Anime di metallo

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  1. Milly Sunshine
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    Ecco la prima parte del capitolo 19.



    Capitolo 19.
    La grafia ordinata di Yuma era inconfondibile: anche senza la sua firma, Michel l’avrebbe riconosciuta lontano un miglio. Ciò che la ragazza aveva scritto gli appariva più enigmatico di quanto non gli fosse sembrato ad una prima lettura, come se tra le righe ci fosse qualcosa in più rispetto a quello che aveva sempre saputo.

    Quando leggerai questo biglietto, probabilmente io sarò già partita: non so dirti se e quando potrò tornare. Sarò io a mettermi in contatto con te. Andrò da Naive e da mia sorella, non so quanto mi fermerò.
    Ti chiedo di perdonarmi per non averti comunicato prima la mia intenzione di andarmene, ma ho dovuto fare tutto molto in fretta: stasera mio padre andrà a giocare a biliardo insieme alla sua amica, quella che di tanto in tanto viene a trovarlo a casa nostra, e devo approfittare della sua assenza. La situazione non è peggiorata più di tanto, ma dato che non accenna a migliorare devo essere io ad agire in prima persona.
    Ti chiamerò appena mi sarà possibile.

    Yuma.

    Che cosa poteva spingere una ragazza, che qualche mese prima aveva fatto il possibile e l’impossibile per allontanare una bambina di undici anni da suo padre, a lasciare la propria casa? Per quanto aveva sempre saputo Melvin Emerson era un uomo molto invadente nei confronti della figlia maggiore, che non le lasciava la possibilità di frequentare chi voleva. Ma era davvero così? Un padre che dettava legge era un motivo valido per sparire nel nulla – o quasi – dopo avergli lasciato una busta con dentro un biglietto nella cassetta della posta?
    Era in un momento come quello che Michel rimpiangeva l’assenza di Ronnie: il suo coinquilino era partito la domenica precedente diretto nella propria città natale, dove si sarebbe fermato per oltre una settimana. Era stata una sua collega a convincerlo ad accettare l’invito di sua madre, quella fantomatica Patricia Spencer che già da molto tempo avrebbe desiderato portarlo all’altare e che, Michel ne era fermamente convinto, ci sarebbe riuscita senza problemi se solo non avesse avuto così tanti anni in più rispetto a lui.
    “Ronnie avrebbe sfoderato la sua migliore espressione da bravo ragazzo e mi avrebbe senz’altro consigliato la cosa migliore da fare, in una situazione di questo tipo” valutò. “A quel punto sarebbe stato tutto molto più semplice, dato che mi sarebbe bastato fare l’esatto opposto.”
    Infilò il biglietto in tasca, avvicinandosi all’insegna al neon del localetto da quattro soldi che Melvin Emerson e la sua fantomatica amica – probabilmente una donna di mezza età dall’aria rozza che gli scaldava il letto – erano soliti frequentare.
    Non sapeva cos’avrebbe detto a Melvin, una volta che l’avesse raggiunto nel locale. Anzi, non sapeva nemmeno se sarebbe entrato.
    Guardò la porta spalancarsi. Ne uscì una ragazza che doveva avere più o meno la sua età, o forse qualche anno in più. Portava una giacca di lana abbinata a una gonna scozzese e aveva i capelli castani raccolti in un’antiquata acconciatura.
    “E questa chi è?” si domandò Michel. “Sembra mia nonna con cinquant’anni di meno!”
    Proprio mentre continuava a fissare l’insegna del locale, la ragazza gli andò vicino e gli domandò, con un sorrisetto a stento trattenuto: «Ti stai chiedendo se valga la pena di entrare in quel luogo di perdizione oppure no?»
    Michel spalancò gli occhi.
    «Luogo di perdizione?» ripeté, domandandosi chi diamine fosse quella sconosciuta e, soprattutto, che cosa volesse da lui.
    La ragazza rise.
    «Scherzavo, naturalmente. È un posto che fa veramente schifo, c’è solo gente di mezza età che beve di più di quanto dovrebbe.»
    «Non m’importa di chi sia la clientela target» ammise Michel. «Sono qui perché dovrei parlare con una persona.»
    La ragazza annuì.
    «Capisco, e sei qui che ti chiedi se sia il caso di farlo oppure no.»
    Michel rabbrividì.
