Anime di metallo

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  1. Milly Sunshine
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    Capitolo 6.
    «Ebbene sì, la figlia di mia cugina ce l’ha fatta» raccontò l’uomo sui settant’anni che stava appoggiato contro al bancone, con davanti a sé la tazzina vuota del caffè espresso che si era scolato tutto d’un fiato. «Si è laureata con il massimo dei voti, non puoi immaginare che gioia.»
    «In cosa si è laureata?» gli domandò Kelly, fingendo interesse per l’argomento.
    L’uomo la guardò con gli occhi spalancati.
    Era uno dei tanti che non facevano che vantarsi dei successi scolastici e universitari di tutta la discendenza dei loro parenti stretti e alla lontana, senza avere la benché minima idea di che cosa questi ragazzi stessero studiando. Kelly ne vedeva a bizzeffe ogni giorno e tutti sentivano l’esigenza di narrarle la storia della loro esistenza, a partire dal momento in cui avevano visto la luce, passando alla loro infanzia, agli anni dell’adolescenza, al momento in cui avevano incontrato la persona della loro vita, per poi passare a parlare dei loro figli, dei loro eventuali nipoti e, in taluni casi, di come vivevano la loro vedovanza.
    «Mhm... non mi ricordo, in effetti» ammise il cliente. «Lo chiederò al marito di mia cugina, la prossima volta che ci troviamo per una partita a carte.»
    Kelly sorrise.
    «Mi raccomando, poi mi faccia sapere, che m’interessa.»
    In realtà non gliene importava un bel nulla, ma il successo dello Starlit Cafè dipendeva anche dalla sua capacità di ascoltare le persone che aveva di fronte.
    «E lei?» le chiese all’improvviso l’uomo.
    Kelly rimase spiazzata.
    «Io... io che cosa?»
    «Lei cos’ha studiato?»
    La cameriera ridacchiò.
    «Se avessi studiato, spererei di non essere qui a preparare caffè tutto il giorno.»
    L’uomo annuì e adocchiò immediatamente un giornale posizionato sul tavolino più vicino.
    Lo prese in mano e rimase a guardarlo, senza sfogliarlo.
    «Sa, signorina» riprese, «a volte mi sembra ieri che mi sono sposato con mia moglie, e invece è stato nel 1941. Mi sembra così strano che siamo già nel 1988.»
    «1989» lo corresse Kelly.
    «Come dice?»
    «Niente. Non ha importanza.»
    A quel punto andò a sedersi al tavolo sul quale aveva trovato il quotidiano. Iniziò a sfogliarlo. Meglio così, si disse Kelly, almeno le avrebbe lasciato qualche minuto di tregua. Continuava a non riuscire a togliersi dalla testa il ragazzo che era venuto al bar poco dopo l’alba, quello a cui avevo offerto una bottiglia d’acqua da un litro. Come diamine era possibile che un tizio che non somigliava per niente a Ronnie portasse il suo stesso identico nome? E soprattutto per quale dannata ragione il ricordo del ragazzo che aveva distrutto la sua esistenza, quello per cui ora i sensi di colpa la consumavano giorno dopo giorno, doveva continuare a farle visita in tutte le forme più subdole? Non aveva senso.
    Ronald Craven.
    Ronnie.
    Lei e Ronald Craven.
    Lei e Ronnie.
    Non c’era nulla oltre un ricordo banale e lontano.
    Non c’era nulla oltre quello che non c’è più.
    C’è uno sconosciuto che portava il suo nome, null’altro.
    C’era stato Rick, ma non c’era più.
    C’è uno sconosciuto che ora se n’era andato.
    Se n’era andato, ma non definitivamente, come invece era accaduto a Rick.
    Ronald Craven.
    Un nuovo Ronald Craven.
    No, non poteva chiamarsi Ronald Craven.

