Anime di metallo

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    Sono davvero felice che ti stia piacendo! *____* Comunque continuerò, non preoccuparti! :D Oggi stesso aggiornerò con il successivo capitolo... sperando di riuscire a rileggerlo meglio di questo in cui ci sono frasi che si ripetono. :D

    Credo che per il passato di Ronnie ci sarà da aspettare ancora un po', comunque! :P

    Grazie per avere letto e commentato. *-*
     
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    Capitolo 6.
    «Ebbene sì, la figlia di mia cugina ce l’ha fatta» raccontò l’uomo sui settant’anni che stava appoggiato contro al bancone, con davanti a sé la tazzina vuota del caffè espresso che si era scolato tutto d’un fiato. «Si è laureata con il massimo dei voti, non puoi immaginare che gioia.»
    «In cosa si è laureata?» gli domandò Kelly, fingendo interesse per l’argomento.
    L’uomo la guardò con gli occhi spalancati.
    Era uno dei tanti che non facevano che vantarsi dei successi scolastici e universitari di tutta la discendenza dei loro parenti stretti e alla lontana, senza avere la benché minima idea di che cosa questi ragazzi stessero studiando. Kelly ne vedeva a bizzeffe ogni giorno e tutti sentivano l’esigenza di narrarle la storia della loro esistenza, a partire dal momento in cui avevano visto la luce, passando alla loro infanzia, agli anni dell’adolescenza, al momento in cui avevano incontrato la persona della loro vita, per poi passare a parlare dei loro figli, dei loro eventuali nipoti e, in taluni casi, di come vivevano la loro vedovanza.
    «Mhm... non mi ricordo, in effetti» ammise il cliente. «Lo chiederò al marito di mia cugina, la prossima volta che ci troviamo per una partita a carte.»
    Kelly sorrise.
    «Mi raccomando, poi mi faccia sapere, che m’interessa.»
    In realtà non gliene importava un bel nulla, ma il successo dello Starlit Cafè dipendeva anche dalla sua capacità di ascoltare le persone che aveva di fronte.
    «E lei?» le chiese all’improvviso l’uomo.
    Kelly rimase spiazzata.
    «Io... io che cosa?»
    «Lei cos’ha studiato?»
    La cameriera ridacchiò.
    «Se avessi studiato, spererei di non essere qui a preparare caffè tutto il giorno.»
    L’uomo annuì e adocchiò immediatamente un giornale posizionato sul tavolino più vicino.
    Lo prese in mano e rimase a guardarlo, senza sfogliarlo.
    «Sa, signorina» riprese, «a volte mi sembra ieri che mi sono sposato con mia moglie, e invece è stato nel 1941. Mi sembra così strano che siamo già nel 1988.»
    «1989» lo corresse Kelly.
    «Come dice?»
    «Niente. Non ha importanza.»
    A quel punto andò a sedersi al tavolo sul quale aveva trovato il quotidiano. Iniziò a sfogliarlo. Meglio così, si disse Kelly, almeno le avrebbe lasciato qualche minuto di tregua. Continuava a non riuscire a togliersi dalla testa il ragazzo che era venuto al bar poco dopo l’alba, quello a cui avevo offerto una bottiglia d’acqua da un litro. Come diamine era possibile che un tizio che non somigliava per niente a Ronnie portasse il suo stesso identico nome? E soprattutto per quale dannata ragione il ricordo del ragazzo che aveva distrutto la sua esistenza, quello per cui ora i sensi di colpa la consumavano giorno dopo giorno, doveva continuare a farle visita in tutte le forme più subdole? Non aveva senso.
    Ronald Craven.
    Ronnie.
    Lei e Ronald Craven.
    Lei e Ronnie.
    Non c’era nulla oltre un ricordo banale e lontano.
    Non c’era nulla oltre quello che non c’è più.
    C’è uno sconosciuto che portava il suo nome, null’altro.
    C’era stato Rick, ma non c’era più.
    C’è uno sconosciuto che ora se n’era andato.
    Se n’era andato, ma non definitivamente, come invece era accaduto a Rick.
    Ronald Craven.
    Un nuovo Ronald Craven.
    No, non poteva chiamarsi Ronald Craven.

