Anime di metallo

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  1. Milly Sunshine
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    Parte conclusiva del capitolo 6.



    La luce filtrava nonostante le spesse tende dal colore indefinito, che a un accurato esame fremevano dal desiderio di essere lavate. Michel aveva ancora il suo orologio digitale al polso, e segnava le 11.32. Considerando che era riuscito a buttarsi sul letto soltanto alle sette e un quarto della mattina aveva dormito poco più di quattro ore nelle quali, ne era sicuro, si era ritrovato a sognare Kelly James.
    Si sentivo stanco e sicuramente le sue occhiaie non erano diminuite rispetto al momento in cui quella cameriera le aveva criticate, ma cercare di riprendere sonno non avrebbe avuto senso. Si alzò e si trascinò verso il bagno, ripensando alla sua reazione nel momento in cui le avevo detto di chiamarmi Ronald Craven. Si era comportata in modo anomalo, non c’era verso di negare l’evidenza. L’aveva vista impallidire e mettersi a tremare, e nonostante avesse le palpebre che facevano sforzi enormi per rimanere aperte, era certo di non essersi sbagliato, così come era sicuro il collaboratore fidato di Harvey era il più grande idiota che fosse mai comparso sulla faccia della Terra.
    Quando uscì dal bagno era ormai mezzogiorno passato. Lanciò un’ultima occhiata alla sua immagine riflessa nello specchio.
    “Ora che ho eliminato quella dannata barbetta sono molto più attraente” si disse. “Dovrei mettermi indosso qualcosa che mi renda un vero figo, andare allo Starlit Cafè e chiedere a Kelly James di venire a cena con me questa sera!”
    Avrebbe potuto essere tempo sprecato oppure l’inizio di una storia d’amore, anche se non era molto cortese nei confronti di Yuma fare un pensiero del genere. Fortunatamente la sua ragazza non aveva il potere di leggergli nella mente. A proposito, doveva telefonarle.
    Andò a infilarsi qualcosa – non esattamente indumenti che lo rendevano “un vero figo”, sembrava più un liceale invecchiato che nessuna avrebbe preso in considerazione – e poi andò a sedersi accanto al telefono.
    “Che le dico?”
    Yuma avrebbe voluto sapere dove si trovava e non era un genere di domanda a cui aveva intenzione di rispondere.
    “Va beh, m’inventerò qualcosa.”
    Compose il numero sul vecchio telefono a rotella e rimase in attesa. Suonava a vuoto: Yuma non era a casa.
    “Meglio così” decretò Michel. “Almeno non dovrò mentirle.”
    Riattaccò.
    “E se chiamassi Ronnie?”
    Compose il numero dell’appartamento in cui abitavano, aspettandosi una risposta da parte del suo coinquilino. Inutile dire che anche in quel caso sentì soltanto squilli a vuoto.
    Gli balenò per la testa un’idea a cui non aveva pensato: “La gente che ha orari di lavoro normali, a quest’ora difficilmente è in casa.”
    Si chiese anche come sopportassero un’esistenza così carica di routine. Lui non sarebbe resistito a dover fare le stesse cose ogni giorno alla stessa ora. Era stata una fortuna incontrare Tom Harvey, dopotutto.
    “Anche se a causa sua ho a che fare con degli idioti che ritardano ore e ore per rimanere a casa a palpeggiare un paio di tette.”
    «Ti è richiesta una cosa molto semplice ed elementare: scoprire il colpevole, o molto più probabilmente i colpevoli» gli aveva detto l’individuo in questione, facendogli pensare che non avrebbe dovuto affatto accettare la proposta di occuparsi di un lavoro fuori città e che, tutto sommato, svolgere ogni giorno le stesse attività non doveva essere così straziante come pensava.
    «Se era così semplice, come mai quelli che l’hanno ammazzata non sono già in galera da anni?» gli aveva chiesto, sorpreso dal suo ottimismo.
    «Questo non è un problema tuo» aveva replicato il collaboratore di Tom. «Trovali e basta. È per scoprirlo che Harvey viene pagato, e se non raggiungerai il tuo obiettivo non vedrai un centesimo.»
    «Quello che proprio non riesco a capire» aveva obiettato Michel, «è quale sia il tuo ruolo in questa storia. Quello di consegnarmi una piantina? Se Harvey mi avesse comunicato l’indirizzo del posto in questione, sarei riuscito a trovarlo anche da solo: per quanto la cosa possa lasciarti spiazzato, un minimo di senso dell’orientamento ce l’ho.»
