Anime di metallo

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  1. Milly Sunshine
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    Anzi, no, non ti faccio aspettare così tanto! u.u



    Ronnie fissava la porta da quasi un’ora, senza avere la forza di suonare il campanello. Non era sicuro che qualcuno sarebbe stato felice di rivederli, forse la soluzione migliore era andare via e fingere di non essere mai stato a Starlit Spring. Doveva convincere Yuma a partire al più presto, avrebbero dovuto tornare a Black Hill e lasciare che Michel se la sbrigasse da solo, qualunque fosse la dannata ragione per cui era venuto a Starlit Spring.
    “Non ha senso stare qui davanti senza fare nulla” decise.
    Stava per girarsi e tornare da dove era venuto, quando la porta si aprì. Sua madre rimase perplessa, sulla soglia, a fissarlo, quasi come se non credesse ai propri occhi.
    «R-Ronnie?» balbettò, come se non fosse stata davvero convinta della sua presenza.
    Lui rimase in silenzio, senza sapere cosa dire.
    «Entra» lo invitò lei. «Avevo un impegno, ma posso sempre disdire.»
    «Non dirlo nemmeno per scherzo» replicò Ronnie. «Vai dove devi andare, senza preoccuparti per me.»
    Sua madre spalancò gli occhi.
    «Tu ti degni finalmente di venire a Starlit Spring e io dovrei lasciarti andare via senza nemmeno farti entrare in casa? Non se ne parla!»
    Ronnie obiettò: «Forse c’è chi potrebbe non essere soddisfatto.»
    Suo padre.
    Ralph.
    La verità.