    «Kelly James, sei ancora su questo pianeta o stai definitivamente pensando di rimanere sempre su uno a tua scelta dei satelliti di Giove?» sbottò suo zio Colin.
    Kelly si girò di scatto.
    «Scusa.»
    «Più il tempo passa e più mi ricordi tua madre» osservò Colin. «Un tempo credevo fosse un bene, ma adesso non posso far altro che comprendere quanto questo sia un male.»
    «Beh, se somiglio a mia madre non posso far altro che colmare il vuoto che hai provato quando lei ha lasciato Starlit Spring per andarsene insieme al suo nuovo fidanzato.»
    Colin rise.
    «Vuoto?! Ma quale vuoto? Dopo che ha reso la mia infanzia un inferno, almeno a cinquant’anni ha deciso di smetterla di stare tra le scatole!»
    Sembrava che Colin detestasse la propria sorella maggiore, ma Kelly sapeva che non era così. Quella donna bizzarra gli mancava, ed era quella l’unica ragione per cui le aveva offerto un posto di lavoro in quell’orribile bar in cui si fermavano soltanto pensionati usciti per andare a mangiare una brioche alle sette meno un quarto del mattino, cosa che la portava da anni a chiedermi perché diamine si dovessero alzare all’alba, se non dovevano andare a lavorare.
    Era una fortuna per lei essere l’unica nipote di Colin James, di fatto la sua unica parente ancora vivente, a parte sua sorella, la madre di Kelly – sempre se sua madre non era morta negli ultimi mesi, dato che era trascorso parecchio tempo dall’ultima volta in cui si era ricordata di telefonarle. Significava avere un’occupazione. Era uno stronzo, così almeno la pensava Kelly, si comportava da stronzo con tutti, ma non con lei. Quel Ronald Craven che era venuto al bar si sbagliava di grosso: se anche Colin James avesse saputo cosa pensava di lui, non si sarebbe mai e poi mai azzardato a licenziarla.
    «Oggi mi sembra che tu abbia la testa tra le nuvole ancora più del solito» riprese Colin. «Mi vuoi spiegare che cos’è successo prima che io arrivassi?»
    «Se lo volevi sapere, perché non sei venuto tu ad aprire il bar?» replicò lei.
    «Ti conosco, Kelly» insisté lui, ignorando quel commento. «Deve essere capitato qualcosa di davvero piacevole... o spiacevole.»
    «Beh, sì» ammise Kelly. «È davvero capitato qualcosa, solo che non so ancora se sia piacevole oppure spiacevole.»
    «Ecco, sono proprio le parole che mi sarei aspettato di sentire in bocca a tua madre! Ma dato che, seppure non somiglio per niente a tua madre, ho la sua stessa curiosità, ora mi fai il favore di raccontarmi di che cosa si tratta.»
    Kelly sbuffò.
    «Ma i clienti...»
    Colin la interruppe: «I clienti stanno bevendo i loro caffè, mangiando le loro paste o sfogliando le pagine dello sport sui quotidiani. Non mi sembra che abbiano urgentemente bisogno di te.»
    «No, hai ragione» fu costretta a concordare Kelly.
    «Perfetto.»
    Cercò di non pensare a Ronnie... al vero Ronnie, non allo sconosciuto che era venuto al bar al solo scopo di utilizzare la toilette quella mattina. L’impresa era già ardua di solito, figurarsi in un momento come quello.
    «Allora, Kelly?»
    «Niente di che» rispose, cercando di non far capire quanto l’avesse colpita quel caso di omonimia. «È venuto al bar un cliente...»
    Suo zio la interruppe ancora una volta: «Un pensionato?»
    «Oh, no, uno giovane» rispose Kelly. «Avrà avuto venticinque anni a dir molto.»
    Vide Colin sorridere.
    «Perfetto.»
    «Perfetto? Che cosa?»
    «Il fatto che sia venuto al bar un ragazzo giovane e che tu te ne sia ricordata. Non voglio una nipote zitella, quindi affrettati a ritrovarlo.»
    Kelly spalancò gli occhi.
    «Ho menzionato una persona che ho visto una sola volta nella mia vita e per non più di cinque minuti, e tu pensi che...? Stammi a sentire: nella nostra famiglia ce n’è una che si comporta così, e di sicuro non sono io.»
    «Ma sei sua figlia» ribatté Colin. «In qualcosa le somiglierai pure, no?»
    «Nell’avere la testa tra le nuvole forse. Non nel mettermi insieme al primo che passa per la strada. E poi quel tipo ha un nome che non mi piace.»
    «Un nome che non ti piace? Kelly, scusa se te lo dico, ma questa è la peggior cazzata che io abbia mai sentito. E sentiamo, come si chiamerebbe?»
    Kelly scosse la testa.
    «Non hai capito.»
    «Impossibile, io capisco tutto al volo.»
    “Dice tanto di mia madre, ma a quanto pare la famiglia James è piena di gente tarata” si disse Kelly. “Forse lo sono io stessa.”
    «Ha lo stesso nome di una persona che voglio dimenticare» rivelò a suo zio, «Lo stesso nome e lo stesso cognome.»
    «Non è grave, secondo me» obiettò Colin.
    «Invece lo è, fidati. Lo è eccome.»
    Fortunatamente in quel momento la porta d’ingresso si spalancò. Entrò uno dei clienti abituali del bar, venuto a bere il solito caffè delle nove e trenta del mattino.
    Colin, da perfetto titolare tuttofare, corse ad accontentarlo, mentre Kelly lanciava un’occhiata alla porta della toilette, come a sperare che si aprisse e ne uscisse magicamente il ragazzo dai capelli biondi che si era presentato come Ronald Craven e che non somigliava per nulla a quel Ronnie che aveva rovinato la sua esistenza.
    “Sono proprio pazza” pensò.
    D’altronde non era una novità. Doveva esserlo necessariamente, se aveva rischiato di mandare all’aria la sua vita a causa di uno come Ronnie.
    Se solo fosse stata davvero come sia madre! Lei terminava una relazione ed era come se questa non fosse mai esistita, si ritrovava ad essere una nuova Ursula James e per lei la vita ricominciava da zero, come se nulla fosse accaduto.
    «Kelly?»
    La voce di Colin la fece sobbalzare.
    Si girò di scatto.
    «Sì?»
    «Non dirmi che stai ancora pensando agli affaracci tuoi.»
    «Oh, no» replicò Kelly. «È che per un attimo stavo pensando a mia madre.»
    «Perfetto» rispose. Pronunciava quel termine in continuazione, in qualunque discorso, anche quando non vi era alcuna ragione per farlo. «Tua madre, però, in questo momento difficilmente sta pensando a te, non credi? Quindi che ne dici, per par condicio, di evitare di perderti in questo genere di riflessioni inconcludenti?»
    Kelly sospirò.
    «Hai ragione tu. È la soluzione migliore.»
    «Perfetto» concluse Colin. «Io ho sempre ragione, del resto.»
    Kelly si sforzò di non scoppiare a ridere e si rese conto che era meno complicato del previsto. Stava ancora pensando allo sconosciuto che si era presentato come Ronnie Craven, si stava chiedendo dove si trovasse e se si sarebbero mai rivisti.
     
