DI AMORE, VAMPIRI ED ALAMBICCHI ROTTI.

Racconto di Bibby111

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  1. ELEMIAH
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    Opera selezionata dal forum "Scrittori della Notte"

    “Lei gli domandò in quei giorni se era vero, come dicevano le canzoni, che l'amore poteva tutto.
    – È vero – le rispose lui – ma farai bene a non crederci.
    Gli disse che l'amore era un sentimento contro natura, che dannava due sconosciuti a una dipendenza meschina e insalubre, tanto più effimera – quanto più intensa.”
    Dell’amore e di altri demoni ¬- Gabriel Garcia Marquez





    Martìn era ancora un bambino la prima volta che aveva incrociato i suoi occhi.
    Non poteva avere più di nove o dieci anni eppure, a distanza di tanto tempo, percepiva nitidamente l’impatto di quello sguardo. Come se Youssou fosse ancora davanti a lui.

    Guadalupa si risvegliava immemore dopo la stagione degli uragani, che quell’autunno del 1794 erano stati molti e tragicamente rovinosi; la devastazione era passata e tutti quietavano i loro animi, vogliosi di dimenticare i morti per strada, i campi distrutti, le case in rovina.
    Malgrado tutto, gli isolani ricominciavano ad essere felici, di quella contentezza strenua che segue la disperazione. Toccato il fondo, si può solo risalire.
    Soltanto Martìn, agli albori della primavera dei suoi sedici anni, sembrava indifferente ad ogni forma di allegria. Nemmeno un spettatore attento, osservando minuziosamente il giovinetto nel corso della sua giornata, avrebbe potuto indovinare l’euforia dell’animo che invece lo pervadeva.
    Suo padre, il marchese François Gaillard, non voleva a suo figlio il bene che il proprio genitore aveva voluto a lui. Non che fosse malvagio: semplicemente, prima d’esser padre aveva avuto troppi affetti e ormai per il figliolo non erano rimasti altri sentimenti al di fuori di rabbia e sprezzante compassione. Il carattere di Martìn, poi, non incoraggiava di certo le inclinazioni affettuose.
    Egli, sia per l’affetto mai ricevuto, sia per l’indole recalcitrante che lo caratterizzava, sembrava rintanato nel suo mondo di mestizia e sotterfugio; i suoi occhi erano torbidi di cattivi pensieri e la carnagione malsana di forzata reclusione. Viveva ogni giorno con inerte angoscia, osservando apatico dal di fuori le vicende degli altri, senza altra frequentazione che i libri della sua cameretta. Solo gli animi buoni hanno degli amici, e l’animo suo non lo era.
    Ma come ben si sa, quel che il dì è d’un modo, la notte lo tramuta. E così anche la sua esistenza, di giorno annegata tra insipidi languori, la notte si faceva ardente e tumultuosa.
    Ogni sera, perfino le volte che il tuono imperversava terrorizzando gli isolani, la sua finestra rimaneva socchiusa, la tenda ricamata scostata leggermente, in un tacito e ricorrente invito.
    Quella notte, poi, era la più attesa della stagione, giacché non c’è gioia più completa di ritrovare dopo lunghe assenze la persona amata.
    Lo scalpiccio appena percettibile sul prato sottostante lo fece trasalire: da tempo sostava supino sul letto, attendendo, teso e smanioso, di udire quel primo rumore.
    Ben presto, la figura grande e nera di Youssou si rivelò al di sopra del davanzale, fiera e leonina come una statua di bronzo, e lo raggiunse in due passi, stringendolo tra le braccia muscolose.
