[Parole in guerra] - Nadia Gilberti

Pippo

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    Pippo


    Vicino al fiume, ad un Km dal mio paese c’era la linea di demarcazione (il fronte) che impediva agli americani di entrare perché i tedeschi resistevano ancora e si organizzavano alla meglio. Dentro casa, i crucchi (così li chiamavamo) avevano preso possesso dei nostri letti, dei mobili, delle vettovaglie e noi avevamo trovato rifugio presso i nostri vicini. Dormivamo tutti in un’unica stanza; mia madre e noi tre figli, ancora bambini. Mio padre era a combattere come la maggior parte degli uomini. I miei fratelli dormivano assieme in un letto singolo e Carlo il più piccolo si sistemava in fondo al letto per avere più posto, ritrovandosi spesso i piedi di Giovanni, in faccia.
    Io ero fortunata perché dormivo con mia madre in un letto ad una piazza e mezzo. Prima di addormentarci si parlava un po’e la mamma mi stringeva a se per scaldarmi. Non dimenticherò mai le sue tenerezze perché a quel tempo non era facile riceverne, non c’era la mentalità. Mi accarezzava i capelli, mi diceva di non aver paura che tutto sarebbe finito presto.
    Mia madre, inoltre mi portava con sé al negozio per comprare pasta, riso, farina, con la tessera annonaria. Ogni volta che si acquistava qualcosa, il negoziante staccava un bollino dalla tessera e se i bollini finivano prima del mese, non si poteva comprare più nulla, se non al mercato nero, ad un prezzo esorbitante. Era tutto razionato, lo stomaco si accartocciava per chiedere cibo, la pancia brontolava per le brodaglie che riceveva. Si andava avanti perché nell’aria c’era quel vago sentore di liberazione.
    Arrivavano notizie frammentarie, sempre più distorte per il passaggio di bocca in bocca che subivano:
    “ Gli americani stanno per arrivare, dicono che sono di là dal fiume.”
    E c’era chi rispondeva:
    “ Che cosa aspettano? Noi non viviamo più, con i tedeschi in casa, arrabbiati come non mai.”
    I tedeschi oltre che arrabbiati, sembravano un po’ persi. Cercavano di non far trapelare il disagio, la paura, il controllo che andava scemando ad ogni ora.
    Un giorno notai in cortile, un frenetico andirivieni. Hans, il giovane militare tedesco, che mi sembrava più simpatico, anche perché era il più bello, stava raccattando del materiale: vecchi tubi di “stufa a legna”, ferri arrugginiti, bulloni, ruote di carretti, ecc.
    I più anziani (forse ai miei occhi di bambina sembravano anziani) iniziarono ad assemblare tutto quel ciarpame, con puntigliosa abnegazione, fino ad ottenere uno strano oggetto postmoderno che tinteggiarono tutto di grigio scuro.
    Avevo assistito con curiosità, dalla finestra, a questo specie di gioco, eseguito con diligenza dai militari nostri nemici, pur restando all’erta perché non ci si poteva fidare e farsi cogliere a guardare poteva essere pericoloso.
    L’oggetto fu nascosto nel capanno vicino a casa nostra, forse per far asciugare la vernice.
    Ero curiosa, ma la paura era più grande e rimasi con il dubbio a che cosa servisse, fino il giorno successivo, quando Hans portò alla luce quel curioso aggeggio.
    Con grande stupore vidi trascinare fino alle vecchie mura del paese una specie di cannone, davvero indecifrabile. Un insieme di misteriosa alchimia per ingannare il nemico. Fu collocato con circospezione, dietro un muretto basso, con la bocca rivolta alla linea di demarcazione.
    Se ne stava li, triste e solo, da lontano poteva sembrare un cannone, ma se ci si avvicinava appariva più un’arma medioevale, davvero molto rudimentale.
    Noi bambini avremmo voluto giocarci con quell’arma finta. Ci sembrava un cavallo, munito di finimenti e uscito senza testa da un rodeo, ma naturalmente ne rimanemmo a necessaria distanza.

    Il giorno dopo un aereo da ricognizione, passò più volte sopra il paese.
    Puntava alto verso le nuvole, poi sembrava cadere a picco su qualche tetto e con un rombo secco se ne andava per poi ritornare dopo alcuni minuti.
    - State in casa!………..Ci ordinò la mamma…….- Passa Pippo!... E’ così che chiamavamo quel piccolo aereo americano, che controllava la situazione, ogni giorno.