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  3. GÆBRIEL
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    Mhm... interessante... secondo Kelly, Ronnie gli ha rovinato la vita... vorrei che Ronnie la rovinasse a me la vita! Altrochè!

    E ora continua!!!!
     
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    CITAZIONE (GÆBRIEL @ 29/5/2013, 14:04) 
    Mhm... interessante... secondo Kelly, Ronnie gli ha rovinato la vita... vorrei che Ronnie la rovinasse a me la vita! Altrochè!

    E ora continua!!!!

    Ahahahah in effetti! :D
    Comunque l'aggiornamento dovrebbe arrivare nel pomeriggio. ^^
     
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  5. GÆBRIEL
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    CITAZIONE (»Milù Sunshine» @ 29/5/2013, 14:53) 
    CITAZIONE (GÆBRIEL @ 29/5/2013, 14:04) 
    Mhm... interessante... secondo Kelly, Ronnie gli ha rovinato la vita... vorrei che Ronnie la rovinasse a me la vita! Altrochè!

    E ora continua!!!!

    Ahahahah in effetti! :D
    Comunque l'aggiornamento dovrebbe arrivare nel pomeriggio. ^^

    Notizia ottima!!!! :D
     
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    Parte conclusiva del capitolo 6.



    La luce filtrava nonostante le spesse tende dal colore indefinito, che a un accurato esame fremevano dal desiderio di essere lavate. Michel aveva ancora il suo orologio digitale al polso, e segnava le 11.32. Considerando che era riuscito a buttarsi sul letto soltanto alle sette e un quarto della mattina aveva dormito poco più di quattro ore nelle quali, ne era sicuro, si era ritrovato a sognare Kelly James.
    Si sentivo stanco e sicuramente le sue occhiaie non erano diminuite rispetto al momento in cui quella cameriera le aveva criticate, ma cercare di riprendere sonno non avrebbe avuto senso. Si alzò e si trascinò verso il bagno, ripensando alla sua reazione nel momento in cui le avevo detto di chiamarmi Ronald Craven. Si era comportata in modo anomalo, non c’era verso di negare l’evidenza. L’aveva vista impallidire e mettersi a tremare, e nonostante avesse le palpebre che facevano sforzi enormi per rimanere aperte, era certo di non essersi sbagliato, così come era sicuro il collaboratore fidato di Harvey era il più grande idiota che fosse mai comparso sulla faccia della Terra.
    Quando uscì dal bagno era ormai mezzogiorno passato. Lanciò un’ultima occhiata alla sua immagine riflessa nello specchio.
    “Ora che ho eliminato quella dannata barbetta sono molto più attraente” si disse. “Dovrei mettermi indosso qualcosa che mi renda un vero figo, andare allo Starlit Cafè e chiedere a Kelly James di venire a cena con me questa sera!”
    Avrebbe potuto essere tempo sprecato oppure l’inizio di una storia d’amore, anche se non era molto cortese nei confronti di Yuma fare un pensiero del genere. Fortunatamente la sua ragazza non aveva il potere di leggergli nella mente. A proposito, doveva telefonarle.
    Andò a infilarsi qualcosa – non esattamente indumenti che lo rendevano “un vero figo”, sembrava più un liceale invecchiato che nessuna avrebbe preso in considerazione – e poi andò a sedersi accanto al telefono.
    “Che le dico?”
    Yuma avrebbe voluto sapere dove si trovava e non era un genere di domanda a cui aveva intenzione di rispondere.
    “Va beh, m’inventerò qualcosa.”
    Compose il numero sul vecchio telefono a rotella e rimase in attesa. Suonava a vuoto: Yuma non era a casa.
    “Meglio così” decretò Michel. “Almeno non dovrò mentirle.”
    Riattaccò.
    “E se chiamassi Ronnie?”
    Compose il numero dell’appartamento in cui abitavano, aspettandosi una risposta da parte del suo coinquilino. Inutile dire che anche in quel caso sentì soltanto squilli a vuoto.
    Gli balenò per la testa un’idea a cui non aveva pensato: “La gente che ha orari di lavoro normali, a quest’ora difficilmente è in casa.”
    Si chiese anche come sopportassero un’esistenza così carica di routine. Lui non sarebbe resistito a dover fare le stesse cose ogni giorno alla stessa ora. Era stata una fortuna incontrare Tom Harvey, dopotutto.
    “Anche se a causa sua ho a che fare con degli idioti che ritardano ore e ore per rimanere a casa a palpeggiare un paio di tette.”
    «Ti è richiesta una cosa molto semplice ed elementare: scoprire il colpevole, o molto più probabilmente i colpevoli» gli aveva detto l’individuo in questione, facendogli pensare che non avrebbe dovuto affatto accettare la proposta di occuparsi di un lavoro fuori città e che, tutto sommato, svolgere ogni giorno le stesse attività non doveva essere così straziante come pensava.
    «Se era così semplice, come mai quelli che l’hanno ammazzata non sono già in galera da anni?» gli aveva chiesto, sorpreso dal suo ottimismo.
