Scrittori della Notte: liberi di scrivere

Votes taken by charlie

  1. .
    Sinceramente ho fatto un po' fatica a seguire il filo conduttore del monologo, anche se la cosa potrebbe essere voluta, nel senso di un testo un po' vaneggiante, che si potrebbe calare dato il tipo di personaggio.
    Il linguaggio che usi invece mi è piaciuto parecchio.

    Charlie
  2. .
    Grazie a Freyanm e scusa il ritardo...

    Charlie

    E un grazie anche a Xarthin, anche per il suggerimento.
    Ho appena accennato alla questione scuse, perché volevo rimanere sulla questione ancestrale della pancia vuota che è una cattiva consigliere per le genti. Le scuse sono quelle accampate dalle autorità (militari, politiche o religiose che siano) quando devono convogliare il popolino contro qualcuno o qualcosa.

    Charlie.
  3. .
    Accadrà. Dovrà accadere. Non so dove e nemmeno quando ma accadrà. Perché tu sei un angelo, e io solo un povero diavolo con ali posticce, che spaccia saltelli per voli.
    Il destino ci ha messi uno davanti all’altra quella sera. E se io avessi avuto un briciolo di buon senso, sarei scappato a gambe levate e avrei cercato mi mettermi in salvo in qualche modo. E invece no. Invece ho deciso di incrociare le spade con te, con la folle determinazione suicida di un piccolo samurai, che da solo katana in pugno, affronta un esercito.
    Ma d’altra parte ho più di quarant’anni. E di colpi e di trucchi ne ho imparati a sufficienza, nelle innumerevoli battaglie sostenute. Tanto da essere spavaldo e sfrontato persino davanti a bellezze rare, intelligenze superiori e sensibilità profonde. Per cui, sicuro di me come solo i privi di senno sanno essere, ho fissato lo sguardo nei tuoi occhi in segno di sfida. Ma mai e poi mai, avrei potuto immaginare di dover affrontare tutte quelle cose messe assieme.
    Perché tu sei un poker d’assi e io una coppia di tre. Tu sei la filarmonica di Vienna e io uno scalcinato suonatore di organetto. Tu sei una walkiria e io un giullare di corte. Tu sei la perfezione, la meraviglia del creato, come il cielo e il suo firmamento. E io a volte vacillo, temendo di non meritare tanto.
    La mia armatura era ferro temprato, segnato dal tempo e dai colpi presi. Ma ancora poderosa, massiccia e impenetrabile. Tu eri protetta da ali di farfalla, riflessi di sole e da un mantello di fiori. Ed è cosa risaputa, che la spada contro la magia non può nulla.
    E tu prima o poi te ne accorgerai. E va da se, che sarà la mia testa a rotolare ai tuoi piedi.
    Niente araldi ne onori ne gloria, ma solo il tonfo sordo di un corpo che cade a terra.
    Ma fino ad allora combatterò con tutte le mie forze, puntando dritto al tuo cuore. Fendente dopo fendente, facendomi largo attraverso l’impossibile. Nella speranza di poter fingere all’infinito di essere degno di te. E se è vero che la fortuna aiuta gli audaci e che esiste un Dio dei folli, chissà, forse per un attimo di fermerai a guardarmi. Incuriosita da tanta spregiudicatezza e dallo sciocco coraggio, che solo un vero ciarlatano può avere. E in quell’attimo io ti conquisterò.
  4. .
    E' molto che manco dal forum e mi fa piacere vedere tanti nikname nuovi. Grazie a chi si prenderà la briga di leggermi.
    Charlie.




    Il Triste annuncio.

    Sessant'anni sono tanti? A domanda così generica, probabilmente le risposte potrebbero essere più di una. Il tempo è relativo e lo diceva pure Einstein.
    E allora, sessant'anni sono tanti oppure no?
    Per morire, probabilmente no.
    Eppure qualche volta qualcuno ci riusciva, o meglio gli toccava. E quella volta era toccato ed improvvisamente, al povero Giulio. Giulio Torlasco, detto il Tantaminchia.
    Inutile dire che eravamo rimasti tutti scioccati. Dato che il Tantaminchia, dopo una vita di sregolatezze, nella quale nulla si era fatto mancare fuorché il lavoro, inaspettatamente ed inspiegabilmente, ormai da una decina d'anni aveva messo la testa a posto. A cinquant'anni più o meno, dopo più di una trentina dei quali, passati tra un eccesso e l'altro, aveva conosciuto una signora della sua età e si era sposato. Non era certo una bellezza e nemmeno una donna affascinante. Ma una scialba dipendente comunale e per giunta un po' baffuta, se vogliamo entrare nei particolari. Che offriva però: affidabilità, rispettabilità e uno stipendio il ventisette di ogni benedetto mese. Vi pare poco? Al Tantaminchia no. E così aveva preso i suoi quattro stracci, o meglio, le sue quattro ante d'armadio, piene di ogni ben di viveur e si era trasferito. Nell'appartamentino di lei, o meglio trilocale, ma che bastava e avanzava. Dato che a quell'età, nessuno dei due pensava più di avere figli.
