Anime di metallo

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  1. Milly Sunshine
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    Patricia lesse il nome sul citofono.
    KELLY JAMES.
    Doveva suonare o faceva meglio ad andarsene? Non riusciva a deciderlo. Il modo in cui Kelly la guardava quando entrava allo Starlit Cafè la metteva in imbarazzo, ma d’altronde non aveva altri mezzi per vedere Michel, se non quello di attendere che uscisse. Da uno come lui, che non aveva orari fissi, si poteva aspettare che andasse fuori a qualsiasi ora della notte, ma era sicura che avrebbe perso la pazienza, se fosse rimasta lì davanti finché non fosse comparso. Questa, tra l’altro, era la migliore delle ipotesi: nella peggiore Dean Tray avrebbe potuto apparire quasi dal nulla e decidere che anche lei doveva fare la fine di Natascha Harris.
    Dentro di sé Patricia era sicura che le cose non potessero essere andate diversamente: era già passato parecchio tempo da quando si fidava di Dean e non voleva certo fare di nuovo lo stesso errore.
    Guardò ancora una volta il citofono.
    “Suona quel dannato campanello e falla finita” ordinò a se stessa.
    Eseguì.
    Attese.
    Sentì una voce.
    «Chi è a quest’ora?»
    Non era Kelly, era una voce maschile.
    «Sono Patricia, un’amica di Michel. È in casa?»
    Amica di Michel.
    Forse aveva esagerato.
    «Sì, sono io» rispose la stessa voce che le aveva parlato al citofono.
    «Tu? Non sembravi.»
    Lui le diede il tiro e Patricia iniziò a salire le scale. Faceva troppo rumore, avrebbe dovuto impegnarsi per evitarlo. In quel momento, però, non le importava nulla.
    «Kelly non c’è» l’avvertì Michel, non appena Patricia varcò la soglia dell’appartamento della barista. «Tornerà verso mezzanotte, credo.»
    «Bene.» Patricia avvampò, non appena si rese conto di quanto quell’osservazione potesse nascondere dei doppi sensi. «Ti devo parlare.»
    «Lo sospettavo.» Michel ridacchiò. «Quando ho sentito la tua voce al citofono ho pensato che potessero esserci soltanto due motivi che ti portavano qui: quello che dovessi parlarmi mi sembrava il più probabile.»
    «E l’altro?»
    Patricia si stupì di se stessa. Come le veniva in mente di fare una domanda del genere? Sapeva perfettamente a che cosa potesse riferirsi Michel.
    «L’altro non ha importanza.»
    Michel rise.
    «Potrebbe averne, dato che Kelly non è in casa.»
    «Non so che cosa tu ti sia messo in testa, ma...»
    Non riuscì a finire la frase, poiché la bocca di Michel ora premeva sulla sua.
    Lo sentì, nel frattempo, richiudere la porta, che lei aveva lasciato aperta.
    Fu tentata di tirarsi indietro, ma non lo fece, così come non oppose resistenza quando la lingua di Michel s’insinuò tra le sue labbra.
    Un uomo la stava baciando con vera avidità. Da quanto tempo non succedeva? Lo lasciò continuare, sperando che durasse il più a lungo possibile.
    “Sei qui per dirgli che pensi che Dean abbia ucciso Natascha” le ricordò la voce della sua coscienza.
    Patricia la ignorò.
    Michel la stava baciando.
    Le sue mani le sfioravano i fianchi e la sua leggera pressione, attraverso la sottile camicia di raso che indossava, era una delle sensazioni più belle che Patricia avesse mai provato.
    Natascha era morta, non poteva più fare niente per lei.
    Per il momento Dean non stava uccidendo nessun altro, o almeno così sperava.
    Le mani di Michel adesso erano al di sotto della sua camicia, e la sensazione che avvertiva era ancora più deliziosa.
    Si chiese per un attimo se ciò che c’era stato in passato tra lui e Yuma Emerson avesse ancora qualche influenza sul presente e sul futuro, ma l’assenza di risposte non la spaventò. Ovunque fosse Yuma, in quel momento con Michel c’era lei e questo contava molto di più di mille risposte.

    Yuma guardò il bambino che dormiva. Era impossibile, ma ebbe l’impressione che le stesse sorridendo.
    «Credo che tutto si sistemerà» gli sussurrò. «Un giorno saremo liberi di vivere la nostra vita, questo già lo sai, ma credo che questo giorno arriverà molto presto.»
    Fino a poche ore prima le era sembrato impossibile, ma dopo avere incontrato Ronnie quella sera qualcosa si era mosso una volta per tutte.
    Desiderava con tutta se stessa che il piccolo Ron fosse in realtà figlio di Ronnie.
    Purtroppo non era possibile.
    Desiderava con tutta se stessa trascorrere il resto della propria vita accanto a Ronnie.
    Questo era possibile, Yuma decise che se lo sarebbe fatto bastare.
    Fu tentata di alzare il telefono e di chiamare Ronnie, per poter sentire un’altra volta la sua voce. Non era sicura di riuscire ad arrivare al giorno successivo senza di lui.
    «Non essere ridicola» borbottò, rivolta a se stessa. «Non morirai stanotte, quindi lo rivedrai. E poi questa non è certo l’ora più adatta per telefonare.»
    Era mezzanotte passata da un paio di minuti. Forse Ronnie stava già dormendo. Yuma sperò che in quel momento stesse sognando il loro futuro insieme.