    «Questo non è un problema tuo» aveva replicato il collaboratore di Tom. «Trovali e basta. È per scoprirlo che Harvey viene pagato, e se non raggiungerai il tuo obiettivo non vedrai un centesimo.»
    «Quello che proprio non riesco a capire» aveva obiettato Michel, «è quale sia il tuo ruolo in questa storia. Quello di consegnarmi una piantina? Se Harvey mi avesse comunicato l’indirizzo del posto in questione, sarei riuscito a trovarlo anche da solo: per quanto la cosa possa lasciarti spiazzato, un minimo di senso dell’orientamento ce l’ho.»
    «Non lo metto in dubbio.»
    «Mi pare già un buon passo avanti. Ora, però, vorrei sapere chi sei e che scopo ha la tua presenza in tutto questo, se non chiedo troppo.»
    L’idiota aveva sorriso – un sorrisetto da idiota appunto – e finalmente si era presentato: «Mi chiamo Dean Tray.»
    Oltre a non essere un nome particolarmente intrigante, non dava alcun valore aggiunto alle informazioni di cui Michel già disponeva.
    Gliel’aveva fatto presente: «Il tuo nome non mi basta, voglio anche sapere a che cosa servi, perché ci siamo dovuti incontrare...»
    «Ovviamente devo introdurti agli ambienti di Starlit Spring.»
    “Oh, bene” aveva pensato Michel, cercando di non farsi prendere dallo sconforto. “Non solo Harvey pensa che io non sia in grado di cavarmela da solo in una cittadina da ventimila abitanti, addirittura ha deciso che questo imbecille mi deve fare da bodyguard.”
    Immancabilmente si era ritrovato a fantasticare ancora una volta sull’avere tra le mani una bottiglia di vetro anziché di plastica.
    Dean aveva rovistato tra le tasche della sua giacca di finta pelle e gli aveva dato un foglietto spiegazzato.
    «Questo è l’indirizzo del posto in cui alloggerai.»
    Michel aveva cercato di capire da che parte guardarlo e, quando finalmente ero riuscito a leggere il nome di una via con tanto di numero civico, gli aveva chiesto: «Questo dovrebbe bastarmi?»
    Dean l’aveva guardato a lungo.
    «Cosa intendi?»
    «Suppongo che per entrare in quell’appartamento ci vogliano delle chiavi, no?»
    «Oh, che sbadato che sono!» aveva esclamato Dean, portandosi una mano sulla fronte, per poi passarsela tra i folti capelli scuri. Curiosamente era la prima frase sensata e intelligente che Michel sentiva uscire dalla sua bocca. «Ora ti do le chiavi.»
    Le aveva cercate in lungo e in largo in tutte le tasche della sua giacca – ma quante ne aveva? – per poi scoprire di averle in una di quelle dei pantaloni.
    Ora le chiavi erano appoggiate al tavolino sul quale si trovava il telefono. Accanto a quelle c’era un ulteriore foglio stropicciato sul quale Dean aveva annotato il suo numero.
    «Per qualunque problema chiamami» l’aveva avvertito. «Altrimenti, se non c’è niente in contrario, ci troviamo qui stasera alle nove.»
    Naturalmente, prima che Michel partisse, Harvey gli aveva ricordato che non poteva permettersi di avere qualcosa in contrario e che dovevo attenersi alle disposizioni ricevute, quindi non si sarebbe messo in contatto con Dean. Aveva ancora quasi undici ore in cui godersi la sua assenza e non aveva certo intenzione di ritrovarselo tra i piedi prima del previsto.
    Gli venne il desiderio di fumare una sigaretta, ma poi ricordò che le aveva finite la sera precedente e che non le aveva ancora comprate. Avrebbe dovuto uscire a cercare una tabaccheria.
    “Oppure posso fare senza” decretò; dopotutto sentire in bocca il sapore di menta del dentifricio faceva un effetto migliore rispetto a quello del tabacco.
    Si alzò in piedi e andò ad affacciarsi alla finestra. Alloggiava in uno stabile malandato in cui durante l’alta stagione gli appartamenti venivano presi in affitto da vacanzieri dal basso budget, ma il panorama non era male, per lui che a Black Hill era abituato ad andare alla finestra e a vedere soltanto cemento al di sotto.
    Si perse a fissare le poche ragazze che passavano lungo la strada. Nessuna di loro gli sembrava attraente come Yuma o come Kelly.
    Si allontanò dalla finestra e andò a cercare l’orologio. Se l’era tolto in bagno, al momento di andare sotto la doccia. Segnava le 12.27: era passata quasi un’ora da quando si era svegliato e ne mancavano ancora otto e mezza al momento in cui avrebbe dovuto incontrare Dean Tray. Doveva dare un senso alla sua giornata, non aveva l’abitudine di starsene a guardarsi intorno senza sapere che cosa fare.
    Si infilò le scarpe e il giubbotto, prese le chiavi di casa e uscì. Per prima cosa sarebbe andato a comprare le sigarette, dopodiché sarebbe andato a trovare Kelly James. Dopotutto non mangiava dal pomeriggio precedente e non ci sarebbe stato nulla di male se avesse pranzato al bar in cui quella ragazza lavorava.
     