    E così il Tantaminchia, che sicuramente in gioventù si era speso un po' troppo in mangiate, bevute e Nigth Club, si era chiamato fuori per tempo. Godendo ancor più di buona salute a sessant'anni, che a quaranta. Senonché, durante una nottata di pesca di frodo, unica attività illecita che si era riservato di praticare anche dopo il matrimonio, era stato sorpreso da un temporale lungo le rive del Terdoppio. E non volendo mollare la lotta con un luccio ormai stremato, aveva infranto la regola numero Uno di ogni pescatore: non maneggiare una canna al carbonio quando piove. A maggior ragione, nei pressi dei tralicci dell'alta tensione. Cosicché, a causa dell'alta conducibilità elettrica che acquista l'aria, quando è attraversata da miliardi ci gocce di pioggia, un arco voltaico da duemila volt, lo aveva attraversato scaricandosi a terra. E come si usa dire in questi casi, il Tantaminchia si riposò.
    Nessun figlio, fratelli o sorelle, ne parenti di sorta. Ed in presenza di una vedova sola ed affranta, noi amici ci eravamo offerti di sostituirla, nell'organizzazione di tutto il cerimoniale funebre. Ed in quel giorno funesto, ci eravamo ritrovati al bar, in riunione plenaria organizzativa. Ma proprio alle prime battute, ci eravamo resi conto di un problema non da poco e di non facile soluzione.
    “E adesso cosa facciamo?” aveva chiesto quasi sgomento, il Fulvio Repossi detto Burghiba, a causa del suo caratteraccio.
    “Già, adesso cosa facciamo?” avevo rimarcato io a tutti i presenti.
    Vivevamo in un piccolo borgo di provincia. Di quelli dove tutti avevano un soprannome. E soprattutto le vecchie generazioni di dinosauri come noi.
    Io ad esempio ero sempre stato il Biondo. Anche se da un po' di anni a questa parte, il mio soprannome si era tramutato in Grigio, seguendo l'andazzo della mia capigliatura.
    E i soprannomi erano dei più disparati. A volte dovuti a tratti fisici, a volte caratteriali. A volte professionali e perfino di famiglia. Tramandati di generazione in generazione.
    Ed ecco infatti riuniti attorno ad un tavolo: il Grigio, Burghiba, il Cina, Ciocafòrt, Pastina e Ciribù.
    Il quale si era portato dietro il soprannome del padre e del nonno prima ancora di lui. Ciribù, figlio di Ciribù, nipote di Ciribù.
    Per inciso, a dover decidere dei funerali di Giulio Torlasco, il Tantaminchia.
    “Dobbiamo farlo scrivere!” aveva esclamato Ciocafòrt.
    “Non possiamo farlo scrivere!” aveva esclamato Pastina.
    “Non possiamo non farlo scrivere!” aveva esclamato il Cina.
    “Un'altro giro di bianco!” avevo esclamato io. Vedendo che così non si andava da nessuna parte.
    Dovevamo decidere cosa far scrivere sui manifesti funebri. E quello stramaledetto Giulio Torlasco, pace all'anima sua, in paese non lo conosceva nessuno. All'infuori della vedova e di noi altri. E nessuno si sarebbe presentato al funerale, a meno di citarlo per soprannome.
    Perché purtroppo per noi, al resto del paese, il trapassato era noto solo così. Ma come fare, a dare il triste annuncio della scomparsa di Tantaminchia?
    Intanto il pomeriggio calava verso la sera. Avevamo stabilito riguardo alla chiesa, all'orario, ai fiori ed alle altre carabattole. Ma il nodo di fondo era ancora da sciogliere.
    E così, con la lingua un po' più sciolta da qualche bicchiere di frizzantino, iniziavamo ad abbozzare improbabili epitaffi.
    “Vedova inconsolabile per la perdita di Tantaminchia?” aveva buttato là il Pastina.
    “I parenti e gli amici tutti, si stringono attorno a Tantaminchia?” aveva provato il Cina.
    “Immenso dolore per la perdita di Tantaminchia?” aveva bofonchiato Ciribù, masticando un tramezzino per assorbire.
    “Non sarà facile dimenticare Tantaminchia?” perché no, avevo provato anch'io.
    Il meritato riposo di Tantaminchia? Il vuoto incolmabile lasciato da Tantaminchia? Nessuno potrà mai sostituire Tantaminchia?
    Ormai la cosa stava degenerando. E ad ogni tentativo, sempre più grottesco, seguiva una fragorosa risata di gruppo. Tanto da non sembrare più nemmeno, l’organizzazione di un funerale.
    Il bar disponeva di una piccola ma efficace cucina. E così, ad ora di cena inoltrata, avevamo iniziato a raccontarci gli aneddoti di vita vissuta accanto al povero Giulio, davanti ad un piatto di risotto, preparato come Dio comandava.
    Come quella volta da ragazzi, durante una serata danzante ad una festa dell'Unità nel milanese. Quando Burghiba aveva attaccato lite con bullo del paese, nonché pugile dilettante. Burghiba era incazzato come un gallo da combattimento. E il bullo non vedeva l'ora di dimostrare ancora una volta ai suoi, che destro al fulmicotone tenesse. E il Tantaminchia, aveva evitato qualche giorno di ospedale al nostro amico, spacciandosi per un manager di città, in cerca di nuovi talenti.