    Perché aveva l’impressione che quella maledetta sconosciuta sapesse perfettamente perché si trovava lì?
    Lei, da parte sua, riprese a ridere.
    «Ti chiedo come faccio a saperlo, non è vero?»
    «Beh, sì...» ammise Michel.
    «Ho una certa esperienza in fatto di ragazzi che non sanno prendere la decisione giusta. Rimangono lì per ore, in attesa di ricevere da Dio in persona un’illuminazione e capire quale sia la cosa migliore da fare.»
    «Mi dispiace deluderti, ma non credo in Dio.»
    «Allora farai parte di quell’altra categoria di indecisi, quelli che sanno che, comunque vada, tutto è già scritto nel loro destino e...»
    «Non credo nemmeno nel destino.»
    La ragazza sbuffò.
    «Che palle! Possibile che tu non creda in nulla?»
    «Credo nell’intelletto umano» ribatté Michel, ormai convinto che quella ragazza non potesse essere in alcun modo pericolosa. Era soltanto la prima venuta che, per il semplice fatto di averlo trovato sulla sua strada, si sentiva autorizzata a sommergerlo con chiacchiere senza alcuno scopo. «La mia mente mi indicherà quale sia la strada migliore da percorrere.»
    Lei alzò gli occhi al cielo.
    «Beato te! Anch’io vorrei tanto essere capace di credere in me stessa.»
    Michel osservò, a quel punto: «Potresti accompagnarmi dentro. Magari potrei darti qualche lezione su come credere in te stessa.»
    La ragazza gli lanciò un’occhiataccia.
    «Pensi che io voglia venire a chiudermi insieme a te nel cesso di un locale malfamato?»
    «Non ho detto niente di tutto questo.»
    «Meno male!» ribatté lei. «Credo che l’ultima volta che hanno pulito quei cessi non avessero ancora inventato l’anticalcare! Sono davvero orripilanti. Ci sono posti molto più invitanti in cui...»
    Michel la interruppe: «Non ho questa intenzione. Non è mia abitudine rimorchiare le perfette sconosciute.»
    Lei rise.
    «Perfetto, allora mi presento. Io sono Pam.»
    «Piacere di conoscerti, spero che tu non abbia nulla in contrario se non ti dico come mi chiamo. Oltre a non scoparmi le sconosciute, non ho nemmeno l’abitudine di informarle dei miei dati personali.»
    Pam annuì.
    «Come ti pare. Tanto sono convinta che un giorno ci rivedremo... e chissà, magari allora si saranno decisi a disinfestare i bagni di questo locale.»
    «O magari tu avrai incontrato l’uomo della tua vita» suggerì Michel, «E non vorrai più saperne di provarci con me.»
    «Non ci stavo provando.»
    «Ah, no?»
    «Mi piace essere corteggiata» ribatté Pam. «Speravo che fossi tu a provarci con me.»
    «Allora mi spiace deluderti, perché ho qualcosa di molto più importante da fare.»
    Si avvicinò alla porta ed entrò, ritrovandosi sommerso da un odore di fumo talmente forte da fargli lacrimare gli occhi, nonostante ci fosse abituato.
    Prese a guardarsi intorno, alla ricerca di Melvin Emerson. Non gli volle molto per individuarlo: era seduto ad un tavolo insieme a una donna con i capelli raccolti in una coda, che Michel vedeva soltanto di spalle.
    “Immagino che quella sia la sua amica.”
    Si avvicinò in fretta, perché sapeva che se non l’avesse fatto subito avrebbe finito per cambiare idea. I motivi per cui avrebbe potuto farlo erano tanti: Yuma non voleva che suo padre venisse a sapere che loro due si frequentavano ancora, ma soprattutto aveva lasciato Black Hill a sua insaputa e avrebbe potuto reagire molto male se Michel l’avesse informato di questa sua decisione.
    “È inutile farsi paranoie” concluse infine, quando ormai era a due passi dal tavolo al quale Melvin era seduto insieme all’accompagnatrice. “Vada come vada, è giusto che quest’uomo sappia che cosa penso di lui.”
    I due, ancora immersi in un’amabile conversazione, non si accorsero di lui, che rimase per qualche istante in attesa.
    «Melvin?» lo chiamò infine.
    Il padre di Yuma alzò gli occhi verso di lui.
    Alla donna sfuggì un’esclamazione: «E tu che ci fai qui?»
    Michel si girò di scatto.
    «Che cosa ci faccio io? Che cosa ci fai tu, piuttosto?!»
     
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