    Secondo la legge, Youssou era suo schiavo, ma in quei momenti, quando strette ferree e parole deboli stordivano la sua mente, Martìn non avrebbe esitato ad affermare che era l’uomo ad essere il padrone.
    “Mi sei mancato.” Disse semplicemente il negro, accomodandosi goffamente tra le coltri ricamate del letto in cedro. Abituato alla pratica comodità delle amache, non aveva dimestichezza con quei vezzi occidentali.
    Martìn non rispose, perché non era giusto condensare in qualche parola l’attesa e il tormento e l’ansia che avevano riempito dispotici le sue ultime giornate, e perché non era necessario, in fondo. La bramosia di quel contatto palpitava nell’aria e le parole sarebbero state solo superflue.
    “Vieni qui” continuò Youssou, nel suo francese un po’ esitante, tirandolo al suo fianco e piantando gli occhi sul suo volto con prepotenza, avido della sua immagine turbata. “Hai tolto le mie collane.”
    Il fanciullo stette un po’ in silenzio, meditando una risposta adeguata: non voleva raccontargli di essersene sbarazzato in preda ad una rabbia cieca, un giorno che il tifone tempestava, deridendo coi propri ululati la sua costernazione.
    “Mio padre le ha buttate.” Rispose, glaciale; poi tese un dito bianco ad accarezzare le labbra dell’amante con fare bambinesco, cercando di distrarlo alle sue parole.
    Youssou sapeva sempre riconoscere una menzogna.
    “Menti” asserì infatti, portando la sua mano a sciogliere il nodo della veste dell’altro, rivelando il petto glabro e senza ornamenti. “ Devi portarle, Martìn. Ti proteggono dagli spiriti maligni, dagli dei Shapanan e Oshoumarè, che portano le malattie, il vaiolo e la rabbia. Te l’ho spiegato molte volte.”
    “Anche tu sei uno spirito maligno, Impundulu. Vampiro.”
    Il nero sorrise, indulgente e un po’ beffardo, sfilandosi una collana di gemme pitturate ed un ciondolo di ossidiana e mettendoglieli al collo.
    “Ora sei al sicuro, Martìn.”
    Allora finalmente Youssou lo baciò sulle labbra, scendendo sul petto lungo un percorso immaginario seguito troppe volte e lo accarezzò con dedizione, come se stesse maneggiando il tesoro più prezioso.
    Il nero, un po’ per gioco un po’ sul serio, si azzardò a denudare Martìn nella sua intimità. Lui si coprì alla meglio con le mani bianche e un lampo di rossore accese le sue guance. Youssou allora afferrò le mani con delicatezza e gliele allontanò dal corpo, sorridendo del viso di fuoco che si ritrovò davanti. Non si erano mai spinti così oltre.
    Gli diede piacere con le sue dita d’ebano, mormorando nenie africane per calmare i mugolii impazziti; vezzeggiò la pelle candida e sorrise di quello spettacolo proibito, finché l’altro non si arrese al piacere.
    Ripresosi da quel languore tutto nuovo, Martìn chinò il capo di lato, ostentando con un sorriso furbesco il collo latteo e immacolato. I segni della volta precedente si erano riassorbiti col tempo e l’attenzione.
    Youssou dovette trattenersi dall’avventarglisi addosso senza nessuna premura: non voleva fare del male al suo padrone.
    Solo un gemito sordo riecheggiò nella camera, quando i denti affondarono con precisione nella carne viva. Il resto, era avvolto dal silenzio.

