Anime di metallo

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  1. Milly Sunshine
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    Mi adori per il romanzo che ho concepito? Quindi se io non sapessi scrivere non mi adoreresti? HERESY! :P :P :P :P :P :P :P :P :P :P :P ...okay, basta con le linguacce, ne ho già messe troppe. Avrei dovuto mettere una trollface che le riassumesse tutte. U.U

    No problem, lo faccio ora. :trollface:

    *Fugge per schivare la mazza da golf che le viene scagliata sul naso.*

    Sono davvero felice che il romanzo ti stia piacendo così tanto, effettivamente è un progetto in cui ho sempre creduto molto e su cui mi sono fatta numerosi film mentali ogni sera prima di andare a dormire. U.U E parlo sul serio. ;)

    Va beh, dai, non ti faccio aspettare fino a stasera. Il capitolo 25 merita di mostrarsi nella sua interezza. u.u Ecco la conclusione...




    Ronnie era appena salito in macchina quando nel retrovisore vide comparire l’immagine di Patricia Spencer che si avvicinava correndo. Aveva due soluzioni: ignorarla e partire oppure scendere e chiederle cosa desiderasse da lui. Un tempo avrebbe optato per la prima alternativa, ma adesso era tutto diverso.
    Aprì la portiera e la accolse con un caloroso sorriso.
    «Ti serve un passaggio, Pat?»
    Lei scosse la testa.
    «No, ma dovevo fermarti.»
    «Perché?»
    «Hai dimenticato queste in ufficio.» Patricia gli allungò il pacchetto di sigarette che doveva evidentemente avere dimenticato sulla scrivania. «Me ne sono accorta e...»
    «Non importava che ti scomodassi» replicò Ronnie, cercando di non essere troppo scortese nei suoi confronti.
    «Ho pensato di fare una cosa gentile» rispose Patricia, per nulla offesa dalle sue parole. «Però dovresti smettere di fumare.»
    Ronnie sorrise.
    «Non sei la sola a dirmelo.»
    «Allora potresti prendere in considerazione questa ipotesi.»
    «Potrei» ammise Ronnie. «Forse un giorno ci riuscirò.»
    Patricia si tirò indietro una ciocca di capelli corvini che le ricadeva sulla fronte e prese, con aria imbarazzata, a fissare le punte delle sue decolleté nere.
    «Mhm... senti, Ron, mi stavo chiedendo se...»
    Ron.
    Ronnie s’irrigidì.
    «Dimmi.»
    «Ho dovuto portare la mia auto dal meccanico, ieri» gli confidò. «Mi stavo chiedendo se tu potessi... se tu potessi darmi un passaggio fino a casa.» Lo guardò negli occhi e prese a parlare senza sosta. «Non vorrei essere di alcun disturbo, posso prendere l’autobus se per te è un problema, te l’ho chiesto solo perché l’unica linea che porta direttamente a casa mia fa tutto il giro della città, ma se tu avessi un impegno non...»
    Ronnie la interruppe: «Va bene.»
    Gli occhi chiari di Patricia parvero illuminarsi.
    «Davvero saresti disposto a fare questo per me?»
    «Non mi stai chiedendo niente di così anomalo» la rassicurò Ronnie. «Ti accompagno a casa molto volentieri.»
    Gli sembrò di leggere un’espressione di trionfo negli occhi di Patricia e per un attimo si domandò se derivasse soltanto dal suo disappunto per il lungo percorso che avrebbe dovuto sorbirsi nel caso fosse tornata a casa in autobus.
    «Sei davvero molto gentile nei miei confronti» mormorò la segretaria, a quel punto. «Non sono poi così sicura di meritarmelo.»
    «Vorrà dire che, se un giorno sarò io ad avere bisogno di un passaggio, mi accompagnerai a casa» ribatté Ronnie.
    Stava per andare ad aprirle la portiera, ma Patricia lo precedette.
    «Non ti hanno mai detto che le donne sono capaci di salire in macchina anche senza l’aiuto di un uomo?» scherzò.
    Ronnie rise.
    «No, ma qualcuno me l’ha fatto capire adesso.»
    Salì a sua volta e, mentre si allacciava la cintura di sicurezza, chiese a Patricia: «Da che parte abiti?»
    Lei glielo spiegò mentre accendeva il motore, poi si mise a rovistare dentro l’enorme borsa che portava con sé, prima di girarsi verso di lui e lanciargli un’occhiata penetrante.
    «Andiamo?»
    Ronnie la guardò con aria di disapprovazione.
    «Non ti manca niente?»
    Patricia spalancò gli occhi.
    «Di cosa parli?»
    «Mettiti la cintura.»
    Patricia rise, il che lo infastidì, ma poi fece ciò che le aveva suggerito.