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  7. GÆBRIEL
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    Secondo me Michel vuole uscire con Kelly solo per scoprire qualcosa di più su Ronnie, sbaglio?

    Comunque attendo il continuooooo!
     
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    Secondo me Michel vuole uscire con Kelly solo per scoprire qualcosa di più su Ronnie, sbaglio?

    Penso che tu abbia inquadrato abbastanza bene quel personaggio! :D
     
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  9. GÆBRIEL
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    CITAZIONE (»Milù Sunshine» @ 29/5/2013, 16:53) 
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    Secondo me Michel vuole uscire con Kelly solo per scoprire qualcosa di più su Ronnie, sbaglio?

    Penso che tu abbia inquadrato abbastanza bene quel personaggio! :D

    Abbastanza si! :rolleyes:
     
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    Abbastanza si!

    Si vede così tanto che è un impiccione? :P
     
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  11. GÆBRIEL
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    CITAZIONE (»Milù Sunshine» @ 29/5/2013, 18:51) 
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    Abbastanza si!

    Si vede così tanto che è un impiccione? :P

    No, non credo... forse sono io che riesco a entrare nei pensieri dei personaggi! :D
     
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    forse sono io che riesco a entrare nei pensieri dei personaggi!

    E questa è un'ottima cosa! :D
     
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  13. GÆBRIEL
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    Ok... ma quando continui? Me aspetta impaziente!
     