    Erano ormai a pochi passi dal locale. Ronnie sapeva che presto avrebbe visto Kelly e sperava soltanto che il loro incontro potesse essere meno imbarazzante di quanto pensava.
    Ad un tratto Rick si fermò.
    Prese a rovistarsi nelle tasche dei pantaloni, aveva l’aria allarmata.
    «Maledizione!» esclamò. «Le chiavi!»
    «Non ti ricordi dove le hai messe?» gli chiese Ronnie, piuttosto perplesso. Erano scesi dall’auto da non più di cinque minuti.
    «Lo so benissimo, è questo il problema» replicò Rick. «Devo essermi scordato di chiudere la macchina a chiave. Le avevo appoggiate sul sedile e là devono essere rimaste.»
    «Torno a prenderle» propose Ronnie.
    «No, lascia stare, ci vado io.»
    Ronnie lo guardò per un istante mentre si allontanava, poi distolse lo sguardo.
    Si accese una sigaretta e scambiò due parole con una ragazza sconosciuta che poi si avviò verso l’ingresso del locale.
    Quando Rick tornò, Ronnie guardò l’orologio. Erano trascorsi almeno dieci minuti da quando si era allontanato.
    «Hai trovato le chiavi?»
    Rick annuì. Sembrava pensieroso.
    «Ci hai messo tanto tempo» osservò Ronnie.
    «Già.» Rick abbassò lo sguardo. «Ho visto Kenneth.»
    «Chi?»
    «Kenneth Tray, il fratello dell’amico di Ralph.»
    «Lo conosci?»
    «L’avevo visto in foto, ma ho riconosciuto subito che era lui.»
    Questo, da sé, non dava alcuna spiegazione al ritardo di Rick.
    «Dove sei stato finora?» gli chiese Ronnie.
    «Ho visto che Kenneth guardava verso la mia macchina. Non riuscivo a capirne il motivo. Dato che Ralph mi ha detto che non è esattamente un tipo affidabile, ho preferito rimanere là qualche minuto, per accertarmi che non avesse strane idee.»
    «Strane idee? Che cosa intendi dire?»
    «Graffiare la carrozzeria con una chiave o qualche stronzata del genere. Da un tipo come lui ci si potrebbe aspettare questo e altro.»
    «E adesso dov’è?»
    «L’ho visto mentre si allontanava, e a quel punto ho pensato che potevo tornare. Non c’è...»

    Il telefono squillò.
    Ronnie spalancò gli occhi.
    Di solito nessuno lo chiamava a quell’ora, perciò il primo pensiero che formulò fu che fosse accaduta qualche disgrazia.
    Si alzò in piedi di scatto e corse a rispondere.
    Non era capitato niente di terribile.
    Era Yuma.
    «Scusami per il disturbo» sussurrò lei, «Ma avevo bisogno di chiederti una cosa.»
    «Non mi hai disturbato» rispose Ronnie. Era sincero. Yuma avrebbe potuto telefonargli a qualsiasi ora del giorno e della notte, per lui sarebbe sempre stato un piacere. «Dimmi.»
    «Ho voglia di rivederti. Ti va di venire a trovarmi domani?»
    Sarebbe stato stupendo, ma c’era Kara.
    «Non so se posso» ammise. «Mia figlia sarà a casa mia...»
    «Porta anche lei» lo interruppe Yuma. «Mi farebbe piacere conoscerla!»
    «Ne sei sicura?»
    «Ovvio che ne sono sicura.» Yuma sembrava davvero soddisfatta. «Prima, magari, chiedile se è d’accordo.»
    «Se conosco mia figlia, non avrà niente in contrario.»
    «Ottimo. Hai qualcosa dove segnare l’indirizzo?»
    «Lo prendo subito.»
    Si lasciò dettare il nome della via nella quale abitava Eric, il ragazzo di Heaven, poi continuò a parlare con Yuma ancora qualche minuto.
    «Credo che sia meglio se ti lascio andare a dormire» concluse lei, infine.
    Ronnie non le disse che era quello che stava facendo prima di ricevere la sua chiamata. In fondo Yuma non aveva interrotto nulla, soltanto uno stupido sogno.
    “O magari qualcosa di più.”
    Negli ultimi anni gli era capitato sempre più di rado di sognare la sera in cui lui e Rick avevano avuto l’incidente. Quella volta, però, le cose erano andate un po’ diversamente: di solito la sua mente richiamava le scene dell’incidente e di ciò che era successo prima o dopo, ma mai il modo in cui era iniziata la serata.
    Mentre tornava a sdraiarsi Ronnie si ritrovò a domandarsi se per caso il suo inconscio non stesse cercando di comunicargli qualcosa che gli era sfuggito undici anni prima e a cui non aveva mai prestato la dovuta attenzione.
     
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