapiede. Era passata centinaia di volte per quella strada, e quei bambini c’erano sempre stati, ma era come se li vedesse davvero per la prima volta, come se le importasse della loro presenza per la prima volta, ma, per quanto questo, per lei, fosse un passo da gigante, ancora non riusciva davvero a vederli. Li percepiva, li sentiva ridere. Avevano così poco, eppure ridevano in un modo che lei, che aveva sempre avuto tutto, non aveva mai riso, ma la sua mente non era ancora in grado di percepire questa sottile differenza. Si chiedeva solo come facessero a sopravvivere, come potessero ridere nonostante le loro patetiche esistenze. Si chiese perché lei non ci riuscisse.
    Nel lato opposto della strada camminava un ragazzo. Mary non l’aveva visto, ma era davvero un bel ragazzo. I capelli ricci, castani, forse un po’ troppo lunghi, erano intrappolati sotto un vecchio cappellino di tela. Era magro, piccolo di statura, quasi scompariva dentro maglietta degli Operation Ivy e quegli enormi pantaloni da militare. Camminava con le mani in tasca, prendendo a distrattamente a calci una lattina con aria meditabonda, finché una vecchia palla da basket sgonfia non rimbalzò, per così dire, fra i suoi piedi. Allora Mary lo notò, lo vide raccoglierla e avvicinarsi ai bambini con un sorriso smagliante.
    -Posso giocare con voi?- chiese. La ragazza non capì, forse perché quel ragazzo doveva avere più o meno la sua età e stava giocando con dei bambini di non più di otto anni, o forse perché lei anche se avesse amato giocare a basket, non si sarebbe mai fermata a giocare con degli straccioni in miniatura in un campo dimesso appena oltre il marciapiede, fatto sta che rimase immobile a fissarli. Non aveva neanche notato l’aspetto del ragazzo, non ne aveva notato il viso, o l’espressione, ed ora lo osservava senza vederlo davvero. Se fosse andata via in quel momento, probabilmente l’avrebbe dimenticato, ma non lo fece. Poi, d’un tratto, parve svegliarsi e lui era a pochi passi da lei e la scrutava curioso, con un sorrisetto sciocco da ragazzino -Scusa, hai un accendino?- chiese. Stringeva già la sigaretta fra le labbra.
    -No…no, mi spiace- rispose lei. E magari fu il tono a tradire il disorientamento della ragazza, o magari l’espressione di chi non è esattamente dove dovrebbe trovarsi, ma lui si sentì quasi obbligato a chiederglielo.
    -Hey, va’ tutto bene?- Mary ci pensò su. No, no che non andava tutto bene, aveva un posto dove stare, e bene o male aveva trovato chi poteva darle da mangiare, e occuparsi di lei, ma ancora non andava bene. Lei era abituata a troppo e ora aveva troppo poco. Lei era persa.
    -Mi sono.. persa, credo- rispose. Ovviamente lui avrebbe capito il senso stretto di quest’affermazione, non quello che lei realmente intendeva quindi, ma non aveva pensato a questo, prima di rispondere. Aveva solo risposto.
    -Ci siamo persi tutti, almeno una volta- disse e quella risposta, così generale, le fece pensare che avesse capito, per un istante. Alzò allora lo sguardo e si ritrovò a guardarlo negli occhi. Un viso da ragazzino di periferia, un nessuno con degli occhi che valevano più di quanto lei potesse anche solo pensare. –La cosa migliore è continuare a camminare, penso…- continuò –.. o almeno è quello che io ho intenzione di continuare a fare, perciò ciao biondina- concluse, superandola e andando avanti.
    -Io ho un nome. Sono Mary- il ragazzo, senza neanche voltarsi, sollevò un braccio in segno di saluto.
    -Io sono Brat, Brat Fitzparker, tanto piacere, biondina!- la voce del ragazzo si era fatta più flebile mentre si allontanava e, per quanto fosse il genere di ragazzo che nauseava Mary , per quanto le avesse dato della “biondina”, nomignolo che detestava, benché sembrasse aver capito in che senso lei si sentisse persa e non avesse speso neanche un istante a consolarla, con riluttanza lo ringraziò sottovoce e riprese semplicemente a camminare, perché, in fin dei conti, aveva ragione.

    In un certo senso si, ma è tutto ancora da vedere, adesso semplicemente devono.. incontrarsi, appunto. La qual cosa non è affatto facile
     
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    Hueco Mundo

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    Uhm... Questo Brat mi pare averlo già visto da qualche parte...

    Lo dicevo io che Jane sotto sotto voleva aiutarla. Altrimenti perché fare tutte quelle storie? Poteva benissimo cacciare Mary a forza di calci in the ass.
     
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  9. Brat Fitzparker
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    Si, bè, diciamo che abbiamo qualche aspetto in comune, e ne ha qualcuno con il vecchio personaggio da cui ha preso il nome, ma lo conoscerete dopo.
    In ogni caso più che altro Jane preferirebbe non avere intorno quella ragazzina, ma non la può abbandonare. "il calcio nelle chiappe" non riesce a darglielo, perchè non sa essere cattiva, a differenza di quello che vuole credere, ma andando avanti tutto sarà più chiaro
     
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  11. Brat Fitzparker
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    Take a rest, as a friend, as an old memoria.