    Guardandoli dall’esterno, si sarebbe facilmente potuto dubitare della dolce infatuazione che pervadeva i loro animi e che era la vera responsabile di quell’insana unione.
    Martìn ricordava che fin da bambino era stato attratto dall’aura maliarda che l’altro si portava addosso come un vestito, ma probabilmente i loro primi incontri risalivano alle soglie dell’adolescenza, quando aveva appena dodici anni ed il bieco carattere di sempre.
    All’inizio, erano state le informazioni estorte alla badante con i dispetti più crudeli, poi le chiacchierate dei genitori spiate da dietro all’uscio della loro camera - quel nuovo domestico ha qualcosa di inquietante, Francois, non vale il denaro che l’abbiamo pagato - ed infine Martìn sapeva ogni cosa dell’altro, senza mai averlo conosciuto.
    Una torrida notte di fine agosto, Youssou era entrato nella sua camera di soppiatto, spaventandolo a morte e accucciandosi al suo fianco, un sorriso a rivelare la fila dritta e perfetta di denti bianchissimi.
    “Perché ti interesso?” aveva domandato, scrutandolo senza timore.
    Martìn non aveva risposto, ma da quella volta il nero era ritornato ogni notte, mancando l’appuntamento soltanto per il periodo degli uragani.
    “Perché non puoi venire, quando soffia il vento dal mare?” aveva chiesto Martìn in proposito, una sera che il periodo si avvicinava.
    “Ritorno in Africa dalla mia terra, Martìn” aveva risposto l’altro, senza mai più aggiungere una parola a riguardo.
    Nel susseguirsi serrato di quegli incontri notturni, il loro rapporto era mutato prima in silenziosa amicizia, poi in ambiguo affetto ed infine in amore. In apparenza Martìn era rimasto l’algido ragazzino di sempre, ma sotto quella corazza d’indolenza incominciavano a germogliare i sentimenti di un animo appassionato.
    Youssou non aveva mai taciuto all’amico la sua natura. Già qualche sera dopo il loro primo colloquio, forse presentendo i successivi sviluppi che la loro storia avrebbe acquisito, aveva incominciato a raccontare la sua storia di vampiro, chiedendo come ricompensa alle proprie parole qualche stilla del suo sangue.
    Credendo in una burla, Martìn si era stretto nelle spalle e aveva acconsentito e il nero si era messo a narrare del suo popolo, i negri yoruba, il cui capostipite Oduduwa avrebbe formato i primi esseri umani con l’argilla di Ile-Ife, città capitale dell’antico regno.
    Parlò dell’Orisha, la religione, ed enumerò a Martìn uno stuolo di dei di cui l’altro dimenticò presto i nomi. Impressi a fuoco nella sua memoria rimasero soltanto Baiani, divinità della morte, e Oxum, dea dell’amore.
    Gli fece indossare collane e bracciali della sua terra, ammonendolo di non liberarsene mai: ora che era entrato a contatto con un spirito maligno, anche altre minacce sarebbero potute accorrere.
    Infine raccontò dei vampiri, che in Africa erano tanti e di numerose varietà. A quel punto Martìn, che aveva ascoltato i discorsi precedenti con silenziosa attenzione, ebbe voglia di ridere, giacché reputava queste creature invenzione di qualche ottuso favolista dal gusto macabro.
    Youssou percepì la sua incredulità e si indignò; non disse nulla, ma i piccoli alambicchi di vetro che riposavano sulla scrivania dall’ultima lezione del precettore finirono in frantumi con un tintinnio sinistro. Martìn non si azzardò più a dubitare delle sue parole.
    Il vampiro tornò ogni sera, nutrendo con le sue parole la curiosità del giovane e venendo nutrito in cambio dal suo sangue. Una funerea trasposizione di fiaba mediorientale, dove la principessa fuggiva il martirio lasciando che venisse squarciata la propria giugulare.
    Con l’andar del tempo, il marchesino acquisì conoscenza dei Khiduwane, capaci di prosciugare il sangue con uno sguardo, dei Kinoly con occhi rossi e artigli lunghissimi, degli Adze e dei Mutala, torsi di cadavere che trascinano le braccia.
    Infine, al prezzo di lunghe sorsate di latte rosso, conobbe gli Impundulu, i vampiri come Youssou, dall’insaziabile appetito e dalla forma umana.
    “Sei stupido, Youssou” lo aveva schernito Martìn, un sorriso sornione aveva preso possesso del suo volto.“Perché sei arrivato qui a Guadalupa? Avresti potuto uccidere i negrieri e stare col tuo popolo.”
    “Il mio popolo è qui, Martìn, in queste terre dove la gente ha il colore della sabbia e pittura le case dei colori più sgargianti, seppure la vernice le costerà più della baracca stessa. Il mio popolo non ha più patria ed io con lui; neanche i poteri di uno spirito maligno bastano a frenare la dispersione di una razza.”
    “Possiedi dei poteri stregati?” aveva cambiato discorso il fanciullo, vedendo che gli occhi del vampiro si erano fatti torbidi di rancore.
    “Posso diventare spirito, disperdermi nell’aria, e compiere tutte le magie che gli stregoni Yoruba mi hanno insegnato. Non posso morire, è questa la mia più grande forza, la mia più grande dannazione. E la mia preda, colui che mi nutre del suo sangue, sarà anche il mio amante.”
    “Quindi io sono il tuo amante, Youssou?” Aveva domandato, ricevendo in contro un bacio che sapeva di passione e sangue.
    Come risposta era stata più che sufficiente.