    O quella volta che si era infilato nel letto della moglie del maresciallo dei Carabinieri. Temendo poi la confessione della debolezza della carne di lei e il piombo di lui. Per mesi, ogni volta che lo aveva incrociato per caso, al bar o per strada, gli si andavano incollando gli occhi alla fondina della pistola e mai gli aveva dato le spalle. Che neanche nel duello finale dei film western più cruenti.
    Sicuramente, ad occhi esterni, la nostra riunione sarebbe sembrata quanto meno bislacca e probabilmente lo era. Ma in fondo, non era che il modo migliore se non l'unico, di ricordare un amico come il Tantaminchia.
    Si era fatta l'ora di chiusura. E il barista detto il Baffo, aveva tirato giù la saracinesca e ci aveva raggiunti con in mano le carte da scala quaranta.
    “Un euro a punto?” aveva chiesto facendole girare per vedere chi fosse di mazzo.
    “Facciamo cinquanta centesimi.” avevo ribassato io, che stavo un po' a corto. E Ciribù aveva distribuito il primo giro.
    “Tu al posto nostro, cosa faresti scrivere?” gli aveva chiesto il Cina, tra lo scoramento e la poca speranza.
    “Boh.”
    Il mattino seguente, tutti nel nostro vestito migliore, eravamo davanti alla chiesa, con tanto di vedova lacrimevole sotto braccio al Pastina. Mentre gli addetti delle pompe funebri, a spalla portavano il feretro all'ingresso principale.
    E sul muro accanto, stava affisso più o meno così:
    “Siamo un gruppo di amici nati negli anni '50. Cresciuti tra mazurche e rock and roll. Che ha creduto a tutto: sogni, canzoni, illusioni. Banda di balordi, invecchiati in qualche modo e contro ogni aspettativa. Con un pugno di mosche in mano e tanto da raccontare, diamo oggi il triste l'annuncio, della scomparsa del migliore di noi. Uomo di grandi doti, non a tutti manifeste, che a tante regalò, un momento di felicità.”
    Ma fortunatamente, come recitava una bellissima canzone di Faber: “Una notizia un po' originale, non ha bisogno di alcun giornale, come una freccia dall'arco scocca, vola veloce di bocca in bocca”. Per cui, nonostante l'annuncio fumoso ed uscito per giunta in ritardo, il paese era piccolo a sufficienza perché tutti sapessero.
    Per cui, la piazza era piena. di chi voleva accompagnare e salutare per l'ultima volta, Giulio Torlasco, detto il Tantaminchia.
  5. .
    Forse è colpa della tua pelle, o forse del tuo profumo. E chi lo può mai dire? Fatto sta che ti sto baciando. E le mie mani che ormai ti conoscono a memoria, ti cercano come fossi una sconosciuta, della quale ho fretta di imparare.
    Stiamo facendo l’amore, ma non ricordo di essermi spogliato. E’ come se i vestiti si fossero smaterializzati da soli, consci di essere solo un goffo impiccio tra noi due.
    E neppure ricordo da quanto tempo abbiamo iniziato. Forse dalla prima volta che ci siamo conosciuti e non abbiamo mai smesso. O forse è il tempo che si ferma e lo spazio che svanisce.
    E chi lo può mai dire?
    Ma in questo momento ha poca importanza. Ha veramente tutto poca importanza. E solo quando incrocio distrattamente il tuo sguardo e mi perdo nei tuoi occhi sorridenti, mi ricordo che siamo due persone distinte. Che fanno l’amore da sempre.
    E mi rendo conto che il resto della giornata, che per forza di cose trascorreremo separati, ognuno immerso nei propri perché, non sarà che una breve piccola pausa, nel nostro interminabile fare l’amore.
  6. .
    Mi sono premesso di guardare il tuo spazio, e hai me, ho potuto constatare che sono un po' più vecchio di te.
    Anch'io alla tua età vedevo sempre il bicchiere mezzo vuoto, poi mi sono accorto che del tutto pieno non l'ha nessuno e tutti viaggiavano con questi bicchieri a metà. Per cui ho cominciato a considerarli mezzi pieni.
  7. .
    Mi sedetti a gambe incrociate sul prato di trifoglio e cercai di buttare lo sguardo oltre le colline. Dove nel cielo turchese, due nuvole pigre si muovevano lente.
    Erano i primi di giugno, ma il caldo estivo non aveva ancora preso il posto della primavera.
    Con un movimento automatico, portai una mano al taschino della camicia e mi accorsi che era vuoto. Ricordandomi del regalo che mi ero fatto per il mio trentaduesimo compleanno: smettere di fumare.
    Avevo imparato in seconda superiore. Un po’ perché lo facevano gli altri, un po’ per sentirmi all’altezza e un po’ per la fantastica stupidità intrinseca di quell’età.
    Mi voltai a controllare la mia Citroen 2 Cavalli degli anni settanta come me, parcheggiata a bordo strada ai margini del prato, colto dal dubbio di non aver tirato il freno a mano. La 2 Cavalli c’era e mi bastò come risposta.