    -Puoi restare- disse Jane secca. Le era costata una fatica indescrivibile dirlo, ma aveva deciso così.
    -Jane..grazie- Mary non era entusiasta, neanche un po’, tutto di quel posto la faceva sentire vuota, senza valore, come era senza valore quell’appartamento, e quel drogato con cui avrebbe dovuto dividere la casa. Jim, il drogato. Ma quello che non sapeva, era quanto quella casa così vuota fosse in realtà più piena di quanto la sua vita fosse mai stata.
    -Oh, non ringraziarmi, ho appena reso la tua vita un inferno. Ora dovrai trovarti un lavoro, e dovrai badare a te stessa, perché a me di te non importa un cazzo. Se non paghi vai fuori, se mi procuri guai, vai fuori. Se anche solo respiri rumorosamente e la cosa mi da fastidio sei fuori, tutto chiaro?- Jane rifletté sull’idea di dirle che era merito di Jim se poteva restare, ma lasciò perdere. Doveva accorgersi da sola di quanto fosse buono, di quanto fosse migliore di entrambe, doveva andare da sola oltre l’apparenza, non doveva essere certo lei a mostrarglielo.
    -Si, certo, mi troverò un lavoro- risposte Mary, ma in effetti non aveva idea di come fare, di dove cercarlo, o di come tenerselo: non aveva mai lavorato in vita sua. Ormai aveva abbandonato del tutto l’idea di andare a scuola, anche solo rientrare in casa per raccattare la sua roba l’avrebbe fatta uscire di testa. Ora ragionava su che genere di lavoro avrebbe potuto fare, ma tutto ciò che le veniva in testa le faceva accapponare la pelle. Non sarebbe mai riuscita a lavare i piatti sporchi nel quale qualche principe aveva mangiato, nel quale anche lei prima mangiava, e anche se non avesse dovuto servire membri dell’alta società, certamente si sarebbe sentita inferiore a chiunque fosse stato seduto a quei tavoli, ma aveva bisogno di quella casa. Voleva un posto dove stare e sembrava sicura della sua idea di tenersi ben stretto quel tetto sotto cui dormire.
    Jane, dal canto suo, era sicura che sarebbe durata poco. Riusciva quasi a intravedere il groviglio di pensieri che affollavano la mente della biondina, e i patti erano chiari: niente lavoro, niente casa. Se non altro, anche se per poco, avrebbe avuto qualcuno che facesse la spesa, invece di dimenticarsene perché era troppo fottutamente fatto.
    -..e mi dovresti anche prestare dei vestiti puliti- continuò Mary.
    -Ah no, non avrai i miei fottutissimi vestiti, se proprio devi, chiedi a Jim- deglutì. Jim, il drogato. Le faceva paura, ecco tutto. Non riusciva neanche a guardarlo in faccia. Perché? Aveva mille risposte a questa domanda, ma nessuna di quelle era stata partorita da un suo personale ragionamento. Le avevano insegnato ad avere paura dei tipi così, e lei ne aveva paura, tutto qui. Non percepiva quello che poteva essere, vedeva solo quello che c’era da vedere, e non si soffermava a pensare che le cose, magari, potessero essere di più di quello che sembrano, perciò anche solo l’idea di indossare i suoi stessi vestiti le dava i brividi, ma era stanca e sporca, voleva solo lavarsi, cambiarsi e dormire un po’, anche quel vecchio divano sfondato, adesso, riusciva a sembrare confortevole e poi avrebbe dovuto conviverci, no? Tanto valeva..così si avvicinò a Jim, che se ne stava steso sul letto, le mani sotto la testa, e fissava il soffitto. Pensava al suo tempo, lo faceva spesso, quando era presente a se stesso, ed era una cosa che non sopportava fare. Si rendeva perfettamente conto di essere patetico, di non valere più niente, di meritare la fine che stava facendo perché aveva fallito. Poteva essere grande, poteva farcela, ma aveva fallito. Still it’s hard, hard to see, fragile lives, shattered dreams. E per quanto Jane gli avesse sempre detto che non era stata colpa sua, in fondo, lui sapeva che non era così.
    -Jim…- la voce uscì flebile dalle labbra di Mary, aveva cambiato idea non appena aperta la bocca, e sperava che lui non l’avesse sentita, ma così non fu. Jim la stava guardando.
    -Dimmi-
    -Mi.. servirebbero dei vestiti, Jane.. ha detto di chiedere a te- il ragazzo si mise a sedere.
    -Quindi?-
    -Quindi cosa?-
    -Chiedi-
    -Te l’ho già chiesto- Jim si limitò a sollevare un sopraciglio.
    -Potresti.. prestarmi dei vestiti?- Lui non rispose, semplicemente si alzò.
    -Impara a chiedere le cose in maniera diretta, ragazzina, o nessuno ti darà niente, qui- l’aveva detto con un tono di voce caldo, quasi paterno: gli faceva tenerezza quella ragazza, così infantile, così vuota, ma in lei vedeva qualcosa. Lui vedeva del buono in tutti.
    Tornò pochi minuti dopo con in mano una vecchia maglietta dei The Strokes e dei pantaloni neri mezzo stracciati. Glie li porse e il suo sguardo cadde sulla sua vecchia chitarra, poggiata al muro, alle spalle di Mary. Lei intanto si sentiva in imbarazzo, non sapeva esattamente cosa dire, se ringraziare, o stare semplicemente zitta. Stava per aprire bocca, quando lui la superò per avvicinarsi allo strumento, davanti al quale si accovacciò.
    Era una vecchia Squire rossa come il fuoco, pasticciata qui e là con un pennarello indelebile e coperta di adesivi e pezzi di nastro isolante, messi per nascondere il legno nei punti in cui si era staccata la vernice. Dietro il manico, incisa nel legno, c’era una piccola J che ormai sembrava più il segno di un colpo che un segno voluto. Le corde erano vecchie e coperte di ruggine, avrebbe dovuto cambiarle, forse, ma non aveva troppa importanza se non veniva usata.
    Stava lì a prendere polvere, a morire, in silenzio, come lui. Non la suonava da anni, e ogni tanto si ritrovava a guardarla ancora come si guarda una donna che tanto hai amato e che ora, semplicemente, rimane un ricordo lontano nella tua mente.
    La biondina si avvicinò silenziosamente a Jim, e per una volta il suo cervello intuì qualcosa, nell'espressione del ragazzo: un profondo e malcelato desiderio di riprenderla in mano.
    -Perché non la suoni un po’?- chiese. Lui si voltò a guardarla, ma non disse niente.
    -Lui non suona da anni- la voce di Jane irruppe nel silenzio, chiara e forte, risuonando nella stanza vuota.
    -E perché non lo fai?- il ragazzo ora guardava di nuovo lo strumento e la nostalgia aveva lasciato spazio alla rabbia, quella isterica e infantile che ti fa venire le lacrime agli occhi.
    -Non sono affari tuoi- rispose, secco, distogliendo lo sguardo e nascondendolo, da chi poi? Probabilmente da se stesso.
    Si alzò e andò in bagno. Poco dopo tornò con un laccio emostatico e una siringa. Aveva pensato abbastanza. Accese la radio, alzò il volume. Nirvana. Come as you are.
    Legò il laccio emostatico stretto sul braccio.
    Take a rest.
    Infilò la siringa al centro della necrosi, nell’incavo del gomito destro.
    As a friend.
    E, semplicemente, spinse lo stantuffo, iniettando il contenuto.
    As an old memoria... memoria..
    Lo sguardo di Mary si fece inorridito, ma non riusciva a voltarsi, a non guardarlo.
    Ed ecco che davanti a lei, il ragazzo si lasciava cadere sul letto, sconfitto da se stesso.
    And I swear that I don’t have a gun, no I don’t have gun..

