Anime di metallo

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  1. Milly Sunshine
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    «E se fosse stato uno sbaglio?»
    Non appena Heaven formulò quella domanda, Eric le puntò gli occhi addosso. Sembrava infastidito dalla sua insinuazione.
    «Vuoi dire che l’incontro tra Ronnie e tua sorella potrebbe essere un flop?»
    «Considerando l’incapacità di Yuma di gestire la propria vita privata non sono ottimista quanto dovrei.»
    Eric si avvicinò a lei.
    «Non preoccuparti» la rassicurò. «Sono sicuro che andrà tutto bene.»
    «Non conosci Yuma bene come la conosco io» gli ricordò Heaven. «Essere pessimisti a volte è l’unica soluzione possibile.»
    Si sentiva in colpa per quello che pensava di Yuma, che aveva sempre fatto il possibile per aiutarla, ma non poteva fare a meno di chiedersi se una persona veramente responsabile si sarebbe lasciata incantare da un uomo come Dean Tray, che le aveva sempre e solo fatto del male. Era vero che non pretendeva di avere rapporti sessuali con una consanguinea e non la maltrattava come faceva Melvin, ma era pur sempre il principale complice dell’uomo che le aveva distrutto la vita.
    «Andrà tutto bene» ripeté Eric, come un automa.
    «No, non andrà bene un cazzo!» sbottò Heaven, sentendo sorgere dentro di sé un brutto presentimento.
    Andò a prendere le chiavi della macchina del ragazzo e uscì.
    «Ci vediamo dopo» si congedò, «Se saremo ancora tutti quanti vivi.» Rifletté un attimo, poi aggiunse: «Se fosse necessario, cambia tu il pannolino a Ron!»
    «Aspetta, Heav!» la pregò Eric. «Cosa vuoi dire?»
    Heaven non gli rispose e richiuse la porta alle proprie spalle. Aveva fretta, come succedeva ogni volta in cui sospettava che Yuma si stesse esponendo a un pericolo.
    «Maledetto Ronnie Craven!» sbottò, salendo in macchina.
    Si chiese come fosse possibile che Yuma pensasse ancora a un ragazzo che aveva amato, per giunta soltanto platonicamente, all’età di diciotto anni.
    “È addirittura arrivata al punto di dare il suo stesso nome a suo figlio!”
    Heaven accese il motore e partì. Fortunatamente Yuma aveva avuto la premura di comunicarle dove avrebbero dovuto incontrarsi lei e Ronnie.