    Il telefono squillò quando Michel meno se lo aspettava. Rispose sperando che non si trattasse di Tom Harvey, in modo tale da poter essere a casa quando Yuma sarebbe rientrata.
    Fu proprio Tom, però, a parlargli non appena sollevò il ricevitore.
    «Michel?»
    La voce era inconfondibile.
    «Dimmi.»
    «Ho bisogno di te, ci sono delle novità a proposito di quel caso rimasto in sospeso.»
    Michel sussultò.
    «Non lascio mai dei casi in sospeso.»
    «Parlo dell’omicidio di Margot Emerson.»
    Era da mesi che l’argomento non saltava fuori: ufficialmente Harvey aveva altro di cui occuparsi in quel periodo, anche se Michel sospettava che il vero problema fosse che il finanziatore di quell’indagine aveva smesso di pagare.
    «Se pensi che io abbia intenzione di tornarmele a Starlit Spring...»
    Harvey si affrettò a interromperlo: «Non dovrai tornare da nessuna parte. È solo necessario che io e te ci vediamo.»
    «Quando?»
    «Appena puoi, sai dove trovarmi.»
    «Ci sarà Rachel con te?»
    «No» lo rassicurò Harvey. «Non ho certo intenzione di metterla al corrente di dettagli coperti da segreto professionale.»
    «Ma lavorate insieme» obiettò Michel.
    «Me l’hai detto tu stesso, Rachel è un amica del marito della defunta Margot» ribatté Harvey. «Ho tutti i diritti di tenerla all’oscuro di certe cose, non credi?»
    «Suppongo di sì.»
    «Bene. Allora sbrigati a raggiungermi.»
    Michel guardò l’orologio.
    «Tra un’ora sono da te.»
    «Un’ora?» ripeté Harvey.
    Sembrava seccato.
    «Quaranta minuti» propose Michel.
    «Va un po’ meglio» ammise Harvey, senza mostrarsi troppo soddisfatto. «Mi raccomando, non fare tardi.»
    «Come se non mi conoscessi! Ho mai fatto tardi io?»

    «Quindi abiti qui» osservò Ronnie, accostando. «È proprio una bella zona.»
    Patricia si sforzò di apparire entusiasta.
    «Sì, non potrei sperare in niente di meglio. È da qualche anno, ormai, che abito qui. Il palazzo è molto bello anche dall’interno.»
    «Fa proprio quest’effetto.»
    «Che ne dici di venire a vedere com’è dentro?» gli propose Patricia, cercando di non mostrarsi troppo audace. «Il mio appartamento ha un disperato bisogno di qualcuno che, di tanto in tanto, gli dia un’occhiata.»
    Ronnie declinò l’invito.
    «Magari un’altra volta. Non sono un grande osservatore di appartamenti
    Patricia cercò di non mostrarsi troppo seccata. Si chiese per l’ennesima volta se Ronnie non capisse i suoi messaggi non troppo velati o se si limitasse a fingere di non capire.
    Le loro voci le risuonarono in testa: frasi fatte, in apparenza, ma che in realtà avevano un grande significato
    «L’amore non corrisposto fa parte della vita.»
    «Spero che tu possa riuscire a trovare il vero amore, un giorno.»
    «Lo so, merito il meglio. Lo merito e lo avrò.»
    Possibile che Ronnie non si accorgesse che non desiderava altro che lui e che la loro nascente amicizia era soltanto una commedia messa in atto da una donna che voleva molto di più?
    Controvoglia aprì la portiera, slacciandosi nel frattempo la cintura di sicurezza che Ronnie l’aveva quasi costretta ad allacciare. A proposito, doveva indagare sul perché fosse così fissato da rifiutarsi di partire finché lei era senza.
    «Allora io vado» azzardò.
    «Va bene» le disse Ronnie, con un tono talmente neutro da infastidirla. «Ci vediamo domani, Pat.»
    «A domani.»
    A quel punto non le restava altro da fare che scendere e di guardare la sagoma della Ford Escort di Ronnie che si allontanava.

    Non era tardi; se non c’era troppo traffico, Michel sarebbe arrivato puntuale all’appuntamento con Tom Harvey.
    Sorseggiò un bicchiere d’acqua e diede un’occhiata al pessimo panorama che vedeva oltre la finestra della cucina. Tutto sommato tornare a Starlit Spring non sarebbe stata una prospettiva così pessima. Valutò la possibilità, se Harvey gli avesse ordinato di recarsi da quelle parti, di portare Yuma con sé. Le era già capitato di lasciare il lavoro per brevi periodi e non aveva mai avuto troppi problemi, magari non sarebbe stata un’idea così pessima.
    “Anzi, sì.”
    Yuma non doveva sapere che si occupava di indagare sull’omicidio di sua madre, avvenuto una notte di tre anni e mezzo prima in quella che era la sua città natale. Per lei era una ferita ancora aperta e cercava di parlarne il meno possibile, perciò lui stesso riteneva molto più opportuno evitare totalmente l’argomento.
    Si avviò verso la porta, cercando di ricordare l’ultima volta in cui Yuma gli aveva detto qualcosa a proposito di Margot, rendendosi conto che risaliva probabilmente a quasi un anno prima.
    «Uscì di casa una sera, per andare a consegnare dei soldi a dei creditori di mio padre» gli aveva spiegato. «Non fece più ritorno. Il giorno seguente ricevemmo una telefonata che ci annunciava che qualcuno le aveva tagliato la gola e aveva abbandonato il suo cadavere in un vicolo. Da allora, per me, niente è mai più stato come prima.»
    All’epoca non ci aveva fatto caso, ma adesso sospettava che quelle ultime parole avessero a che vedere con i problemi - mai veramente chiariti - esistenti tra Yuma e suo padre. La sensazione che ci fosse qualcosa di cui non era informato cresceva giorno dopo giorno, anche se non gli era mai sembrato il caso di chiedere chiarimenti a Yuma.
    Michel cercò di liberarsi di quelle congetture almeno per un po’; adesso aveva altro di cui occuparsi e Tom Harvey non sarebbe stato soddisfatto nel vederlo particolarmente pensieroso.
    Abbassò la maniglia e, proprio in quel momento, dall’esterno qualcuno spinse con forza la porta verso di lui.
    Michel si fece istintivamente da parte, prima di vedere Melvin Emerson oltrepassare la soglia.
    «Io e te dobbiamo parlare» gli annunciò il padre di Yuma, «E credo che tu abbia molte cose da dirmi.»
     
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