Anime di metallo

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  1. Milly Sunshine
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    Prima parte del capitolo 46.



    Capitolo 46.
    Yuma richiuse senza fare rumore la porta alle proprie spalle, prima di scendere le scale. Piano dopo piano si sentì sempre più lontana da Ronnie e questa consapevolezza sembrò rendere tutto più semplice. Giunta al piano terra aprì la porta d’ingresso e uscì.
    Aveva lasciato la macchina poco lontano, in un parcheggio pubblico che distava appena un paio di isolati. Le sarebbero bastati pochi minuti per raggiungerla.
    In strada non riuscì a liberarsi dalla sensazione di udire la voce di Ronnie risuonarle in testa.
    «Ovvio» aveva mormorato, quasi incredulo di fronte all’idea di rivederla dopo così tanto tempo. «Ovvio che puoi entrare.»
    Yuma gli aveva regalato il migliore dei propri sorrisi, oltrepassando la soglia. Aveva creduto che l’incanto che aveva avvertito tante volte in presenza di Ronnie, molti anni prima, non si fosse mai davvero spezzato.
    “Un giorno lo rivedrò” si era detta, giorno dopo giorno, da quando suo padre le aveva impedito di fuggire a Starlit Spring insieme a lui.
    Questa certezza, che per tanto tempo aveva ritenuto inviolabile, era crollata poco a poco, specie quando giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, mese dopo mese, anno dopo anno, si era accorta di non avere vie di fuga.
    Non c’era niente di più bello di una speranza morta che ritornava a vivere, se n’era accorta mentre gli occhi grigi di Ronnie la fissavano dolcemente.
    «Mi sei mancato» gli aveva confidato. «Mi sei mancato come mai mi è mancato nessun altro. Ci sono stati giorni in cui ho creduto di morire, senza di te.»
    «Anche tu mi sei mancata» aveva risposto Ronnie. «Ci sono stati giorni in cui ho creduto che non avrei mai più avuto tue notizie.»
    Come al solito Yuma si era sentita colpevole. Da quando si era liberata da quello che aveva ritenuto un destino a cui non poteva sfuggire si chiedeva come avesse potuto sopportare tutto quello che aveva dovuto subire.
    “Avrei dovuto trovare il coraggio di andarmene” si ripeté. “Heaven se la sarebbe cavata: lei riesce sempre a cavarsela, in qualche modo.”
    Non sapeva se ne era davvero convinta, ma ci sperava: avrebbe significato non essere più la ragazza arrendevole e malleabile che Melvin Emerson aveva avuto tra le mani per anni e che probabilmente stava ancora cercando.
    Melvin l’avrebbe trovata, prima o poi.
    Se non ci fosse riuscito lui, l’avrebbe fatto Dean.
    Yuma si chiese quale delle due alternative fosse la peggiore.
    Era una di quelle domande a cui era impossibile dare una risposta univoca.
    “Dipende tutto dalle circostanze.”
    C’era qualcosa che Melvin non doveva sapere.
    C’era qualcosa che Dean non doveva sapere.
    Bastava che uno dei due intuisse la parte di verità che Yuma stava proteggendo e per lei avrebbe potuto essere la fine.
    Prima o poi avrebbe dovuto decidersi e accettare la proposta che Heaven le aveva fatto: assumere in via definitiva l’identità di Oona Craven e trasferirsi laddove né suo padre né Dean avrebbero mai potuto risalire a lei.
    “In quel modo potrei davvero smettere di vivere nell’ombra.”
    Forse si sarebbe sentita spaesata, senza il suo vero nome, ma che cos’era un nome dopotutto? Perché chiamarsi Yuma Emerson avrebbe dovuto farla sentire meglio? Portare il cognome di suo padre, utilizzare lo stesso nome con cui l’aveva sempre chiamata lui, non era così fondamentale. Eppure non riusciva a convincersene.
    Sua madre l’aveva conosciuta come Yuma Emerson.
    Naive l’aveva conosciuta come Yuma Emerson.
    Heaven l’aveva conosciuta come Yuma Emerson.
    Ronnie l’aveva conosciuta come Yuma Emerson.
    Lei stessa si era sempre conosciuta come Yuma Emerson.
    Doversi nascondere poteva essere un giusto prezzo da pagare per potere rimanere aggrappata a quei pochi raggi di luce che aveva visto nel corso della vita.
    Si fermò un attimo, guardandosi intorno. Stava camminando lungo una strada come tutte le altre, non c’era nessuno che la volesse fermare... E se quella fosse stata una dimostrazione che poteva continuare ad essere Yuma?
    Riprese a camminare per raggiungere la macchina. Era già nel suo campo visivo quando udì dei passi alle sue spalle.
    Stava forse crollando tutto?
    «Yuma?» la chiamò una voce.
    Non si girò, continuò a camminare.
    «Yuma!» ripeté colui che si era appena rivolto a lei.
    Stavolta il tono non era più interrogativo e questo la spaventò: chiunque fosse, l’aveva riconosciuta. Non poteva far altro che tentare di fuggire.
    Corse verso la macchina, rovistando intanto nella borsa alla disperata ricerca delle chiavi. Dove le aveva cacciate? Se non le avesse trovate, sarebbe stata la fine.
    Non fu la fine.
    «Yuma, fermati. So che sei tu.»
    Yuma si fermò. Conosceva quella voce e, per quanto le sembrasse molto strano udirla proprio in quel momento, non poté fare a meno di sentirsi al sicuro.