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    Continuo adesso! :D


    Capitolo 7.
    Il bar era sul punto di chiudere e Kelly continuava a domandarsi quanto tempo sarebbe passato prima che l’ultimo cliente perdigiorno accettasse quell’amara realtà e le permettesse di portare a termine l’impegno che si era presa. Naturalmente lui non ci pensava neanche lontanamente: raccontarle gli affari suoi gli appariva molto più importante.
    «La mia seconda figlia è nata nel 1952. Si è sposata pochi anni fa e...»
    Lo squillo del telefono fece venire a Kelly voglia di saltare per la gioia.
    «Scusi, ma...»
    «Si è sposata pochi anni fa con uno squattrinato che...»
    «Il telefono...»
    «...Che l’ha voluta sposare soltanto per interesse.»
    Kelly sospirò.
    «Mi spiace davvero per le sue sventure, ma devo rispondere.»
    Il cliente la guardò con disapprovazione attraverso le lenti spesse come fondi di bottiglia dei suoi orrendi occhiali dalla montatura di tartaruga.
    Kelly raggiunse il telefono e sollevò il ricevitore.
    «Starlit Cafè, buonasera.»
    «Kelly» disse una voce.
    «Chi parla?»
    «Non mi riconosci?»
    «Al momento no.»
    «Ti do un indizio: con chi devi incontrarti stasera?»
    Esclamò, sorpresa: «Oh, sei tu! Ronnie Craven secondo, colui che spero non sia l’inizio di un nuovo ciclo di disgrazie.»
    Era tornato al bar poco prima delle tredici, quando molti dei pensionati clienti assidui erano a casa a criticare i pranzi a basso contenuto calorico che le loro mogli avevano preparato.
    Era stato diretto: «Vuoi cenare insieme a me questa sera?»
    «Non posso» gli aveva risposto Kelly. «Fino alle otto sono qui al lavoro.»
    «Ma non è sfruttamento?» aveva replicato lui. «Quante ore lavori al giorno?»
    «Quando l’altra cameriera non ha la febbre» l’aveva rassicurato, «molte meno di oggi. In questi giorni mi tocca sostituirla.»
    «Allora non ho proprio speranze di vederti?»
    «Se vieni da me verso le nove, ti porto a fare un giro» gli aveva proposto Kelly.
    “Ronnie Craven secondo” aveva accettato e, senza pensarci due volte, gli aveva dato il suo indirizzo, mentre lui accennava a un impegno di lavoro che comunque non avrebbe pregiudicato la sua presenza.
    «Hai risolto con il tuo “impegno di lavoro”?» gli chiese quindi Kelly, al telefono, citando le sue stesse parole.
    «Non ti riguarda» sbottò lui. «Vai a casa a metterti in tiro, non mi piacciono le ragazze trascurate.»
    «Non sono una ragazza trascurata» replicò Kelly, indignata. «Mai. Nemmeno quando vado al supermercato.»
    «Meglio così.»
    «Perfetto.»
    Kelly rimase inorridita: le aveva dato la risposta tipica di suo zio Colin? Era agghiacciante!
    «Ci vediamo dopo» si congedò lui subito dopo, sbattendo giù il telefono.
    A quel punto il cliente che parlava della figlia sposata con un uomo di più bassa estrazione sociale, stanco per la “lunga e interminabile” attesa, pagò con aria seccata la sua consumazione, dopodiché se ne andò, rendendola la più felice delle bariste.
    Kelly chiuse lo Starlit Cafè, andò a casa, preparò un’insalata di lattuga e pomodori, mangiò e poi si preparò per il suo appuntamento con il nuovo Ronnie Craven.
    Istintivamente ripensò alla sua prima uscita con Rick, da cui erano ormai trascorsi parecchi anni. Rick Craven era stato il suo primo e unico ragazzo, o almeno l’unico ufficiale. Dopo la sua morte Kelly si era ripromessa che non avrebbe mai avuto nessun altro, ma la sua scelta iniziava a starle stretta. Le sue amiche parlavano sempre di progetti futuri, alcune erano sul punto di sposarsi con i loro fidanzati... e lei aspirava a rimanere sola per tutta la vita, tanto che perfino Colin a volte le chiedeva se si rendeva conto di essere viva almeno lei, a differenza di Rick.
    Il campanello suonò alle nove in punto. Il “ragazzo del bar” era puntuale, almeno.
    Kelly si affacciò alla finestra della cucina.
    «Scendo subito» gli urlò, chiedendosi cos’avrebbe pensato se avesse saputo che viveva in uno dei pochi palazzi ancora senza il citofono.
    «Non mi fai salire?» ribatté lui.
    Fu tentata di mandarlo a quel paese, ma si trattenne: andare giù subito era il modo migliore per dimostrargli che se pensava di portarsela a letto di sbagliava di grosso. Un conto era rinunciare al proposito di eterna vedovanza, ma ben diverso era concedersi a un perfetto sconosciuto che, per quanto ne sapeva lei, avrebbe potuto nascondere schiere di cadaveri nella propria cantina.
    Si fiondò giù dalle scale rischiando di inciampare sui tacchi.
    «È un piacere rivederti» la accolse lui.
    «Mi hai appena vista alla finestra» gli ricordò Kelly, seccata.
    «Già, ma eri lontana.» La fissò con attenzione. «Quel vestito ti sta bene.»
    Kelly finalmente sorrise.
    «L’ho ereditato da mia madre.»
    «Non sapevo che fosse morta.»
    «Non lo è, infatti» gli spiegò Kelly. «Sta girando il mondo insieme a un milionario di cui non ricordo il nome. Ormai non se ne faceva più niente dei suoi vecchi abiti economici e li ha lasciati a me.»
    «Tua madre ha buon gusto.»
    «In fatto di uomini?»
    «In fatto di vestiti a basso prezzo.» Le indicò un’auto scura e ammaccata. «Prendiamo la mia macchina?»
    Kelly si affrettò a rispondere: «Niente affatto.»
    Lui sorrise.
    «Beh, avrei dovuto immaginare che tu ne avessi una più bella e più nuova.»
    «In realtà il catorcio che mi ha lasciato mia madre quando se n’è andata si avvia a malapena, ma comunque non è mia intenzione andarmene in giro in macchina. Ho ancora l’uso delle gambe e suppongo anche tu, Ronnie.»
    Lui rimase a fissarla, come pietrificato.
    «R-Ronnie?» balbettò.


    Sistemo la seconda parte del capitolo e poi aggiungo anche quella. ^^ A breve dovrei avere fatto. :D
     
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    Eccomi qui con la parte finale del capitolo 7.