    Il suo compito era solo quello di osservare la situazione e quel giorno ci parve che osservasse più del solito. Passava e ripassava, sia abbassava lentamente per poi prendere quota e filare via a gran velocità.
    Si fece sera e assieme ai nostri vicini, mentre mangiavamo la solita cena frugale, fatta di patate, cavolo e latte per noi bambini, sentimmo un sibilo, seguito da un chiarore che ci fece capire che gli americani avevano lanciato un razzo bengala che stava illuminando tutta l’area del nostro quartiere. Ci guardammo sorpresi e non facemmo in tempo ad affacciarci alla finestra, quando un rumore insolito ci fece trasalire. Nessuno aveva il coraggio di guardare, ma sentimmo subito i crucchi parlare concitatamente e scendere le scale in gran fretta. Qualcuno di noi riuscì a vedere i soldati in strada che guardinghi stavano illuminando il luogo da dove era stato prodotto il rumore.
    Un’incredulità generale s’impossessò di tutti gli accorsi. Proprio all’estremità dell’imboccatura del finto cannone c’era un secchio senza fondo, perfettamente infilato.
    Hans si era avvicinato più degli altri e incredulo guardava quella situazione comica. Il comandante, gli diede un ordine perentorio e il giovane si precipitò a togliere il secchio per poi mostrarlo agli altri compatrioti, i quali si ritirarono in fretta, senza commentare.
    Ce ne stavamo tutti nascosti in casa, ma ben presto si venne a sapere dell’accaduto.
    Il giorno dopo in paese, non si parlava d’altro e se pur cautamente, tutti ridevano per la figuraccia fatta dai tedeschi, che avevano sottovalutato l’acume del nemico.
    Il finto cannone avrebbe dovuto spaventare i liberatori, ma il messaggio ricevuto fu chiaro.

    Purtroppo l’ilarità non continuò a lungo. Nei giorni successivi vedemmo indecifrabili manovre.
    Le strade si riempirono di militari tedeschi, anche quelli che avevano preso possesso del nostro appartamento si spostarono verso la porta d’ingresso del paese, dove c’era l’antica torre medioevale, le cui cantine servivano da rifugio durante i bombardamenti.
    Tutte le volte che si sentiva la sirena suonare, si scendeva nei rifugi ricavati negli scantinati delle case e con il cuore che martellava per la paura, ci si stringeva tutti assieme, aspettando la fine dello scontro. Le donne pregavano o consolavano i bambini piccoli che piangevano perché si rendevano conto di essere in un posto inospitale. I bambini più grandi giocavano con le poche cose a disposizione: legnetti, biglie, piccoli pastelli e qualche vecchia carta da gioco che i grandi non utilizzavano più.
    Quella sera suonò l’allarme e ci fu il solito fuggi, fuggi. Noi ci precipitammo nella cantina, ma questa volta non si trattava dei consueti scontri a fuoco con mitragliatrici e cannoni.
    I bombardamenti aerei iniziarono subito e il frastuono infernale ci accompagnò per l’intera notte tra le urla e i pianti di tutti noi assiepati sotto gli architravi, dove ci sembrava meno pericoloso restare. I calcinacci ci cadevano in testa e tutto tremava. Pippo era tornato, ma questa volta non era solo. I liberatori avevano deciso di avanzare e i tedeschi prima di andarsene avevano minato gran parte degli edifici del nostro paese.
    Dopo diverse ore calò il silenzio, nessuno aveva il coraggio di uscire e solo alle prime luci dell’alba s’iniziarono a sentire per le strade, diverse voci concitate. Alcuni bambini esausti, si erano addormentati nonostante il caos che si era creato all’interno della cantina e poco dopo la sirena era tornata a suonare per annunciare la fine delle ostilità.
    Il sole si stava affacciando beffardamente anche quella mattina: tingeva di giallo i muri, illuminava, spogliando senza pudore le case sventrate, i poveri mobili sbilenchi sui pavimenti pericolanti, s’insinuava tra le coperte dei letti disfatti, esponeva al pubblico ludibrio gli effetti personali.
    I volti delle persone erano sconcertati, gli occhi arrossati dal pianto, dalla notte insonne, dalla polvere che continuava a salire dai tetti squarciati, dai calcinacci degli intonaci sgretolati, dal fumo che saliva dai fuochi che inghiottivano le vecchie travi delle case.
    Poi volgendo lo sguardo ad est, ci accorgemmo che la torre non si stagliava più contro il sole.
    Ecco perché tanta luce rischiarava il giorno, non c’erano più i muri che avevano resistito per secoli, in una notte si erano accasciati, annientati.
    Mio fratello grande, Giovanni, puntando un dito verso quel vuoto lo sentii urlare:
    - La torre è crollata, la gente è rimasta sotto il rifugio...! E tutti a correre da quella parte.
    Effettivamente al posto della torre, c’erano le vecchie pietre ammonticchiate ed era chiaro che per le persone rimaste sotto, ci fosse ben poco da fare. La torre era stata minata dai tedeschi, quando avevano capito che il fuoco americano avrebbe decretato la fine della loro occupazione e sotto di essa vi erano seppellite cinquantadue persone. Una parte del paese era rimasta intatta, ma l’altra era rasa al suolo. Nel paese si contarono più di cinquecento morti, quasi tutti rimasti sotto i crolli degli edifici minati e bombardati. Nei giorni successivi si videro i superstiti aggirarsi come zombi alla ricerca di parenti e amici in un’atmosfera davvero surreale.
    Ora ripensando a quei giorni mi chiedo se davvero ho vissuto quell’incubo e quanto è costato il diritto alla libertà. Non se ne parla abbastanza perché è difficile raccontare ciò che si è provato.
    La nostra psiche per proteggerci tenta di rimuovere tutto, ma basta una parolina come “Pippo” per far riaffiorare dal buio quei flash che si pensava seppelliti assieme ai morti.




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    Edited by Axum - 31/3/2011, 16:10
     
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