    Mary trovò un lavoro, o si. Ci mise una settimana, ma lo trovò.
    Il più semplice, il più ignobile, ma il migliore che poteva trovare per fare tanti soldi e in fretta.
    Forse il semplice fatto di ridursi a tanto aveva iniziato a smuovere qualcosa, nella sua anima vuota, ma nel corso della sua vita non aveva mai fatto altro che vendere se stessa a chiunque fosse degno di comprare la sua immagine, ora, semplicemente, avrebbe venduto se stessa a chiunque fosse stato in grado di pagarla. Era incredibile come una ragazza così casta e pura potesse aver scelto un guadagno così sporco, ma la verità era che, anche se mai l’avrebbe ammesso, era l’unico modo che aveva per sentirsi ancora come una principessa, per sentirsi ancora apprezzata.
    Perciò quella notte aspettava sul ciglio di una strada di cui neanche sapeva in nome. Indossava il suo vecchio vestito, che aveva dovuto lavare a mano e tagliare per renderlo provocante. Si era lavata e profumata, e ora danzava nella sua nuova maschera, che si era premurata di chiamare Sweet lips. Danzava ancora quando la prima macchina si fermò. Dentro un distinto signore in giacca e cravatta sulla quarantina le sorrideva. Quel sorriso magari in un'altra situazione l'avrebbe spaventata, ma ora lei non sentiva niente, non voleva sentire niente. Salì in macchina.
    -Come ti chiami?- chiese l’uomo.
    -Sweet lips- rispose lei. Il lavoro più semplice del mondo.
    -Io sono Kevin, tanto piacere. Ora veniamo al sodo, quanto prendi?- Mary guardò fuori dal finestrino, e vide la sua immagine nel vetro, proiettata dal riflesso della luce sulla sua pelle lucida. Era arrossita. Non aveva idea di quanto chiedere, non sapeva cosa rispondere. –Allora?- la incalzò lui.
    -Non lo so, cosa… vuoi fare?-
    -Sesso- Certo, grazie, tesoro, sei certamente stato d’aiuto, pensò lei, ma in effetti la domanda che aveva posto era stupida. Vendeva se stessa, e lo sapeva. Chiedere cosa l’uomo volesse comprare era stupido.
    -Cento dollari, in contanti- rispose, cercando di sembrare più professionale, più sicura di quanto in realtà fosse. L’uomo sorrise.
    -Va bene, bambolina- disse, fermando la macchina e spegnendola in uno spiazzo oltre il ciglio di una strada di periferia. Così iniziò la sua prima prova.
    Quando scese dalla macchina, si sentiva vuota. Cento dollari bastavano, si disse. Voleva tornare a casa. Si stupì di quanto potesse sembrare confortevole il pensiero di quel buco di appartamento dopo quello che aveva fatto. Si sentiva sporca. Quell’uomo probabilmente era sposato, probabilmente aveva un ottimo lavoro, dei figli, e probabilmente era rispettato e apprezzato da tutti i suoi colleghi, ma era un bastardo. Per lei tutti coloro che assecondavano le proprie pulsioni e ricercavano piacere sessuale da ragazzine che vendevano se stesse perchè non avevano niente non dovevano essere altro che bastardi, e aveva ragione. Per un secondo la sua mente afferrò qualcosa, un’idea, l’idea che non sempre le cose sono quello che sembrano. Ma questa idea l’abbandonò subito. Tentava di pensare ad altro, di pensare a quanto fosse fredda, quella notte, o a come togliersi quello schifoso sapore dalla bocca. Voleva pensare a tutto, qualsiasi cosa, tranne che a quanto fosse finita in basso. Si sentiva patetica, ma adesso, quel suo viso da principessa, era servito a qualcosa.
    La sua verginità per cento dollari.
    Quando entrò a casa, Jane era sveglia e Jim dormiva. Lei era seduta per terra, in camera, dava le spalle alla porta d’ingresso e fissava la sua parete con una sigaretta in bocca. Mary si aspettava che le chiedesse dove fosse stata, da dove venisse, ma il silenzio che riempiva l’aria rimase intatto. Quel silenzio così denso stava diventando opprimente.
    -..ero a lavoro- disse infine.
    -Non te l’ho chiesto- le rispose la coinquilina, senza voltarsi.
    -Ma questi si- sbottò, sventolandole davanti alla faccia le banconote. –Cinquanta le tieni tu, cinquanta le tengo io- Jane allora si voltò e vide quella ragazzina, che fino ad allora era sembrata così incredibilmente pulita, sobria, rispettabile anche nella miseria, vestire i panni di una prostituta da quattro soldi. Se fosse stata sua madre si sarebbe alzata e le avrebbe dato uno schiaffo, se le fosse importato, le avrebbe fatto notare quanto fosse patetica, quanto fosse disposta ad arrivare in basso per non fare il minimo sforzo, per non vedere le sue manine arrossarsi e indurirsi per il lavoro. Preferiva sporcarsi le mani di sperma e sudore di uno sconosciuto, che di avanzi della cena di qualcun altro, ma non le importava, e quindi non disse niente, si limitò a prenderle i soldi di mano.
    -Domani vai a fare la spesa- le disse. –Compra qualcosa di decente. Non possiamo andare avanti a birre e condimenti, di tutte le cose di cui potrei morire, la malnutrizione è quella meno interessante-
    -Perché, di cosa vorresti morire?- chiese Mary. Jane valutò la possibilità di risponderle male, dirle che non erano affari suoi, ma era troppo stanca e troppo sbronza. Era troppo stanca, ed era troppo tardi, per fare la stronza.
    -Un colpo di pistola, o pastiglie- un brivido strisciò su per la schiena della ragazza. Pastiglie, che idea orribile. Non funzionava. Voleva dirlo, forse, voleva scoppiare a piangere ancora, abbracciare Jane e addormentarsi così, come se fosse sua madre. Ma lei non era sua madre e in questo mondo non le era concesso piangere, e per la prima volta da quando era successo pensò che forse sarebbe stata meglio se fosse morta quella notte con la sua famiglia, pensò che magari non avrebbe visto il proprio declino, e che magari non si sarebbe dovuta abbassare a tanto.