    Era stato un errore assurdo, Michel lo sapeva, ma non aveva comunque compromesso la loro serata. Anzi, rivelandole la sua vera identità era anche riuscito a ottenere qualche confidenza da parte di Kelly.
    Aveva trascorso la serata con lei finché alle dieci e tre quarti Kelly non era rientrata in casa.
    «Domani mattina devo aprire il bar alle sei» si era giustificata. «Senza contare che oggi ho fatto quattordici ore di lavoro con una sola mezz’ora di pausa nel mezzo.»
    Michel aveva replicato che non c’era bisogno di spiegazioni, ero salito sulla sua vecchia Volkswagen e si era avviato per tornare verso l’alloggio che gli era stato assegnato su incarico di Tom Harvey.
    Il desiderio di telefonare a Ronnie e domandargli se avesse un fratello morto in un incidente stradale era forte, ma si trattenne. Ormai era in grado di capire quali fossero gli argomenti di cui si poteva parlare e quali fosse meglio evitare.
    Nonostante tutto, nel momento in cui notò una cabina telefonica accostò, scese dall’auto e provò a chiamare Ronnie. Il telefono squillava a vuoto. Peccato: c’era una scusa in meno per tardare ancora di più il suo rientro, dal momento che era certo che avrebbe trovato Dean Tray ad attenderlo e non aveva la benché minima voglia di vederlo.
    “Strano che Ronnie non sia in casa” osservò, mentre risaliva in macchina.
    Il suo coinquilino non frequentava locali, né aveva una ragazza o altri amici all’infuori di lui, almeno a Black Hill. Dove poteva essersi cacciato?
    “Ha venticinque anni compiuti ieri: ovunque sia, è sicuramente in grado di badare a se stesso.”
    Avviò il motore e ripartì.
    Quando arrivò parcheggiò sul lato della strada, a poche decine di metri dal palazzo fatiscente in cui si era stabilito, dove immancabilmente notò Dean che lo stava aspettando davanti al portone.
    Quando lo raggiunse, Michel si accorse di parecchi mozziconi di sigaretta a terra e lo vide che gettava via l’ennesimo.
    «Dovresti fumare meno» gli suggerì. «Potresti vivere qualche anno di più.»
    «Ti aspettavo per le nove» gli ricordò Dean, seccato. «Alle nove e mezza ero qui a vedere se c’eri e per caso ti eri scordato del nostro appuntamento. Solo ora che sono le undici passate ti sei degnato di tornare a casa.»
    Michel sbuffò.
    «Non ci sei solo tu.»
    «Non pretendo di esserci solo io, mi basta che tu non abbia impegni nei momenti in cui c’è bisogno di te per questioni di lavoro.»
    «Stanotte ti ho atteso fino all’alba, qualora tu te ne sia dimenticato.»
    «Quella è un’altra storia» ribatté Dean. «È Harvey a dettare e regole, non tu; e in sua assenza sono incaricato di pensarci io.»
    “Di male in peggio!” pensò Michel. “Questo individuo insulso crede che io sia al suo servizio!”
    Si morse la lingua per evitare di insultarlo e tutto sommato fu un bene, dal momento che Dean gli comunicò: «Harvey – e se non ti fidi puoi chiamarlo tu stesso e chiedergli conferma – mi ha pregato di valutare con attenzione le tue performance nell’eseguire l’incarico che ti è stato affidato. Solo se ti mostrerai all’altezza conserverai il tuo lavoro.»
    «Comprendo» rispose Michel in tono pacato.
    Dean sorrise, sprezzante.
    «Sapevo che avresti compreso.»
    Michel non disse nulla e Dean gli indicò il portone.
    «Apri.»
    «Devi salire?»
    «Ovvio» rispose Dean. «Non ho intenzione di dirti cosa devi fare qui, davanti a casa. Potrebbe passare qualche ficcanaso, non credi?»
    «Beh, sì.»
    «Allora apri quella porta, e fallo in fretta, che anche questo è oggetto di valutazione.»
    Michel non sapeva se ridere o se piangere dallo sconforto.
    «Pure questo?!»
    «Tutto, dall’inizio alla fine» confermò Dean.
    Michel non replicò e si limitò a inserire la chiave nella toppa.
    «Sbrigati» insisté Dean. «Non ho intenzione di lasciare che si faccia notte.»
    Michel non riuscì a trattenersi: «Deve venire a casa tua la puttana di ieri sera?»
    «Questi non sono affari tuoi» replicò Dean mentre si introducevano nello stabile e salivano due piani di scale. «Io non ti chiedo come trascorri il tuo tempo libero e pretendo che tu badi agli affari tuoi a tua volta.»
    Non appena entrarono nell’appartamento, Dean chiuse la porta e lo condusse in cucina. Evidentemente conosceva alla perfezione la disposizione delle stanze.
    «Siediti» gli ordinò, e mentre Michel lo faceva si accomodò a sua volta di fronte a lui.
    Prese fuori una busta dalla sua giacca di finta pelle che, Michel se ne sorprese, non era stropicciata, a differenza delle altre cose che uscivano dalle sue tasche.
    Gliela porse e Michel gli domandò: «Cos’è?»
    «Perché non provi ad aprirla?» ribatté Dean, sprezzante.
