Anime di metallo

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  1. Milly Sunshine
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    E' un'ottima congettura! u.u Ti stai, in parte, avvicinando alla verità... ma ci sarà qualcosa di più! ;) Permane comunque il fatto che Dean continuerà ad essere presente per moooolto tempo!
    Ora aggiorno con la prima parte del nuovo capitolo. ^^



    Capitolo 14.
    I giorni che si erano susseguiti trasformandosi in settimane e poi in mesi e in anni avevano permesso a Ronnie di riuscire, seppure devastato dai suoi terribili ricordi, a trovare sempre un filo a cui aggrapparsi per fingere con se stesso di non avere ancora perso ogni contatto con la realtà circostante.
    L’incontro con Ralph aveva avuto conseguenze strazianti, ma non poteva permettere che le accuse di suo fratello gli impedissero di dare a Yuma lo spazio che le spettava. Fino a dieci giorni prima per lui era sempre stata soltanto poco più di un’estranea con la quale aveva avuto modo di scambiare qualche parola quando la vedeva insieme a Michel, ma tutto era cambiato fin troppo velocemente e Ronnie sapeva di non poter fare niente per cambiare quella nuova realtà, e se anche avesse potuto si sarebbe guardato bene dal farlo: Yuma Emerson poteva offrirgli la possibilità che gli era sempre sfuggita, quello di poter fare qualcosa di utile per qualcuno.
    Erano passate quarantotto ore dal momento in cui se n’era andata – dando per scontato che le informazioni che gli erano state riferite dalla giovane cameriera fossero corrette e attendibili – e nel frattempo, probabilmente in uno dei tanti momenti che Ronnie aveva trascorso maledicendosi per ciò che era accaduto nella notte che avrebbe desiderato cancellare una volta per tutte, era tornata – o qualcuno era tornato al suo posto – a prelevare gli effetti personali che aveva lasciato nella propria stanza.
    Ancora una volta Yuma non si era fatta viva e, per quel poco che Ronnie la conosceva, sapeva che non era da lei. Doveva essere successo qualcosa di veramente grave se la stessa Yuma non si era più messa in contatto con lui, Ronnie non riusciva a credere che potesse essere diversamente: quella ragazza non lo considerava soltanto qualcuno di cui servirsi, ma gli aveva dimostrato di provare almeno un minimo di interesse per lui, per il suo passato e per le ragioni che l’avevano condotto fino a Black Hill.
    Ricordò la voce di Yuma, mentre qualche sera prima gli chiedeva: «Perché hai lasciato Starlit Spring? La tua famiglia abita ancora qui, non è vero?»
    Ora Yuma gli mancava: avrebbe tanto voluto dirle che aveva rivisto sua madre e suo fratello e che, se il primo incontro era stato accettabile, il secondo era stato devastante.
    «È una storia lunga» le aveva risposto, d’impulso, non appena Yuma gli aveva posto quella domanda. «Abitano ancora qui, comunque.»
    Yuma sorrideva quasi, quando aveva immancabilmente realizzato: «Non ti va di raccontarmela, vero, questa storia lunga?»
    Ronnie si era ritrovato ad abbassare lo sguardo, mentre Yuma si era scusata di essere stata invadente nei suoi confronti. Ora avrebbe voluto risponderle che non lo era stata affatto e che, come lei si era confidata con lui, lui avrebbe dovuto fare lo stesso.
    «Sai, Ronnie» aveva osservato lei, quasi soprappensiero, la stessa sera in cui avevano fatto quel discorso, «A volte, quando penso a tutto quello che è successo da quando mia madre è morta, mi dimentico di non essere l’unica che ha vissuto esperienze negative. Non rendersi conto che anche gli altri possono avere passato momenti terribili è la cosa peggiore che può capitare in una situazione come la mia: c’è chi del sentirsi una vittima fa la propria arma vincente... e io non voglio che a me accada.»
    Ancora una volta Ronnie si pentì di non averle dato una risposta che avesse davvero significato. Con lui Yuma non si era mai atteggiata a vittima e non l’aveva mai fatto sentire obbligato ad aiutarla. Dopo essere stata accompagnata da Naive, avrebbe voluto lasciarlo andare. Era stato lui, quando si era accorto che Yuma sembrava essere preoccupata per Michel, a proporle tutto quello che era seguito.
    Yuma.
    Heaven.
    Naive.