    Erano le prime ore del pomeriggio e le colline che sovrastavano Rivanazzano, a quell’ora erano sempre deserte. A parte qualche lepre, un po’ di grilli e qualche sciame di ciclisti. Che sfrecciavano con le loro maglie colorate e le loro biciclette luccicanti.
    Le cime degli alberi sembravano dipinte nell’aria immobile e io non avevo nessuna fretta di muovermi di lì. Tanto più, che per qualche giorno non avrei dovuto lavorare e potevo approfittarne per rilassarmi.
    Avevo appena finito come barista alla Tierra del Sol, la birreria del mio amico Aldo ed ero in attesa che riaprisse la piscina Bluacqua, dove lavoravo d’estate come bagnino.
    La birreria di Aldo era un locale al chiuso e d’estate lavorava molto meno. Ed io come i clienti di Aldo, d’estate preferivo stare all’aria aperta.
    Tutto tranquillo, tutto liscio, tutto semplice. Eppure qualcosa non andava, anche se non avevo bene idea di che cosa fosse.
    Allungai le gambe e frugai nelle tasche dei jeans: avevo finito anche le mentine. Pazienza.
    A dire il vero non è che avessi qualcosa in particolare di cui dovermi preoccupare. Era più che altro una sensazione, che da un po’ di tempo mi frullava per la testa.
    Forse avrei dovuto chiedere consiglio ad Aldo. Lui sapeva sempre tutto ed aveva sempre in tasca la verità. Ma Aldo in fondo non era poi così affidabile.
    O forse sarei dovuto andare per un po’ al Bar Ganimede. E sedermi ad uno dei tavolini esterni con il Gigi Pomelli e provare a guardare per un po’ il mondo con i suoi occhi. Dato che il Gigi Pomelli, bevitore incallito e fumatore accanito, con i suoi sessant’anni mal portati, era comunque un perdente sempre di buon umore.
    Una cornacchia gracchiò dai rami d’un castagno, mentre alcune sue simili beccavano a pochi passi da me.
    Mi passai una mano tra i capelli. Li avevo sempre portati lunghi fin da ragazzo. Avevamo iniziato a farli crescere un po’ tutti nella nostra compagnia. Compatibilmente con lo stile personale e la tolleranza dei genitori. Quando a cavallo di Vespe truccate, Ciao e vecchi Garelli, scorazzavamo per la Lomellina, sognando strade sconfinate di una California che esisteva solo nella nostra fantasia.
    Solo io conservavo i capelli lunghi. Gli altri ragazzi di allora avevano scelto pettinature più consone ai loro lavori, o avevano ceduto alla praticità dei capelli corti.
    La Vespa invece non l’avevo più. A diciotto anni l’avevo dovuta sacrificare per poterci pagare una parte della mia prima macchina, una vecchia Renault 4 dismessa da un muratore.
    Mi guardai le scarpe. Scarpe da tennis di tela leggera, acquistate in una bancarella un paio di anni addietro. Erano sbiadite, sciupate e impolverate. Qualcuno le avrebbe buttate da un pezzo e qualcun altro non le avrebbe neppure comprate. Ma a me andavano benissimo così.
    Le scarpe da tennis erano un simbolo della mia generazione. Da ragazzi ce ne eravamo innamorati subito. Ma una volta raggiunta l’età adulta, per alcuni erano diventate le scarpe del tempo libero e per altri solo un vago ricordo. Qualcuno addirittura le considerava uno di quegli oggetti che giunti ad una certa età, andavano per forza abbandonati. Come il ciuccio, il triciclo e il calciobalilla.
    Ma per me era diverso. Dividendomi tra una birreria e una piscina, non avevo di questi problemi.
    Della mia classe delle superiori, solo un ragazzo lavorava come geometra. Per il resto, a parte un architetto e una laureata in lettere, la Quinta Effe geometri aveva sfornato commesse, benzinai, idraulici, trattoristi, macellai, standiste e disoccupati.
    Successivamente, chi aveva avuto voglia e fortuna, aveva fatto il salto di qualità. Chi aveva rilevato un bar, chi si era messo in proprio come artigiano, chi aveva vinto un concorso alle Poste, chi aveva sposato il figlio di un industriale.
    A me non era ancora capitata nessuna occasione. Per cui ero rimasto mezzo cameriere e mezzo bagnino. Come una sorta di versione sfigata di animale mitologico. Tipo il minotauro o il centauro, ma di serie B.
    Ma i soldi non avevano mai fatto per me, ne ero mai stato avido. Avevo sempre pensato che il lavoro dovesse essere un qualcosa, che occupando il minor tempo possibile, riempisse il portafoglio quel tanto che bastava.
    “Hei, scusa!” Mi sentii chiamare da un tizio appollaiato su una Ducati rossa fiammante, fermo a bordo strada accanto alla mia auto. “Per Salice Terme?”
    “Segui la strada, non puoi sbagliare neanche se vuoi.”
    Il tizio ringraziò con un cenno della mano guantata e partì sgasando.
    Non puoi sbagliare neanche se vuoi, che bello se fosse sempre così.
    Mi sdraiai all’indietro con le mani sotto la testa e guardai l’azzurro.