    Dentro c’era la fotografia di una ragazza.
    «Chi è?»
    «Si chiama Natascha Harris. Ha ventitré anni e lavora in una rosticceria qui a Starlit Spring.»
    «Sì, ma cosa c’entra con l’omicidio di Margot Emerson?»
    «Natascha era insieme ad alcuni amici nel locale vicino al luogo del delitto, la notte in cui la signora Emerson fu assassinata.»
    Michel spalancò gli occhi.
    «Quindi c’entra qualcosa con l’assassinio?»
    «Natascha no» rispose Dean. «I suoi amici può darsi.»
    «Devo farle delle domande o che altro?»
    Dean scosse la testa.
    «Se le chiedi qualcosa è la fine: qualcuno che non deve lo verrà a sapere e tu finirai col fare una brutta fine... alla quale potresti scampare, è vero, ma perderesti il tuo lavoro.»
    «Quindi cosa dovrei fare con Natascha?»
    Dean ridacchiò.
    «Molto semplice: per il momento limitati a scopartela.»
    «A...» Michel pensò di avere capito male. «Che cosa...?»
    Dean scoppiò in una risata fragorosa.
    «Che c’è, Sallivan, non conosci il significato del termine?»
    «Sì, lo conosco, ma...»
    «Niente ma. Avrei potuto affidarti un incarico noioso, invece ti si chiede solo di sedurre una ragazza e di conquistare la sua fiducia. Per giunta è carina.»
    «Sì, devo ammetterlo, non è male» convenne Michel, osservando la fotografia. «Però io sono già impegnato, e proprio con la figlia di Margot Emerson.»
    «Nessuno, in particolare la tua ragazza, verrà mai a sapere cos’hai fatto con Natascha» gli ricordò Dean, alzandosi di scatto e uscendo dall’appartamento senza aggiungere altro.
    Quando Michel sentì il portone sbattere si affacciò alla finestra e lo vide allontanarsi a piedi.
    Dodici ore più tardi telefonò all’ufficio di Tom Harvey. Gli rispose Rachel, la segretaria, una donna sui cinquanta che, per quanto ne sapeva, era la cugina del suo datore di lavoro.
    «Passami Harvey» la pregò.
    «Non c’è» rispose lei.
    Michel sapeva bene che mentiva e non era certo disposto ad arrendersi.
    «So che è lì. Passamelo, prima che mi decida ad abbandonare il lavoro.»
    Erano parole magiche che funzionavano sempre: Tom non avrebbe trovato facilmente qualcuno con cui sostituirlo.
    Un attimo più tardi Harvey si presentò al telefono.
    «Che cosa vuoi?» gli domandò, brusco come sempre.
    «Per prima cosa vorrei sapere dove sei andato a pescare quell’imbecille di Dean Tray.»
    «Piano con le parole» lo ammonì Harvey. «Ricordati che è uno dei miei collaboratori più fidati.»
    «Sarà, ma non mi convince.»
    «E, sentiamo, per quale motivo?»
    «Si è messo in testa delle cose assurde.»
    «Del tipo?»
    «Per esempio sostiene che mi devo portare a letto una tizia che lavora in una rosticceria.»
    «Natalie Harris?»
    «Natascha Harris» lo corresse Michel.
    «Beh, sì, quella.»
    «Sostiene che è necessario per scoprire informazioni.»
    «Lo è, infatti» convenne Harvey. «Vai a cercare quella Natascha e cerca di raggiungere qualche risultato. È per eseguire gli ordini che vieni pagato, non per fare di testa tua.»
    «E io ti ricordo che non ho intenzione di fare niente che sia ai limiti della legalità.»
    «Fare sesso con una ragazza maggiorenne non è vietato dalla legge, mi pare.»
    Prima che Michel potesse replicare, Harvey riattaccò.
    “E ora?” si chiese.
    Era una faccenda che non gki piaceva affatto. Per la prima volta da quando lo conosceva, si ritrovò a invidiare Ronnie. Fare il contabile non doveva essere poi così terribile. Almeno non implicava di andarsene in giro per le rosticcerie a rimorchiare sconosciute alle quali forse, un giorno, carpire informazioni che potevano essere lontanamente connesse a un delitto.
    Nel tardo pomeriggio provò a telefonargli, ma non lo trovò in casa. A quel punto tentò di rintracciare Yuma, pronto a riattaccare qualora gli avesse risposto suo padre – come inspiegabilmente l’aveva pregato di fare fin da quando avevano iniziato a frequentarsi, qualche mese prima – e anche in questo caso non ricevette risposta.
    “Sono spariti tutti quanti nel nulla?” si chiese, con un certo stupore.
    In quel momento il telefono prese a squillare. Proprio come si aspettava, era Dean Tray.
    Gli fornì un’informazione che avrebbe potuto essergli d’aiuto: il nome della rosticceria in cui lavorava Natascha Harris. Michel se lo appuntò e decise che il giorno seguente sarebbe andato a cercarla.
    “Alternative praticabili non ne ho, dopotutto.”
    Sperò che non fosse necessario spingersi troppo oltre. C’erano ragazze a cui bastava pagare da bere per convincerle a parlare e sperava che Natascha fosse una di quelle.
     
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