    «Non lo metto in dubbio.»
    «Mi pare già un buon passo avanti. Ora, però, vorrei sapere chi sei e che scopo ha la tua presenza in tutto questo, se non chiedo troppo.»
    L’idiota aveva sorriso – un sorrisetto da idiota appunto – e finalmente si era presentato: «Mi chiamo Dean Tray.»
    Oltre a non essere un nome particolarmente intrigante, non dava alcun valore aggiunto alle informazioni di cui Michel già disponeva.
    Gliel’aveva fatto presente: «Il tuo nome non mi basta, voglio anche sapere a che cosa servi, perché ci siamo dovuti incontrare...»
    «Ovviamente devo introdurti agli ambienti di Starlit Spring.»
    “Oh, bene” aveva pensato Michel, cercando di non farsi prendere dallo sconforto. “Non solo Harvey pensa che io non sia in grado di cavarmela da solo in una cittadina da ventimila abitanti, addirittura ha deciso che questo imbecille mi deve fare da bodyguard.”
    Immancabilmente si era ritrovato a fantasticare ancora una volta sull’avere tra le mani una bottiglia di vetro anziché di plastica.
    Dean aveva rovistato tra le tasche della sua giacca di finta pelle e gli aveva dato un foglietto spiegazzato.
    «Questo è l’indirizzo del posto in cui alloggerai.»
    Michel aveva cercato di capire da che parte guardarlo e, quando finalmente ero riuscito a leggere il nome di una via con tanto di numero civico, gli aveva chiesto: «Questo dovrebbe bastarmi?»
    Dean l’aveva guardato a lungo.
    «Cosa intendi?»
    «Suppongo che per entrare in quell’appartamento ci vogliano delle chiavi, no?»
    «Oh, che sbadato che sono!» aveva esclamato Dean, portandosi una mano sulla fronte, per poi passarsela tra i folti capelli scuri. Curiosamente era la prima frase sensata e intelligente che Michel sentiva uscire dalla sua bocca. «Ora ti do le chiavi.»
    Le aveva cercate in lungo e in largo in tutte le tasche della sua giacca – ma quante ne aveva? – per poi scoprire di averle in una di quelle dei pantaloni.
    Ora le chiavi erano appoggiate al tavolino sul quale si trovava il telefono. Accanto a quelle c’era un ulteriore foglio stropicciato sul quale Dean aveva annotato il suo numero.
    «Per qualunque problema chiamami» l’aveva avvertito. «Altrimenti, se non c’è niente in contrario, ci troviamo qui stasera alle nove.»
    Naturalmente, prima che Michel partisse, Harvey gli aveva ricordato che non poteva permettersi di avere qualcosa in contrario e che dovevo attenersi alle disposizioni ricevute, quindi non si sarebbe messo in contatto con Dean. Aveva ancora quasi undici ore in cui godersi la sua assenza e non aveva certo intenzione di ritrovarselo tra i piedi prima del previsto.
    Gli venne il desiderio di fumare una sigaretta, ma poi ricordò che le aveva finite la sera precedente e che non le aveva ancora comprate. Avrebbe dovuto uscire a cercare una tabaccheria.
    “Oppure posso fare senza” decretò; dopotutto sentire in bocca il sapore di menta del dentifricio faceva un effetto migliore rispetto a quello del tabacco.
    Si alzò in piedi e andò ad affacciarsi alla finestra. Alloggiava in uno stabile malandato in cui durante l’alta stagione gli appartamenti venivano presi in affitto da vacanzieri dal basso budget, ma il panorama non era male, per lui che a Black Hill era abituato ad andare alla finestra e a vedere soltanto cemento al di sotto.
    Si perse a fissare le poche ragazze che passavano lungo la strada. Nessuna di loro gli sembrava attraente come Yuma o come Kelly.
    Si allontanò dalla finestra e andò a cercare l’orologio. Se l’era tolto in bagno, al momento di andare sotto la doccia. Segnava le 12.27: era passata quasi un’ora da quando si era svegliato e ne mancavano ancora otto e mezza al momento in cui avrebbe dovuto incontrare Dean Tray. Doveva dare un senso alla sua giornata, non aveva l’abitudine di starsene a guardarsi intorno senza sapere che cosa fare.
    Si infilò le scarpe e il giubbotto, prese le chiavi di casa e uscì. Per prima cosa sarebbe andato a comprare le sigarette, dopodiché sarebbe andato a trovare Kelly James. Dopotutto non mangiava dal pomeriggio precedente e non ci sarebbe stato nulla di male se avesse pranzato al bar in cui quella ragazza lavorava.
     
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