    Yuma passò accanto alla cabina telefonica dove si era rifugiata più di una volta per chiamare Naive a insaputa della sorella. Soltanto da poco tempo avevano deciso, di comune accordo, di mettere Naive a conoscenza degli ultimi sviluppi che avevano condizionato le loro vite. Era stata una decisione ottima, tanto più che proprio Naive l’aveva spinta a telefonare a Ronnie soltanto due ore e mezza prima.
    Proprio uscendo da quella cabina telefonica, la sera del 19 settembre - ricordava la data perché era il compleanno di Ronnie, e questo non avrebbe mai potuto dimenticarlo - aveva rivisto la donna che tanti anni prima l’aveva insultata quando, a Black Hill, si erano ritrovate faccia a faccia in una situazione del tutto simile. Fortunatamente non le era più successo di rivederla.
    Attraversò la strada e si piazzò davanti allo Starlit Cafè. Controllò sull’orologio che portava al polso di non essere in ritardo.
    “Sono addirittura in anticipo.”
    Erano le nove e ventiquattro.
    La strada era buia, rischiarata da pochi lampioni. Yuma si guardò intorno e si sentì al sicuro. L’oscurità non sempre nascondeva pericoli; talvolta si spingeva a proteggerla dagli sguardi indiscreti di chi avrebbe potuto riconoscerla.
    Doveva attendere pochi minuti, poi Ronnie si sarebbe presentato davanti a lei. Si chiese che cosa avrebbe dovuto dirgli, ma realizzò che la soluzione migliore era essere spontanea. Si sarebbe lasciata trascinare dalle proprie emozioni, non si sarebbe attenuta a un discorso già pronto.
    Dietro di lei qualcuno le posò una mano sulla spalla destra.
    «Ronnie, sei arrivato» mormorò Yuma.
    Si voltò e, quando vide chi aveva davanti, lanciò un urlo.
    Dean le rivolse un sorriso sprezzante.
    «Non sono il tuo amato Ronnie, ma dovrai accontentarti di me.»
    Yuma si sentì raggelare.
    Dean l’aveva trovata.
    Dean aveva scoperto dove si trovava.
    Dean non l’avrebbe lasciata andare finché non l’avesse convinta a liberarsi del problema.
    In conclusione Dean doveva essere evitato come la morte e, per riuscire a evitarlo, doveva inventarsi qualcosa.
    La soluzione le balzò alla mente all’istante.
    «Dean» mormorò, cercando di fingersi sopraffatta dal terrore, non nei suoi confronti, ma verso quello che poteva essere un nemico comune. «Dean, perché sei venuto? Potrebbe essere pericoloso se mio padre...»
    Dean la interruppe: «Tuo padre non scoprirà nulla.»
    «Sì, invece.»
    «Andrà tutto bene.»
    Dean era più accomodante di quanto Yuma pensasse. Doveva esserci un motivo, e doveva assolutamente scoprire quale fosse.
    «Come fai ad esserne certo?»
    «Le prove di quello che abbiamo fatto non ci sono più» rispose lui. «Avrei preferito che tu abortissi, ma è andata bene anche così. In qualsiasi modo tu ti sia sbarazzata del bambino, l’importante è che Melvin non venga mai a sapere della sua esistenza.»
    Quindi pensava che non avesse tenuto Ron, ma che l’avesse dato in adozione. Per questo era disposto ad aiutarla.
    Yuma fu tentata per un attimo di fidarsi di lui, ma per fortuna riuscì a recuperare in fretta la propria lucidità. Esistevano soltanto due regole fondamentali nella sua vita: quella di non fidarsi mai di suo padre era al primo posto, ma quella di non fidarsi di Dean Tray un giorno o l’altro avrebbe potuto diventare ancora più importante.
    «Ho la macchina parcheggiata qui vicino» la informò lui. «Vieni con me.»
    Non era una domanda, ma un ordine.
    “Non vuole aiutarmi” si ripeté, “Ma io devo fingere di credergli.”
    «Certo che vengo con te.»
    Non appena Dean iniziò a camminare, Yuma mosse alcuni passi nella sua stessa direzione. Non appena lui si distrasse, si girò di scatto e iniziò a correre. Dalla parte opposta proveniva un’auto e il guidatore prese a suonare il clacson.
    Heaven si affacciò al finestrino.
    «Sali, Yuma! Fa’ presto!»
    Non se lo lasciò ripetere due volte e continuò a correre senza voltarsi.
    Salì a bordo e Heaven fece un’inversione a U in mezzo alla strada. Yuma non si curò nemmeno di guardare quel poco che avrebbe potuto scorgere nel retrovisore. Di Dean non le importava nulla.
    «Non avresti dovuto proporre a Ronnie di incontrarvi proprio qui» la ammonì sua sorella. «È stata una pazzia.»
    «Forse lo è stata» ammise Yuma, «Ma vedere Ronnie era troppo importante per me.»
    Adesso non avrebbe più potuto farlo, ma si sarebbe inventata un’altra soluzione. Era certa che non avrebbe rinunciato a lui.

    Ronnie strizzò gli occhi, abbagliato dai fari dell’automobile che faceva inversione. Aveva visto Yuma correre verso la macchina e avrebbe pagato qualsiasi prezzo per sapere che cosa si fosse messa in testa.
    Fissò l’auto che se ne andava, sperando che Yuma potesse cambiare idea, ma non la vide tornare indietro. Doveva rassegnarsi.
    «Finalmente ci rivediamo» sibilò una voce, accanto a lui.
    Ronnie si girò lentamente.
    Non si era accorto di un uomo dai capelli folti, che indossava una giacca di pelle di dubbia bellezza.
    «Ci... rivediamo?»
    «Abbiamo già avuto modo di conoscerci un po’ di tempo fa» gli ricordò lui. «All’epoca pensavo che non ci saremmo rivisti mai più, ma poi ho pensato che non fosse opportuno lasciare un lavoro a metà.»
    “È finita” si disse Ronnie, mentre lo sconosciuto gli puntava un coltello alla gola.
    «A proposito» gli chiese quest’ultimo, «Hai ricevuto quell’orologio di merda che ti ho restituito poco tempo fa?»
    Soltanto in quel momento Ronnie fu perfettamente consapevole di essere di nuovo di fronte a colui che l’aveva aggredito in un vicolo vicino a casa di Kelly molti anni prima.
    «Vieni con me» gli ordinò quest’ultimo. «Non ho certo intenzione di ucciderti in mezzo alla strada.»
    L’uomo non abbassò il coltello e Ronnie non poté fare altro che obbedire, anche se non aveva intenzione di morire quella sera. Gli sarebbe bastato un istante di distrazione da parte di quello sconosciuto, per tentare di disarmarlo.
    Lo seguì per qualche metro, prima che si presentasse il momento adatto. Gli sembrò che il suo aggressore avesse perso la concentrazione per qualche secondo. Si avventò su di lui, cercando di strappargli il coltello dalle mani.
    Si rese conto subito dopo che non era il momento giusto. L’altro lo mise a terra e un secondo più tardi gli fu addosso, puntandogli ancora una volta il coltello alla gola.
    «Stavolta è finita sul serio, Ronald Craven» lo avvertì. «Avresti dovuto morire undici anni fa, quindi spero che tu ti sia goduto questi undici anni di vita in più che ti sono stati regalati.»
     
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