    Quando Jane aprì gli occhi, Jim era sveglio. Sedeva davanti alla sua chitarra, e la fissava, ancora.
    Era la prima volta che capitava per due giorni di fila.
    -Jim...- mugugnò. La testa le scoppiava. Aveva finalmente soddisfatto la sua voglia di bere, la notte precedente. Era andata a lavoro, ma l'avevano cacciata. Non poteva permettersi di saltare neanche un giorno, e lo sapeva, sapeva che sarebbe andata così. Rientrando a casa era passata al 7-11 di quel quartiere per comprare niente più che una bottiglia di Rum. Ne era bastata metà per portarla via, per costringerla a barcollare avanti e indietro per la stanza, per portarla a letto con Jim e lasciarlo dormire, mentre si sedeva a pensare, guardando l'enorme puzzle del suo passato, e ora il sangue si addensava sotto la sua fronte, facendola pulsare. Lui non rispose. -Jim!- alzò la voce.
    -Mi manca, Jane...- rispose lui. Sussurrava, mentre sfiorava appena le corde dello strumento con una mano.
    -Allora suonala- disse lei, mettendosi a sedere.
    -Non posso... non.. non la merito. Lei mi ha dato ali e non le ho sapute usare e..- era di nuovo fatto. Lo era troppo, ancora.
    Jane si alzò e si avvicinò a lui, prendendolo per le spalle. Voleva dire qualcosa, ma non sapeva cosa. Non era mai stata brava a parlare, in questi momenti, e non voleva tirare fuori le solite stronzate di circostanza. Voleva solo poter fare qualcosa, ma non c'era niente da fare, Jim era come un malato terminale a cui restava poco tempo. Cosa poteva dirgli? Niente. Poteva solo essere lì, accanto a lui. Poggiò la testa contro la sua schiena, e pianse.
    Per cosa piangeva? Per lui, per se. Piangeva perchè il mondo era ingiusto e il vittimismo in certi casi era tutto quello che gli restava. Diventava la tua migliore scusa per autocomiserarti.
    Mary ancora dormiva, e ora anche Jim piangeva, silenziosamente.
    Qualche volta semplicemente ne avevano bisogno, e non volevano essere visti da nessuno, ma avevano condiviso anche il sangue, tra loro, ora qualche lacrima non sembrava contare più di tanto.
    And i swear that I don't have a gun, no I don't have a gun...
     