    Sua madre non aveva mai avuto alcun sospetto, ma loro avevano quasi saputo leggergli nella mente. Non avevano una sola prova, quelle nessuno le avrebbe mai avute, ma avevano entrambi intuito la sua colpevolezza.
    «Non dire sciocchezze» lo rimproverò sua madre. «Questa è casa tua.»
    «Sei la sola a pensarlo.»
    «Non è colpa tua» insisté lei. «Non puoi essere responsabile tu, se Rick non c’è più.»
    Ronnie si sorprese che accennasse in maniera così esplicita alla morte di suo fratello, ma non lo diede a vedere.
    «Entra» ripeté sua madre. «Siamo soli, non è ancora arrivata nemmeno Elizabeth.»
    A parte l’assenza di Rick, nulla era diverso rispetto a un tempo, almeno di facciata. Perfino Elizabeth veniva ancora a fare le pulizie sempre al mercoledì e sempre alla stessa ora.
    Seppure tentennante, Ronnie entrò.
    Passò quasi un’ora e mezza a parlare con sua madre, a raccontarle del suo lavoro a Black Hill, ad accennare soltanto, senza entrate troppo nel dettaglio, al ragazzo col quale condivideva le spese per l’appartamento dove abitava, infine fu molto vago sul fatto di trovarsi a Starlit Spring insieme a un’amica. Sua madre interpretò male questa informazione, convincendosi che fosse venuto insieme a una sua ipotetica fidanzata. Non la smentì: tanto meglio se si metteva in testa che aveva una ragazza, non aveva certo intenzione di spiegarle che lui e Yuma eravamo venuti in città per cercare un tale che non avrebbe approvato, che si trovava a Starlit Spring per motivi incerti e svolgeva una professione altrettanto incerta.
    Quando se ne andò avvertì uno strano senso di sollievo, come se la consapevolezza che sua madre non avrebbe mai potuto violare il suo segreto potesse dargli la forza di andare avanti, seppure in un contesto fatto di menzogne.
    Tornò all’albergo, chiedendosi se Yuma fosse già rientrata. Era uscita per andare a fare quattro passi, quella mattina, forse c’erano speranze di incontrarla e di pranzare insieme a lei.
    Salì le scale in fretta e si fiondò a bussare alla sua porta. Non ricevendo risposta, aprì. La stanza era deserta, con poche cose gettate alla rinfusa sul letto, il che non era tipico di Yuma. Ronnie rimase lì, appoggiato allo stipite, chiedendosi dove si fosse cacciata.
    “Non essere paranoico” si ordinò. “Tornerà.”
    In quel momento udì dei passi dietro di sé, in corridoio.
    «Sta cercando la signorina Emerson?» gli domandò una cameriera che non doveva essere tanto più vecchia di Yuma e che non gli sembrava molto sveglia.
    «Sì, cerco proprio lei» confermò Ronnie. «L’ha vista?»
    La cameriera arrossì.
    «Beh, sì...»
    Se non altro era già un notevole passo avanti.
    «Quando?»
    «Saranno state le dieci e mezza. No, forse le undici...»
    Ronnie guardò l’orologio: erano le dodici e un quarto.
    «È tornata, quindi.»
    La cameriera si mise a contemplare il pavimento con uno sguardo ben più interessato di quello che avrebbe riservato alle opere esposte in un museo d’arte contemporanea.
    «Sì, ma ora non è qui.»
    Ronnie lo vedeva perfettamente anche da solo, ma non gli parve il caso di puntualizzarlo.
    «È uscita di nuovo, quindi?» le chiese.
    La cameriera alzò la testa e stavolta riservò i suoi occhi adoranti al lampadario più kitsch che Ronnie avesse mai avuto modo di ammirare.
    «L’ho vista prendere qualcosa in camera, credo uno zaino, e poi andarsene via in macchina con l’uomo che l’aveva portata qui.»
    «Qualcuno l’ha accompagnata in albergo e poi se n’è andato insieme a lei?» ripeté Ronnie, incredulo.
    La cameriera sorrise.
    «Proprio così.»
    A Ronnie sembrava inverosimile, ma poteva esserci una spiegazione. Forse Yuma aveva incontrato Michel e se n’era andata via con lui dimenticandosi di avvertirlo.
    «Lui era un tipo biondo con una macchina malandata?»
    «Era una bella auto, invece» replicò la cameriera. «Era grigia e non sembrava proprio messa male.»
    Non pareva una descrizione adatta all’automobile del suo coinquilino, Ronnie fu costretto ad ammetterlo. Cercò anche lì di non lasciarsi prendere dallo sconforto: per qualche motivo Michel avrebbe potuto usare una macchina che non era la sua.
    La cameriera, però, mandò all’aria ogni sua illusione.
    «L’uomo, comunque, non era biondo.»
    «Ne è sicura?»
    «Sì. Vede, aveva i capelli scuri.»
    E adesso? Ronnie si rese conto di non avere nulla tra le mani. Yuma se n’era andata e non aveva idea né di dove si trovasse né di chi ci fosse con lei.
    «Non ha idea, vero, di dove fosse diretta?»
    La cameriera abbandonò il lampadario per tornare al pavimento.
    «No, io l’ho vista da una finestra.»
    Ronnie avrebbe dovuto aspettarselo, ma ci rimase ugualmente male.
    «Quindi non le ha parlato.»
    «No, certo che no. Non è mio compito informarmi sugli spostamenti dei clienti.»
    Ronnie iniziò ad avvertire uno strano senso di pericolo.
    “Devo trovarla.”
    «Quando tornerà, le dirò che la stava cercando» si offrì la cameriera.
    «Non si preoccupi» replicò Ronnie. «Se e quando tornerà, la vedrò io stesso.»
    Entrò nella sua stanza, lasciandola assorta nell’osservazione del pavimento.
    Si sedette sul letto con la sensazione che quello che era successo finora non fosse altro che un anticipo di qualcosa che ancora doveva accadere.
    Era solo, era di nuovo solo.
    Una sconosciuta che gli chiedeva aiuto.
    Rick.
    L’auto in fiamme.

    Yuma se n’era andata e, senza di lei, Ronnie non era in grado di affrontare i fantasmi che lo tormentavano.
    Attese per ore un segnale del suo ritorno, ma si rese conto ben presto che, con tutta probabilità, non l’avrebbe rivista mai più. Forse era la soluzione migliore, almeno per lei: dopo avere affidato la sorella minore a Naive avrebbe potuto vivere la propria vita, finalmente lontana da un padre che le aveva rovinato l’esistenza.
    Per questo, quando udì bussare alla porta, per un attimo si chiese che cosa fosse cambiato. Nessuno poteva cercarlo, se non lei. Scattò verso la porta, aprì e si ritrovò a occhi spalancati a fissare l’ultima persona che avrebbe creduto di poter vedere.
     
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