    Nel momento stesso in cui Ronnie aprì gli occhi, si domandò se si fosse trattato di un sogno. Non c’era nessuno accanto a lui. Guardò la sveglia. Era mezzanotte e cinque: erano trascorse poco più di due ore da quando il campanello aveva suonato e, nell’aprire la porta, si era ritrovato davanti Yuma, che adesso però non c’era più.
    I suoi vestiti gettati alla rinfusa sul pavimento gli lasciarono ipotizzare che ciò che ricordava fosse stato reale.
    Si alzò e chiamò il nome di Yuma, sperando di ricevere una risposta. Dalle stanze vuote, però, non emerse alcun suono. Probabilmente se n’era andata senza dirgli nulla, e Ronnie si ritrovò a chiedersi se l’avrebbe mai rivista. L’idea di perderla di nuovo, proprio quando l’aveva appena ritrovata, gli sembrava insopportabile; in apparenza non poteva esserci niente di peggiore.
    I suoi occhi, però, si posarono sul comodino e si rese conto che al peggio non c’era limite: la lettera che aveva lasciato lì, piegata in due parti, prima di andare ad aprire la porta, non c’era più. Questo poteva avere una sola spiegazione: se lui non l’aveva spostata - e non ricordava di averlo fatto - a toglierla da là doveva essere stata Yuma.
    Ronnie si aggrappò alla folle speranza che non fosse così, mentre notava che la luce, in cucina, era accesa.
    Si diresse verso quella stanza e, come temeva, trovò la lettera sul tavolo. Yuma l’aveva letta. Accanto ad essa c’era un biglietto.

    Mi sei mancato in questi anni e non avrei potuto immaginare niente di più bello che poterti rivedere, ma ho capito che se il passato ci distrugge non dobbiamo continuare a inseguirlo.
    Per quanto mi riguarda tenterò di dimenticarmi di te una volta per tutte, e ti prego, nel limite del possibile, di fare altrettanto. È meglio per tutti e due, non possiamo negarlo.
    Hai sempre avuto ragione tu: le nostre anime sono di metallo, ma entrambi siamo stati troppo feriti dal fuoco per permettergli di fonderci.
    Mi chiedo soltanto una cosa: come hai potuto pensare che sarei stata sollevata, o addirittura felice, della tua morte? Comunque sia andata, in ogni caso, sono contenta che tu ci abbia ripensato prima che fosse troppo tardi.

    Non cercarmi più.
    Addio, stavolta per sempre.

    Yuma

    Ronnie non si sentì particolarmente ferito da quelle parole. Si sarebbe aspettato accuse talmente pesanti da non riuscire nemmeno a sopportare di leggerle, mentre in realtà non vi era alcun accenno a ciò che aveva preceduto l’incidente nel quale Rick aveva perso la vita. Secondo Yuma entrambi erano destinati a soccombere di fronte a un passato troppo doloroso, ma potevano ancora avere una via d’uscita, separando le loro strade. Il messaggio di fondo non era terribile tanto quanto aveva temuto inizialmente.
    L’idea di avere perso Yuma per sempre non poteva certo renderlo felice, ma dentro di sé sentiva che quell’abbandono era più spontaneo e naturale rispetto al primo.
    Avrebbe soltanto voluto dirle che non ci aveva ripensato, che quelle pillole l’avevano quasi ucciso e che, se sua madre non fosse rincasata in anticipo, tutto sarebbe andato a compimento esattamente come lui aveva programmato. Avrebbe voluto aggiungere che un tentativo di suicidio gli era bastato per comprendere che la sua condanna era quella di vivere e di continuare a tormentarsi ancora per molti anni. Da allora non era più riuscito a uscire da una malinconia perenne che, anziché rovinare la sua esistenza, in qualche modo era riuscita ad alleggerirgli la coscienza.
     
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