    Rivanazzano. Tutte le volte che ci passavo non potevo non pensare alla Trattoria del Colle, alle mangiate e alle sbronze storiche che si erano celebrate la dentro. Con Giangiacomo, il Torta, Josga, Mauro, Lucky, il Piergiorgio Farina, il Gianni Bozzi, Andy, Enrico, il Joe, il Favola, il Litro, il Filo, il Roccia, Ernesto e tutti gli altri.
    Voltai la testa al rumore di una bicicletta solitaria. E vidi una mamma in tuta da ginnastica, che in sella ad una mountain-bike, trainava una sorta di passeggino-sidecar con dentro un bimbo. Decisamente qualcosa non andava.
    Sembrava ieri che si era congedato il Gastaldi. Era arrivato in treno da Falconara alle due del pomeriggio e siccome i suoi genitori avevano già una certa età, avevano colto di buon grado che andassimo noi amici a prenderlo in Stazione Centrale a Milano.
    Così eravamo partiti io, Luky e il Gianni Bozzi, con la Fiat Uno mille del Luky.
    Decisi a festeggiarlo sul posto, attendemmo sul binario quattro l’interregionale da Bologna, con in mano le lattine di birra. E alle sedici e trenta, due agenti della Polfer, gentilmente ma con manganello alla mano, ci indicarono l’uscita del bar della stazione.
    Già mezzi ubriachi, in terza a quaranta all’ora, arrivammo a Borgasco alle sette di sera. E c’era già un tavolo prenotato per cena. Ventidue persone alla Trattoria del Colle.
    Non erano passati molti anni, eppure il mondo era già cambiato sette volte. E altrettante volte qualcuno aveva tentato di cambiare anche me.
    Chiara mi voleva iscritto alla sua stessa università. Martina mi voleva operaio nell’officina di suo padre. Stefania mi voleva sposare. Alessandra si voleva solo divertire. Debora non lo sapeva bene neanche lei e Giulia non sopportava più il modo in cui mi ponevo con il resto del mondo.
    Una coccinella si era posata sui miei pantaloni. Si diceva portassero fortuna e perciò era l’unico tipo di scarafaggio che nessuno tentava di schiacciare.
    E se avessi verniciato la mia 2 Cavalli come una coccinella? Forse mi avrebbe protetto dagli incidenti. Come quello che si era portato via il povero Emanuele.
    Il cimitero era l’unico luogo in cui mi rendevo conto del trascorrere del tempo.
    Da bambino quando ci andavo con mia nonna, vedevo solo lapidi per me insignificanti, con foto di persone mai conosciute. E aveva voglia lei, a spiegarmi chi fossero stati lo zio Lino e il bisnonno Gianbattista.
    Poi anno dopo anno, m’accorgevo che di facce note nelle fotografie ce n’era sempre di più. Dapprima gente anziana che conoscevo solo di sfuggita, poi qualche amico dei miei nonni, poi il genitore di qualche amico.
    Infine la prima defezione tra coetanei. Dio Santo! Nemmeno noi eravamo immortali!
    Tirai fuori il portafoglio e guardai la foto del mio gatto. Un gran gatto pazzo.
    Lui aveva nove vite e avrebbe potuto sperperarne otto, potendo comunque cavare qualcosa di buono dalla rimanente. Mica male.
    A parte Emanuele però, c’eravamo ancora tutti. Qualcuno si era sposato, qualcuno conviveva, qualcuno era già perfino diventato padre. Mauro si era trasferito ad Ancona, e il Torta lavorava a Milano e tornava a casa solo il fine settimana. Tutto normale.
    Eppure non ero per niente convinto. C’erano ancora troppe cose che non mi tornavano. E se la vita fosse soltanto una storia d’amore? E l’amore un alcolico leggero?
    E se l’istinto fosse l’unica vera manifestazione di intelligenza? E la ragione solo una cintura di castità? E se il denaro fosse solo un unità di misura? E le unità di misura un inutile invenzione?
    Forse non c’era proprio nulla che non andasse. O forse ero io. Forse avrei dovuto già da un pezzo vendere la 2 Cavalli, tagliare i capelli e trovare un posto fisso. Come mi consigliava chi l’aveva già fatto. O forse avrei dovuto scalare il Tibet e interrogare i sacerdoti Zen.
    Guardai l’orologio, si erano fatte le quattro del pomeriggio. Giusto in tempo per riprendere l’auto e tornare a Borgasco. Alle cinque e mezza c’era Italia-Croazia e il Toto mi aspettava al bar del Joe.
    Mi alzai e mi incamminai morbido. Per il resto c’era tempo.
  8. .
    Non me ne vogliate, non è e non vuol essere un manifesto maschilista. Piuttosto, con un pizzico di ironia (sempre ammesso che ci sia riuscito) un "cosa gli uomini pensano".
    Premetto inoltre che c'è qualche parolaccia, perchè vuol essere il linguaggio dell'uomo del popolo (che sicuramente esclama cazzo! Anzichè poffarbacco!), ma è tutta roba che si sente tranquillamente anche in televisione.
    In ultimo mi raccomando chi volesse leggerlo, non prendetemi troppo sul serio. Io non lo faccio mai.