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    Direi che Mary sta cadendo proprio nel baratro. Il tempo della principessina è finito da un pezzo. Jim è, a modo suo, intrigante. Mi ricorda proprio il cantante dei Nirvana,
     
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  13. Brat Fitzparker
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    Si, ci deve sbattere il muso. Il mondo stesso le sta urlando "sveglia ragazzina", in ogni caso Jim si ispira al mio bassista (nella storia suona la chitarra perchè, quando non siamo in saletta, è lui a suonarla). Quando ho scritto il pezzo parlavamo di cosa avremmo fatto alla fine di quest'anno e lui mi ha detto che se non ce l'avessimo fatta, a fare un disco e tutto il resto, avrebbe preferito morire per overdose o vivere sotto un ponte che fare altro. Jim è il fallimento, ed è accomunato a Kurt dalla sua propensione all'autodistruzione, all'autocommiserazione. Il desiderio di smettere di pensare, di smettere di esistere, o di voler vivere solo alle proprie condizioni li rende simili, per quanto le sue ragioni siano diverse. In ogni caso, correzioni o aggiustamenti che potrei fare? Nel senso, dal punto di vista della scrittura, niente da segnalare?
     
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    Errori non ne ho visti. E nemmeno sviste e refusi. Questo potrebbe non volere dire che non ce ne siano, ma che se in caso ci fossero, io non ne ho notati.
     
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  15. Brat Fitzparker
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    We are the lazy generation now.

    C’era un grande concerto in programma, quel pomeriggio, nel piccolo auditorium della Music Accademy, in onore della morte di Richard Smith, un ex generale dell’esercito, un’ autorità.
    C’erano i ragazzini di buona parte delle scuole di Seattle, medie, licei, elementari.
    C'erano generali pluridecorati con indosso le loro lustre uniformi, il governatore, la sua segretaria, tutte le figuri più maledettamente importanti della città, e c'era anche Jane.
    Probabilmente se anche avesse saputo chi fosse Richard Smith, non avrebbe detto niente a Mary, ma non lo sapeva, non poteva immaginare. Per lei era solo Mary.
    Ma perchè Jane era lì? Perchè aveva trovato un nuovo lavoro. Vendeva zucchero, caramelle, e tutto quello che può mandarti su. I ragazzi del liceo amavano quelle caramelle, oh si.
    Era immorale, ed era illegale, ed era stupido, ma non le importava. Lei aveva bisogno dei soldi, e quei figli di papà erano stramaledettamente ricchi, non le importava di rovinare le loro vite, non meritavano la sua considerazione, la sua protezione. Era lì poggiata al muro, nascosta nell'ombra, e non poteva fare a meno di riflettere sulla vita che non aveva avuto. Era nauseata da tutto quello sfarzo e quei festeggiamenti per la morte di un povero bastardo come mille altri, di uno dei tanti che aveva vissuto nel lusso tutta la vita, che non se l'era mai dovuta cavare da solo. è facile arrivare a cento partendo da settanta, ma partendo da zero? Eppure nessuno organizzava un concerto per tutti quei poveri bambini figli di nessuno il cui cuore rimaneva incollato all'asfalto, una notte, non uno di tutti quei bastardi si sarebbe presentato alla cerimonia per la loro dipartita. Non erano importanti, non valevano niente.
    La schifavano anche quei ragazzini, tutti così pieni di speranze, di possibilità. Loro aprivano la bocca e mammina e papino imboccavano. Non dovevano fare altro che godersi il tempo che non passavano a scuola, senza capire perchè ci andavano.
    Jane non aveva finito il liceo, a metà del terzo anno aveva dovuto mollare: non poteva permetterselo, eppure, anche se forse non le sarebbe piaciuto ammetterlo, amava imparare, era curiosa. Era anche sveglia, ma forse non se ne rendeva conto, forse non le importava esserlo, o semplicemente non le serviva. Avrebbe voluto fare qualcosa della sua vita, andare da qualche parte, e non aveva potuto, e tutti quei ragazzini che potevano buttavano quella possibilità nel cesso, e chiunque di loro avesse voluto fottersi la vita infilandosi un ago nel braccio, o ingoiando pastiglie, o sniffando per dimenticare la festa a cui i genitori gli avevano impedito di andare, bè, tanto peggio per loro.
    Per ora vendeva solo cocaina e ketamina, aveva cinque grammi di ciascuno. Una dose si aggirava intorno agli 0.2 grammi. Mezzo grammo sarebbe bastato a far diventare scemo un cavallo. Trenta dollari per 0.2 grammi. Aveva preso il carico a fido, ciò significava come preso in prestito, in pratica lei prendeva una quantità del valore di 1500 dollari circa, e, una volta rivenduto tutto a un prezzo più alto, doveva ridare in soldi il valore della droga presa in "prestito" con gli interessi. Si faceva un piccolo passaggio, erano circa 700 dollari, alla fine, ma erano abbastanza. Non le importava quanto fosse sciocco e prendeva certamente di più che lavando piatti.
    E il concerto, intanto, era finito. E Jane, intanto, si era ritrovata a parlare con tre ragazzini della quarta liceo. Aveva iniziato a lavorare.