    Tutto, all’improvviso, gli sembrò chiaro. C’era una sola persona a cui Yuma si sarebbe rivolta, se davvero avesse voluto mollare tutto. Era a lei che doveva rivolgersi.

    Da giorni Naive aspettava che il telefono squillasse, straziata dall’attesa e da tutto ciò che avrebbe potuto succedere, ma che non succedeva o succedeva a sua insaputa. Heaven le chiedeva notizie ogni giorno, ma soprattutto le chiedeva quando sarebbe potuta tornare a casa, insieme a quel padre che ancora amava e alla sorella della quale continuava a non comprendere le azioni.
    Fissando la fotografia di Margot si chiese che cosa fosse opportuno fare. Un giorno qualcuno avrebbe dovuto spiegare a Heaven che l’uomo di cui si era sempre fidata non meritava la sua fiducia.
    «Margot» mormorò, come se il ritratto di sua sorella potesse udirla, «Credevo che sposarlo fosse stato l’errore più grande della tua vita, ma è stato uno sbaglio molto peggiore continuare a rimanergli accanto.»
    Non poteva accusare Margot di quello che era accaduto dopo la sua morte, questo era vero, ma era altrettanto certa che se si fosse allontanata da Melvin Emerson prima che fosse troppo tardi non sarebbe mai stata assassinata.
    “Quell’uomo ha sempre avuto a che fare con gente che nascondeva qualcosa” pensò Naive, per l’ennesima volta, “Qualcosa che nessuno avrebbe dovuto scoprire e che Margot invece aveva ha scoperto.”
    Seppure Melvin non l’avesse assassinata di persona e sostenesse di sentire la sua mancanza, poteva essere ritenuto indirettamente colpevole della morte della sorella maggiore alla quale Naive era sempre stata molto legata, nonostante i diciassette anni che le separavano e il fatto che Margot fosse figlia di quella che era stata la prima moglie del loro padre, una donna che detestava profondamente sia lui sia la sua nuova famiglia. Naive sapeva che, se Margot fosse stata ancora viva, avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di aiutarla, se avesse avuto bisogno del suo aiuto: l’aveva sempre fatto e, se non poteva ricambiare il favore nei suoi confronti, Naive sapeva di doverlo fare almeno nei confronti di Yuma e di Heaven.
    Proprio quest’ultima si avvicinò. Naive si sforzò di trattenere le lacrime: sapeva che cosa la bambina le avrebbe chiesto.
    Le parole di Heaven furono proprio quelle che si aspettava: «Yuma ci chiamerà oggi?»
    Si sforzò di sorriderle, mentre si girava verso di lei.
    «Forse.»
    «Cosa significa forse?» le chiese Heaven. «Forse sì o forse no?»
    Naive sospirò.
    «Forse significa forse. Forse sì, forse no.»
    Heaven abbassò lo sguardo.
    «Spero di sì.»
    Naive confermò: «Lo spero anch’io.»
    Sperò che Heaven non aggiungesse altro, ma non fu così e quello che disse, ancora una volta, le trafisse il cuore.
    «Voglio che Yuma mi porti a casa.»
    Naive si sforzò di sembrarle divertita da quelle parole.
    «Non stai bene qui con me?»
    Heaven annuì.
    «Sto bene con te.»
    Naive rise, la risata più falsa dei suoi ventotto anni di vita.
    «E allora dov’è il problema?»
    Heaven le spiegò, con la sua voce sottile: «Ho voglia di rivedere i miei amici...»
    «Li rivedrai» la rassicurò Naive. «Li rivedrai molto presto.»
    «...E anche di rivedere papà.»
    Naive raggelò.
    “Che cosa devo dirle adesso?”
    Quell’individuo era l’ultima persona con cui, per il proprio bene, Heaven avrebbe dovuto avere a che fare.
    Il telefono iniziò a squillare mentre quel dubbio la tormentava.
    “Per fortuna.”
    Più che per quell’inattesa chiamata in arrivo era sollevata dall’avere trovato un motivo valido per non aggiungere altro con sua nipote.
    Il suo battito cardiaco accelerò mentre sollevava il ricevitore e sperava con tutte le sue forze di risentire, dopo giorni, la voce di Yuma.
     
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