    Charlie



    Di donne e di simili idiozie


    Erano i primi di gennaio. Il capodanno era appena passato e i bambini stavano aspettando la Befana. Fuori faceva un freddo cane. E il gelo notturno aveva ormai preso il posto della nebbia serale. Ma dentro al minuscolo bar di Ettore, faceva fin troppo caldo. Vuoi il calorifero troppo grande per i pochi metri quadri, vuoi il calore degli amici, vuoi i bicchieri di robaccia che giravano.
    “Sai, a vent'anni è quello che vuoi, quello che cerchi, quello che ti aspetti. Ma ora no. Ora è tutto diverso. La poesia l'hai messa in cantina da un pezzo e hai tirato fuori tutta la praticità di cui disponi. E invece a quarant'anni, eccola arrivare. Te la ritrovi davanti e ti accorgi che è come se la stessi aspettando da sempre. Cazzo è arrivata! E ancora, cazzo ma allora esisteva davvero! Ma mi stai ascoltando Geo?”
    Per starci tutti, avevamo unito insieme quattro dei pochi tavolini di cui disponeva il locale. E il nostro vociare, si mescolava a quello degli altri avventori.
    “Cosa? Cioè, si volevo dire. E' solo che mi chiedevo...”
    “Che cosa?”
    “Secondo te, le ragazze vegetariane, possono fare i pompini?”
    “E questo cosa cazzo centra?”
    “Beh, sai, tecnicamente è come succhiare una salsiccia. Non so se...”
    “Vaffanculo Geo!” lo interruppi. “Con te non si può mai fare un discorso serio.”
    “Ma dai Charlie, Cosa vuoi che ti dica? Lo sai cosa diceva Oscar Wild? Che a quarant'anni si scopre cos'è la giovinezza. Peccato che sia tardi.”
    “Rivaffanculo Geo. Preferivo quando dicevi cazzate.”
    “Va bé. ma allora non sei mai contento. E comunque hai capito benissimo. Finalmente dopo tante insipide sciacquette, ti sei portato a letto una topa di classe e che per giunta sembra proprio ti sia affezionata. E a te sembra di aver fatto bingo.”
    “E invece?”
    “E invece credo proprio che tu abbia fatto bingo. E una bella donna e sembra avere pure un cervello. Tienila stretta, da retta a un pirla.”
    “Grazie Geo.”
    “Grazie un cazzo, le mie consulenze non sono gratuite, offrimi una birra.”
    Mi alzai e agitai una mano per aria, in direzione del bancone.
    “Un altro giro per noi due!” dissi alzando la voce, per sovrastare il chiacchierio.
    “Grazie.” disse Geo.
    “Dovere.” risposi io.
    “Però, con il preservativo, è un po' come masticare un chewingum.”
    “La vuoi finire con questa storia?”
    “L'hai detto tu che preferisci quando dico cazzate. E poi è da un po' di tempo che sto pensando di diventare vegetariano.”
    “Io una volta ne ho mangiato uno.” si intromise Ettore, che nel frattempo era arrivato con le birre. “Secondo voi vale come contorno?”
    “No ragazzi, seriamente.” insistette Geo. “Vorrei diventare vegetariano.”
    “E di che ti preoccupi?” dissi io. “Non sei una ragazza e non mi risulta tu faccia pompini.”
    “No. Però ognuno finisce sempre per frequentare i propri simili.”
    “Vorresti dire che anch'io sono pirla?”
    “Si ma adesso non centra. Metti che una sera vado a cena in un ristorante vegetariano e conosco una bella vegetariana. Un conto è rinunciare alla carne, un conto è rinunciare ai pompini.”
    “La vuoi smettere con questi pompini?” urlai esasperato senza rendermene conto.
    “Perché? Te ne ha fatti troppi?”si inserì nuovamente Ettore, che era tornato con un piatto di affettato. Scatenando l'ilarità generale e un brindisi ai pompini di Geo.
    Pensieri confusi, risate chiassose, idee bislacche. Quando ci riunivamo non sapevamo fare di meglio, ma di meglio non chiedevamo.
    “Senti un po'.” dissi io a Ettore. “E a te come va con la tua fidanzata?”
    “Quale fidanzata?” fece lui sulla difensiva come solito.
    “Giulia, la tua fidanzata.” puntualizzò Geo.
    “Vuoi dire Giulia, la mia amica.” proseguì Ettore con il solito teatrino.
    “Mai conosciuto uno più ipocrita di te.” feci io, dando una bella sorsata alla birra. “La infilzi tutte le sere, eppure insisti a dire che è solo un'amica.”
    “Comunque.” disse Geo, che aveva appena posato il suo boccale. “Se ti fa sentire meglio, dicci come vanno le cose con la tua amica.”
    “Siamo buoni amici.”
    “E' un bel pezzo però che siete amici.” rimarcai io.
    “E con ciò?” chiese Ettore. “Io e te è tutta la vita che siamo amici.”
    “Quindi mi stai dicendo che ne fai una tutte le sere anche con Charlie?” domandò Geo.
    “Ti ho già mandato affanculo stasera? Domandai a Geo, mentre Ettore batteva in ritirata dietro al bancone. Simulando un'inesistente chiamata, come faceva sempre quando si sentiva alle corde.
    “Due volte mi pare.”
    “Allora mi sembra che possa bastare.”
    Ci conoscevamo da tanto tempo, forse da troppo. Ma in virtù di ciò, potevamo dirci di tutto e questo era il bello.