    Quella notte c'era un concerto, aveva detto Jim. Veniva un gruppo di ragazzini a suonare al Jack's Rock su Kempton Street.
    -Ci sono i F-ups sta sera, andiamo?- era incredibilmente di nuovo lucido, ma doveva esserlo. Se cercava di ammazzarsi per sentirsi un pochettino più vivo fino all'ultimo dei suoi giorni, ora non ne avrebbe avuto bisogno. Tutta quell'adrenalina, la musica che fa fischiare le orecchie e girare la testa, tutte quelle persone che urlavano e si muovevano, e sudavano, tutti insieme, all'unisono, lo rendeva euforico, vivo come non era mai stato. E faceva lo stesso effetto a Jane.
    -I chi?- chiese Mary, disorientata. Non aveva mai visto un concerto, ne mai aveva pensato di andarci, in effetti non aveva neanche la più pallida idea di come funzionasse, di cosa fosse, esattamente. Musica dal vivo, era per lei, un concetto quasi astratto, blasfemia per gli altri due ragazzi, che, all'improvviso erano ammutoliti. Qualche istante ancora e poi Jane si riprese. Non la stupiva affatto che quella ragazzina, quella puttanella da quattro soldi, non avesse mai anche solo sentito l'odore della folla che urla e scalpita davanti alla voce della liberazione. La liberazione da cosa? Dalla vita. Dal tempo. Non la stupiva sapere che non aveva mai vissuto un secondo, un'ora, un giorno, senza tempo. Una generazione che si nutriva del momento senza sostanza e senza significato, e lei non ne faceva parte.
    -Non è roba per te- rispose gelida, per poi mandar giù un sorso della sua birra.
    -Io invece penso che dovrebbe venire..- disse Jim. Jane per poco non sputò il sorso che ancora stava ingoiando.
    -Ma dai! Non è roba per lei. Non verrà.- ripetè. Non la voleva intorno, accidenti, non voleva che entrasse nel suo mondo, non voleva che lo capisse perchè pensava non fosse degna di farlo.
    -No, invece no. Magari imparerà qualcosa, magari le piacerà, tu che cazzo ne sai? Piantala di fare la stronza, la portiamo-
    -Jim..- ricominciò la rossa e ora stava per scoppiare di rabbia.
    -No, piantatela- li interruppe Mary. -Io non voglio venire- l'altra rise.
    -Ah! Visto? Te l’avevo detto che non è roba per lei. Cosa c'è, il sudore di uno solo ti piace, quello di un centinaio di persone ti fa schifo?-
    -Jane, piantala!- l'ammonì il ragazzo. La biondina, invece, dal canto suo voleva dirgliene quattro, ma in fondo era troppo stanca, in fondo, ora, non le importava di niente. Non si sentiva neanche viva. Avrebbe potuto dirle che era cattiva, no.. voleva dirle che era proprio una stronza, ma non ne aveva voglia, aveva altro a cui pensare: il niente. Non si era neanche resa conto di aver pensato una parolaccia. Mai ne aveva dette nella sua vita, ma ora che non sentiva altro, non faceva neanche caso al fatto di averne anche solo pensata una. -..Mary, tu vieni con noi, senza ma, non m'interessa. Devi vederlo con i tuoi occhi, devi imparare qualcosa- disse secco Jim. Mary neanche ribatté.
    Due ore dopo erano dentro il Jack's Rock, sulla Kempton Street.
    L'interno era piccolo e opprimente, le pareti erano grigie in cemento e c’era un piccolo bancone, nell’angolo accanto alla porta, dietro cui luccicavano le bottiglie degli alcolici: solo distillati, rum, whiskey, vodka, grappa. Niente di più. Ovunque guardassi potevi vedere ragazzi di tutte le età che si contorcevano a ritmo di musica. Saranno stati un centinaio in tutto, troppi per le dimensioni infime del posto. Nell’aria aleggiava un odore acre, un misto fra puzza di chiuso, sudore e vomito. Non proprio un posticino per principesse, dunque.
    Il barista, Mark, lavorava lì da sei o sette anni, ed era poco più grande di Jane.
    Un gruppo stava suonando già da un po', erano all’ 'ultimo brano, ed era una cover di My generation degli Who.
    -Ciao Mark!- chiamò la rossa, avvicinandosi al bancone. -Come stai? Vivi ancora nel caldo culo di tua madre o ti sei trasferito?-
    Things they do look awful cold, I hope I die before I get old.
    -Si, fra le tue chiappe! E ti dirò, non si sta male-
    -Si, aspetta che vada al cesso, poi dimmi se ti piace ancora- risero entrambi.
    -Ciao Jane, sei qui anche tu per i F-ups?-
    -Siamo, c'è anche...- la ragazza si voltò e non trovò altri che Mary che si guardava intorno, incuriosita. Forse era addirittura più bella così, con un po' di trucco nero sugli occhi, messo come capitava, forse perchè non le importava davvero di truccarsi per una cosa simile, per un concerto, o forse perchè, non essendosi mai truccata, non lo sapeva fare, una maglietta nera smanicata, un vecchio giubbotto in jeans che aveva trovato in giro per la casa e dei pantaloni neri, con qualche strappo qua e là. Ma dov'era Jim? Doveva essere già corso in mezzo alla folla, a saltare e cantare. A sentirsi vivo. Amava quella canzone.
    I'm not trying to cause a big sensation, I'm just talkin' 'bout my generation.
    -Oh, si, la tua amica... chi è?- Chiese Mark.
    -Ah, no, c'era anche Jim, lei comunque è Mary e..-
    -Jim? Avevo sentito che era morto-
    -No, ma ci sta provando in tutti i modi, scusa, ma ora devo proprio andare- disse, salutando il ragazzo con un distratto cenno della mano, per poi prendere Mary per il polso e trascinarla con se.
    -Dove diavolo mi stai portando?- Jane rise. Si sentiva così tanto a casa da aver scordato per qualche secondo tutto l'astio che provava nei confronti della ragazza. Ora erano due corpi senza tempo, non le importava ne il nome, ne la provenienza. Era solo un'altra anima, altro tempo che si sprecava a cercare rifugio dal tempo stesso.
    -Ti porto a vivere, ragazzina-
    This is my generation, this is my generation, baby.