    Martìn si strinse di più al corpo del suo amante, che riposava silenzioso al suo fianco. Sapeva che gli occhi del vampiro erano aperti, stava così quieto soltanto per lasciare che lui si addormentasse.
    Sentì un torbido desiderio di infastidirlo, mettendo alla prova la sua devozione come una moglie gelosa.
    “Youssou? Domani, quando tornerai, portami una rosa bianca e le more più buone.” ordinò, spinto più dal capriccio che dal desiderio.
    “Non è periodo per le cose che mi chiedi, Martìn.”
    “Non mi importa, voglio la mia rosa e un cesto di more, altrimenti ti dimenticherai il mio sangue.” rispose l’altro, capriccioso, rigirandosi stizzosamente tra le coltri.
    Poi, come un bambino mosso dal rimorsi della coscienza, si piegò sulle sue labbra ancora imbrattate di sangue, regalando al vampiro un bacio conciliatorio. Con un sospiro lieve, si addormentò.

    La mattina seguente il letto era vuoto e la finestra socchiusa come l’aveva lasciata. Si preparò ad un’altra oziosa giornata, sospirando appena.
    Aveva imparato a vivere i giorni in attesa delle notti, proprio come un vampiro.
    Quella sera aspettò sveglio nel suo letto, come ogni volta, torturando con le mani le collane variopinte e rigirandosi tra le coltri, in preda alla solita impazienza. Tuttavia, Youssou non entrò nella sua stanza. Martìn si addormentò all’alba, vinto dal sonno e dalla scontentezza.
    Il vampiro non tornò né quella notte né quelle dopo ancora, lasciandolo in quello stato di arrabbiatura puerile che consumava l’animo e il corpo. Per consolarsi, il fanciullo meditò le più atroci vendette che gli avrebbe inferto al suo ritorno, ma neanche questi pensieri riuscirono a distoglierlo dal suo malumore: Youssou sembrava essere svanito dalla faccia della terra.
    La mattina di una settimana dopo, decise di avventurarsi fuori dalla sua camera per appropriarsi di qualche informazione. Così, scese nel cortile degli schiavi dove un gruppo di giunoniche negre riposava all’ombra di un tamarindo dal tronco nodoso, le interrogò, ma esse rimasero chiuse in un omertoso silenzio. Come sempre, la servitù difendeva i colleghi davanti ai padroni.
    Proseguendo per i vialetti ghiaiosi della proprietà raggiunse suo padre, che sedeva alla scrivania del suo studio, immerso nei calcoli. Appena esso si accorse della sua presenza, sorrise mellifluo, abbandonando le sue carte e prestandogli attenzione.
    “Padre, sapete dove si trova il negro Youssou?” domandò schietto, col solito tono sprezzante che indispose il suo genitore.
    “Aspettavo questa tua domanda, figliolo.” rispose il marchese François, e all’espressione confusa dell’altro si affrettò a chiarire. “Dei miei fidi amici lo hanno visto entrare alla tua finestra, la settimana scorsa. Ora, mio caro, non mi importa davvero dei vizi perversi che tu coltivi, ma abbiamo una reputazione. Che si direbbe, sull’isola, se si venisse a sapere che il marchesino Gaillard intrattiene certi rapporti con i suoi dipendenti?”
    “Padre, ditemi dove l’avete portato!” Ingiunse imperioso Martìn, rosso di collera e d’imbarazzo.
    “L’ho mandato via. Avrei dovuto ucciderlo, ma sono un uomo buono e ho deciso di risparmiarlo. In compenso, però, ucciderò te se ti azzardi a rivederlo.”
    Martìn corse via, combattendo con le sue lacrima affinché non traboccassero dagli occhi, e si inoltrò verso le estremità più meridionali della tenuta, dove gli alberi del mogano lasciavano il posto alla palude limacciosa e mefitica.
    Si accovacciò sulla rena fangosa, sogguardando il panorama che gli appariva indistinto a causa delle lacrime, incurante delle zanzare e dell’aria malsana che si respirava.
    Continuò a scrutare l’orizzonte rettilineo e perfetto, indugiando sul mare che si faceva più scuro in lontananza. Se non avesse conosciuto l’impossibilità dell’impresa, Martìn si sarebbe buttato in acqua e avrebbe nuotato in linea retta, sempre avanti fino a toccare terra, per raggiungere Ile-Ife e le altre città Yoruba. L’Africa era là, oltre quel lenzuolo d’interminato oceano.
    “Dove sei, Youssou, dove sei?” Prese a urlare forte, tra i singhiozzi, verso il mare che rispondeva col fragore quieto dei suoi flutti. Irrisorio.
    Perse memoria degli insulti che gridò contro quella distesa azzurra, sicuro nel suo rancore che - dall’altro capo dell’oceano - il vampiro lo avrebbe udito.
    Ritornò a casa che il sole incominciava a nascondersi dietro le fronde alte dei mogani, tremulo di freddo e coi polmoni che dolevano a causa dello sforzo, e, senza dire una parola, si diresse nella sua stanza.
    Sulla sua scrivania, quattro o cinque alambicchi nuovamente in frantumi mandavano in aria riverberi rossastri, riflessi della luce al tramonto. In un angolo, erano posati una rosa bianca ed un cesto di frutti di bosco. Martìn aggrumò con le mani i cocci di vetro e si mise in grembo il canestro di more; ne assaggiò una, sorridendo appena davanti al suo sapore asprigno. La rosa bianca, stava abbandonata sul tavolo in tutta la sua effimera bellezza.
    Martìn non ebbe più dubbi: prima o poi, Youssou sarebbe tornato.
     
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