    Nel frattempo arrivò Chiara, che pigliato uno sgabello si piazzò tra me e Geo, o meglio in bocca al lupo, come diceva lei.
    “Ciao bambola.” dissi io.
    “Ciao pistola.” rispose lei. Conoscendomi da troppo tempo.
    “Allora adesso tocca a Luciano?” proseguì Chiara, facendo un cenno con la testa all'altra parte della tavolata. Dove sedeva Lucio con la Eli praticamente in braccio.
    Eleonora, la Eli, soprannominata Darlavia, si era aggregata alla compagnia un paio di anni fa. Quando ce l'avevo portata io, in quanto saltata fuori da una convivenza terminata male, che aveva intrapreso un po' avventatamente come diceva lei, dopo la fine del suo secondo matrimonio. Per saltare nel mio letto, che aveva sempre frequentato però solo a titolo di ospite. In quanto io, fortunatamente avevo inquadrato il tipo. Bellissima ed affetta da un desiderio senza fine. Ovvero la classica distruttrice di uomini. Genere di donna, che parafrasando Geo, andava benissimo se capivi subito come prenderla, e cioè per i fianchi.
    E da li in poi, era stato il turno di Amedeo, di Jerry, del Figaro, di Geo, e a quanto pareva, ora di Luciano.
    Ma d'altra parte, come avevamo concluso io e Amedeo dopo una sera di alte discussioni filosofiche e qualche birra, le donne che a quarant'anni sono ancora libere, per lo più, o hanno evidenti difetti fisici, o hanno evidenti difetti comportamentali.
    Le gobbe, le zoppe e le zoccole. Come aveva riassunto Geo, con la sua solita finezza.
    Buckowski scriveva : “Non tutte le donne sono pazze, puttane o drogate, solo le mie.” Ma per fortuna non valeva per tutti. E da quando avevo conosciuto Sara, non valeva più per me.
    “E quella tua amica russa? Che fine a fatto?” Chiesi a Geo, sapendo così di innescare Chiara, che immediatamente gli chiese: “Anche tu ti dai alle badanti?”
    “Non proprio.” rispose lui.
    “Cioè?”
    “Cioè una sera è andato a Milano con quel pirla di Federico e si è portato a casa una sedicente ballerina di ventidue anni e di dubbia moralità” rincarai la dose.
    “Porco!”
    Come pesci d'acquario, ognuno di noi sguazzava nella propria melma, affondato fino alle ginocchia. Eppure gettare la spugna, era un lusso che non si poteva permettere nessuno.
    Chi era sposato e chi non lo era più. Chi aveva una famiglia e chi non l'aveva mai avuta. Chi voleva rifarsi una vita e chi ci stava provando. Tempi strani, ma dei quali ero convinto, avremo avuto nostalgia.
    “Ma dai Chiara!” sbottò Geo. “Pensi proprio che io abbia qualcosa da mostrarle che lei non abbia già visto?”
    “Non credo proprio, da quello che mi ha raccontato la Eli.”
    Risata generale ed ennesimo brindisi. Ogni scusa era buona.
    Accanto a me, Tiziano stava armeggiando con il cellulare sotto il tavolo.
    “Ma non hai ancora capito che è tempo perso?” dissi io.
    “Quale tempo perso?” fece lui.
    “E' una missione impossibile, fattene una ragione.” si intromise Chiara, come sempre calata nella parte di mamma di ciascuno di noi.
    “Ma quale missione?” insistette Tiziano, caparbio come sempre.
    “A parte che nel caso specifico non te la darà mai, Ma ricordati che siamo noi a fare un favore a loro e non il contrario.” rincarò la dose Geo, senza filtri come solo lui sapeva essere.
    “Ma perché non vi fate i cazzi vostri?” concluse acido Tiziano.
    Lui era veramente un caso da manuale di psicologia. Pareva avere una vera e propria vocazione al patimento e alla sofferenza. Quando una ragazza dimostrava dell'interesse nei suoi confronti, sistematicamente la snobbava. Viceversa, non perdeva occasione di gettarsi a capofitto, in corteggiamenti struggenti e senza alcuna speranza. Nei confronti della prima stronza di passaggio, convinta di averla solo lei. E che in virtù di ciò, mai e poi mai gli si sarebbe concessa. E irrimediabilmente era depresso.
    “Un momento.” si inserì Chiara, che mai e poi mai avrebbe lasciato passare impunita un’affermazione del genere. “Come sarebbe a dire che siete voi a farci un favore?”
    “Il grosso della fatica la fa sempre l'uomo.” disse Geo.
    “Ma cosa mi tocca sentire! Non vorrei essere volgare, ma la fatica, caro mio, la si fa un po' ciascuno, a seconda di chi sta sopra!” ribatté Chiara.
    “E sia, ma il detto è: tieni duro. Vorrà pur dire che la fatica è quella maschile, non ti pare? Altrimenti sarebbe stato: tieni umido.” mi intromisi, guadagnandomi un vaffanculo.
    Normale amministrazione, le chiacchiere proseguivano e qualcuno aveva ordinato un altro giro.