    Ora sul palco c’erano i F-ups. Suonavano la loro canzone preferita.
    We are the lazy generation, no more standing out in line, so good at wasting our time.
    Jim ballava e saltava, urlava e sudava, si sentiva vivo. Non ci pensò propriamente su, in quel momento non pensava, semplicemente, ma gli mancava tutto quello. Gli venne quasi da piangere, mentre guardava verso il palco: quattro ragazzi che da zero erano riusciti a salire, ad arrivare, se non in cima, almeno da qualche parte. Quello che aveva sempre sognato, loro erano dove voleva essere lui. Lo spirito era quello, in fondo, diventare altro, dimostrare che non sei ciò che hai, e Jim ora era in negativo, ma quella notte, in quella stanza, fra i corpi umidi di altri ragazzi come lui, persi come lui, spaventati, sconfitti come lui, tutto quello che era successo non era mai accaduto, il tempo non esisteva, passato, presente, futuro, si incontravano e si annullavano, sotto il raptus estatico di un halleluja collettivo in onore della liberazione dal mondo, della depurazione dell'anima, solo per lasciar spazio a qualcos'altro. La consapevolezza di non essere soli, forse, o la rabbia che fluiva contro il palco, e scivolava fuori dal locale, per riprenderti non appena avevi varcato la soglia. Ma in fondo non è quello che vogliamo tutti? Nessuno dei ragazzi che lì in mezzo saltava avanti e indietro urlando avrebbe saputo spiegarlo, non era importante farlo. Cos'era la musica per loro se non un tentativo disperato di cambiare le cose? E ora, qualcosa stava cambiando. A Jim non serviva più droga, non serviva più nient'altro che quello, si sentiva forte, niente più che un bambino che sogna. Ora lui riusciva ancora a sognare.
    We are the lazy generation, we are the lazy generation, we are the lazy generation now!
    Jane urlava e agitava i pugni in aria, combatteva per lasciare andare la testa, seguiva il movimento collettivo, e non era niente più che una bolla nel mare, e con esso si agitava. Si lasciava andare, scivolare, verso la fine. Ora non le importava più, le cazzate, le ingiustizie, tutti quei visi disillusi, quei sogni infranti, era tutto fuori, o forse era lei, a essere fuori dal mondo. Lucida, viva, sentiva il sangue ribollire, il cuore pompava forte ed era come se la vita fosse stata semplificata, sintetizzata in quella frenetica ricerca della liberazione, che aveva sfogo e realizzazione solo sotto quel suono, così sporco, così infantile, così banale, così espressivo, forte, così fottutamente punk. Un messaggio chiaro e semplice: erano una generazione persa a cui non importava di essersi persa. Lo erano e basta, avevano accettato il loro destino, e ora stavano aspettando la morte lasciando che il sangue scorresse e che le gambe gli facessero male; che la gola raschiasse, che le orecchie fischiassero e che la testa iniziasse a girare.
    We are the lazy generation,they call us social mutations, why? You can just drop dead and die.
    Nothing we do ever seems to matter, just like shit on a silver platter shines.
    Yeah you know just where we stand!