    «Kelly James, sei ancora su questo pianeta o stai definitivamente pensando di rimanere sempre su uno a tua scelta dei satelliti di Giove?» sbottò suo zio Colin.
    Kelly si girò di scatto.
    «Scusa.»
    «Più il tempo passa e più mi ricordi tua madre» osservò Colin. «Un tempo credevo fosse un bene, ma adesso non posso far altro che comprendere quanto questo sia un male.»
    «Beh, se somiglio a mia madre non posso far altro che colmare il vuoto che hai provato quando lei ha lasciato Starlit Spring per andarsene insieme al suo nuovo fidanzato.»
    Colin rise.
    «Vuoto?! Ma quale vuoto? Dopo che ha reso la mia infanzia un inferno, almeno a cinquant’anni ha deciso di smetterla di stare tra le scatole!»
    Sembrava che Colin detestasse la propria sorella maggiore, ma Kelly sapeva che non era così. Quella donna bizzarra gli mancava, ed era quella l’unica ragione per cui le aveva offerto un posto di lavoro in quell’orribile bar in cui si fermavano soltanto pensionati usciti per andare a mangiare una brioche alle sette meno un quarto del mattino, cosa che la portava da anni a chiedermi perché diamine si dovessero alzare all’alba, se non dovevano andare a lavorare.
    Era una fortuna per lei essere l’unica nipote di Colin James, di fatto la sua unica parente ancora vivente, a parte sua sorella, la madre di Kelly – sempre se sua madre non era morta negli ultimi mesi, dato che era trascorso parecchio tempo dall’ultima volta in cui si era ricordata di telefonarle. Significava avere un’occupazione. Era uno stronzo, così almeno la pensava Kelly, si comportava da stronzo con tutti, ma non con lei. Quel Ronald Craven che era venuto al bar si sbagliava di grosso: se anche Colin James avesse saputo cosa pensava di lui, non si sarebbe mai e poi mai azzardato a licenziarla.
    «Oggi mi sembra che tu abbia la testa tra le nuvole ancora più del solito» riprese Colin. «Mi vuoi spiegare che cos’è successo prima che io arrivassi?»
    «Se lo volevi sapere, perché non sei venuto tu ad aprire il bar?» replicò lei.
    «Ti conosco, Kelly» insisté lui, ignorando quel commento. «Deve essere capitato qualcosa di davvero piacevole... o spiacevole.»
    «Beh, sì» ammise Kelly. «È davvero capitato qualcosa, solo che non so ancora se sia piacevole oppure spiacevole.»
    «Ecco, sono proprio le parole che mi sarei aspettato di sentire in bocca a tua madre! Ma dato che, seppure non somiglio per niente a tua madre, ho la sua stessa curiosità, ora mi fai il favore di raccontarmi di che cosa si tratta.»
    Kelly sbuffò.
    «Ma i clienti...»
    Colin la interruppe: «I clienti stanno bevendo i loro caffè, mangiando le loro paste o sfogliando le pagine dello sport sui quotidiani. Non mi sembra che abbiano urgentemente bisogno di te.»
    «No, hai ragione» fu costretta a concordare Kelly.
    «Perfetto.»
    Cercò di non pensare a Ronnie... al vero Ronnie, non allo sconosciuto che era venuto al bar al solo scopo di utilizzare la toilette quella mattina. L’impresa era già ardua di solito, figurarsi in un momento come quello.
    «Allora, Kelly?»
    «Niente di che» rispose, cercando di non far capire quanto l’avesse colpita quel caso di omonimia. «È venuto al bar un cliente...»
    Suo zio la interruppe ancora una volta: «Un pensionato?»
    «Oh, no, uno giovane» rispose Kelly. «Avrà avuto venticinque anni a dir molto.»
    Vide Colin sorridere.
    «Perfetto.»
    «Perfetto? Che cosa?»
    «Il fatto che sia venuto al bar un ragazzo giovane e che tu te ne sia ricordata. Non voglio una nipote zitella, quindi affrettati a ritrovarlo.»
    Kelly spalancò gli occhi.
    «Ho menzionato una persona che ho visto una sola volta nella mia vita e per non più di cinque minuti, e tu pensi che...? Stammi a sentire: nella nostra famiglia ce n’è una che si comporta così, e di sicuro non sono io.»
    «Ma sei sua figlia» ribatté Colin. «In qualcosa le somiglierai pure, no?»
    «Nell’avere la testa tra le nuvole forse. Non nel mettermi insieme al primo che passa per la strada. E poi quel tipo ha un nome che non mi piace.»
    «Un nome che non ti piace? Kelly, scusa se te lo dico, ma questa è la peggior cazzata che io abbia mai sentito. E sentiamo, come si chiamerebbe?»
    Kelly scosse la testa.
    «Non hai capito.»
    «Impossibile, io capisco tutto al volo.»
    “Dice tanto di mia madre, ma a quanto pare la famiglia James è piena di gente tarata” si disse Kelly. “Forse lo sono io stessa.”
    «Ha lo stesso nome di una persona che voglio dimenticare» rivelò a suo zio, «Lo stesso nome e lo stesso cognome.»
    «Non è grave, secondo me» obiettò Colin.
    «Invece lo è, fidati. Lo è eccome.»
    Fortunatamente in quel momento la porta d’ingresso si spalancò. Entrò uno dei clienti abituali del bar, venuto a bere il solito caffè delle nove e trenta del mattino.
    Colin, da perfetto titolare tuttofare, corse ad accontentarlo, mentre Kelly lanciava un’occhiata alla porta della toilette, come a sperare che si aprisse e ne uscisse magicamente il ragazzo dai capelli biondi che si era presentato come Ronald Craven e che non somigliava per nulla a quel Ronnie che aveva rovinato la sua esistenza.
    “Sono proprio pazza” pensò.
    D’altronde non era una novità. Doveva esserlo necessariamente, se aveva rischiato di mandare all’aria la sua vita a causa di uno come Ronnie.
    Se solo fosse stata davvero come sia madre! Lei terminava una relazione ed era come se questa non fosse mai esistita, si ritrovava ad essere una nuova Ursula James e per lei la vita ricominciava da zero, come se nulla fosse accaduto.
    «Kelly?»
    La voce di Colin la fece sobbalzare.
    Si girò di scatto.
    «Sì?»
    «Non dirmi che stai ancora pensando agli affaracci tuoi.»
    «Oh, no» replicò Kelly. «È che per un attimo stavo pensando a mia madre.»
    «Perfetto» rispose. Pronunciava quel termine in continuazione, in qualunque discorso, anche quando non vi era alcuna ragione per farlo. «Tua madre, però, in questo momento difficilmente sta pensando a te, non credi? Quindi che ne dici, per par condicio, di evitare di perderti in questo genere di riflessioni inconcludenti?»
    Kelly sospirò.
    «Hai ragione tu. È la soluzione migliore.»
    «Perfetto» concluse Colin. «Io ho sempre ragione, del resto.»
    Kelly si sforzò di non scoppiare a ridere e si rese conto che era meno complicato del previsto. Stava ancora pensando allo sconosciuto che si era presentato come Ronnie Craven, si stava chiedendo dove si trovasse e se si sarebbero mai rivisti.
     
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