    Erano soli, e lo erano insieme. Camminavano da soli, ma tutti sulla stessa strada, e quella notte erano più soli che mai, e più uniti. Entità separate che si muovevano come una massa unica.
    Non c'era più niente di statico, niente di complicato, era pura e semplice forza. Nessun freno, nessun blocco. Erano tutti per tutti e tutti per se simultaneamente.
    Un'emozione talmente semplice e intensa da essere indescrivibile.
    Stand up and shout, we won't be there for you.
    Hey, ho, hey, ho, hey, ho, lets go!

    Mary veniva spinta da un lato all'altro della sala, e all'inizio non capiva, sbatteva corpo su corpo e si muoveva come tutti, si muoveva con tutti, senza capire. Poi iniziò a sentirlo, e la sensazione divenne pensiero, e il pensiero divenne ragione, consapevolezza. La consapevolezza che quello era troppo da descrivere, più di quanto avesse mai provato nella sua intera esistenza. Fu come se la sua mente si fosse spalancata, guardava i visi di Jane e di Jim, le lacrime nel loro sguardo, che si mescolavano al sudore, e finalmente li capiva. Sentiva urlare, gridare, vedeva la massa di persone avanzare e arretrare, come in una danza tribale, primitiva, animalesca, ma era tutto ciò di cui c'era bisogno. Si lasciò guidare dal suo corpo, e scoprì che riusciva a sentire anche lei qualcosa. Sentiva rabbia, frustrazione, ed era felice. Voleva urlare, voleva piangere e voleva muoversi. Chiunque fosse su quel palco, stava dicendo proprio quello che era giusto dire, e chiunque ci fosse lì in mezzo, stava facendo esattamente quello che era giusto fare. Ora anche lei sentiva il tempo fermarsi, ora non scorreva più, era immobile. E nel collasso temporale era tutto incredibilmente dinamico, fottutamente dinamico. Lei capiva, le sentiva, sentiva tutte quelle sensazioni, si sentiva regina di un mondo senza sovrani, e sapeva che ognuno, in quella stanza, si stava sentendo come lei.
    Capì che tutto quello di cui si era sempre preoccupata, in realtà, non aveva importanza, significato. Non era emozione, non lo era mai stato. Se avesse avuto tempo per farsi domande, si sarebbe chiesta se avesse mai provato qualcosa di vero, nella sua vita, in quel momento non aveva importanza, niente ne aveva. Ora Mary piangeva e saltava con gli altri, e per la prima volta, nella sua vita di ragazzina, sentiva qualcosa. Il cuore pulsava forte come mai aveva fatto, il sangue scorreva veloce, lo poteva sentire appena sotto la pelle, la testa girava, ed era fantastico che lo facesse. La cosa più simile alla sensazione di volare che un essere umano potesse provare.
    Ora lei era viva, faceva parte di quella generazione. Ora si guardava intorno, e poteva sentire tutto quello che sentivano gli altri, non era fuori posto, no, era a casa, più di quanto non lo fosse mai stata: quella puzza di corpi sudati, di birra e di sigaretta. Quel sapore acre che lascia la saliva quando si secca, quel dolore graffiante alla gola di quando hai perso la voce, ma continui a urlare, perchè quella è forse l'unica occasione che avrai di farlo.
    I pugni alzati erano un simbolo, la terra tremava ed era giusto così. Non importava chi era stata o chi sarebbe diventata, ora lei era e basta e non poteva non essere lì, non poteva non lasciare che tutto accadesse, e doveva essere veloce, come quella musica, doveva essere forte, come quella musica. Stava correndo con tutti gli altri per fuggire dal mondo e dal tempo, e per la prima volta sentiva giusto farlo.
    Non c'era per nessuno, era dentro se stessa, e stava tirando le somme. Stava scoprendo qualcosa di nuovo, qualcosa che forse non avrebbe mai provato in tutta una vita, se prima non si fosse persa. Non aveva bisogno di fermarlo, non aveva neanche intenzione di provarci.
    Stand up and shout, we wont be there for you.
    Hey, ho, hey, ho, hey, ho, lets go!

    Davanti alla fine, ora lei sorrideva. Il primo vero sorriso che avesse mai regalato al mondo.
    Era viva, e voleva urlarlo. Era appena nata, da crisalide a farfalla, non sapeva quanto sarebbe durato, ma si disse che se anche fosse stato un secondo, non avrebbe mai più dimenticato quella sensazione di onnipotenza. Era Dio, lo erano tutti in quella stanza e il mondo non era altro che uno schiavo succube di quelle parole, di quel suono, di quelle grida, di quel movimento.
    We are the lazy generation
    We are the lazy generation
    We are the lazy generation
    We are the lazy generation
    Now.... Now!
     
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