    Ettore aveva abbassato la saracinesca a metà, si era fatta l'ora di chiusura e così poteva sedersi con noi e rilassarsi un po', prima di spedirci tutti a nanna.
    “Dobbiamo organizzare una bella cena, per soli uomini.” Se ne uscì a gran voce. “E' un sacco di tempo che non ne facciamo una senza donne tra le palle.”
    “Ma dai, ancora con sta roba squallida?” gli rispose Chiara. “Mi sembra che l'adolescenza l'avete sorpassata da un pezzo!”
    “L'abbiamo anche doppiata, se è solo per questo.” mi inserii io.
    “Ma quale roba squallida?” ribatté Ettore. “Anche voi ogni tanto vi organizzate una cenette per sole donne. E' venuta anche Giulia il mese scorso.”
    “Si ma è diverso. Noi donne chiacchieriamo, ci rilassiamo e ci raccontiamo un po' di cose che è meglio che voi maschietti non sapete.”
    “E noi uomini cosa pensi che facciamo?”
    “I primi venti minuti può darsi, ma dopo l'antipasto siete già ubriachi e sono solo urla belluine e brindisi alla gnocca.”
    “E tu come fai a saperlo, se sono cene di soli uomini?”
    “Vi conosco da abbastanza tempo per sapere che è così.”
    “Arrenditi Ettore, uno a zero per lei.” fece Geo.
    I fiumi scorrono sempre dalla stessa parte, le stagioni si susseguono e le rondini migrano tutti gli anni. E io avevo il sospetto che noi saremmo rimasti sempre dei coglioni.
    Avevamo tutti un sacco di problemi, sangue nelle vene e merda nelle budella. Eppure tutti avevamo un'anima, anche se a volte, la si nascondeva proprio bene.
  9. .
    1

    Borgofiasco se ne stava lì, piantata in mezzo alla Lomellina, umida e nebbiosa zona della bassa Lombardia. In mezzo ai suoi pioppeti, alle sue cascine, alle sue risaie, alla sua nebbia e alle sue zanzare.
    Era un piccolo comune di diecimila anime mal contate, ma a dispetto della dimensione, molto attivo.
    Constava infatti di diversi servizi, come ad esempio l’ASL e la Stazione ferroviaria, appannaggio di non tutte le piccole realtà. Di un sorprendente numero di negozi, attività commerciali delle più variegate, e di un ventaglio quanto mai ampio di associazioni sportive e culturali. Dall’AVIS al motoclub e dalla biblioteca pubblica alla squadra di basket.
    Tutto armamentario però, che non gli impediva di preservare integro il carattere bonario, tipico dei piccoli paesi di provincia.
    E di Borgofiasco io mi occupavo in qualità di cronista, per Corriere della Lomellina.
    Ero una specie di freelance, o così dicevo di me per darmi un po’ di importanza. Dato che in effetti non ero dipendente del giornale, ma lavoravo collaboratore esterno. Ma non avrei esitato un istante a farmi strappare in d’un botto tutti i denti del giudizio per essere assunto.
    Non è che nella mia posizione guadagnassi molto. E men che meno godevo di sicurezze economiche. Cosa che a trentuno anni non era per niente edificante. Ma data la mia laurea in giornalismo, conseguita da poco e molto fuori corso, poteva dirsi comunque un buon inizio.
    Vivevo in una piccolissima frazione, a un chilometro dal paese. In un appartamento mansardato, ricavato al piano superiore della casa parrocchiale di Fra Calmizius. Il Magnifico Rettore del santuario di Panis Angelorum. Praticamente ospite dello stesso, in quanto diretto nipote di suo fratello.
    Era domenica mattina ed erano le otto in punto, quando le poderose campane del santuario mi svegliarono come solito.
    Ormai erano tre anni che abitavo lì, ma non mi ci ero ancora abituato.
    Immaginai il prozio che preparava per la santa messa e mi alzai, con la testa come un pallone. Dato che ero andato a dormire solo tre ore prima.
    Era stata una nottata di bisboccia. Prima alla Dama Cafè di Borgofiasco con gli amici, poi al discobar Baobab Square, sempre di Borgofiasco, con Alessia. E poi al Motel Village, sulla circonvallazione di Borgofiasco, sempre con la stessa.
    E questo era uno dei motivi per cui amavo Borgofiasco. Avevo riso, scherzato, bevuto, ballato e scopato, senza muovermi di lì. Anche perché, la macchina io non l’avevo. E l’unica che avevo a disposizione, era la molto vecchia Fiat Panda di prozio Calmizius, che andava bene si e no per i piccoli spostamenti.
    Un altro dei motivi, era che li ero nato e cresciuto e di Borgofiasco conoscevo tutto. Abitanti, per nome cognome soprannome e ramo famigliare. Vie, viuzze, stradine e vicoli, mattonella per mattonella, buca per buca.
    Alessia era una ragazza che avevo conosciuto da poco, nella palestra che frequentavo con scarsi risultati.
    Aveva ventiquattro anni, sette meno di me e che dimostrava per di più a stento. E la cosa mi aveva un po’ inibito a chiederle di uscire, nonostante fosse molto carina.
    Dava l’idea del classico tipo Biancaneve ed io non avevo mai avuto un cavallo bianco. Ma poi ,avevo scoperto con stupore, che il sesso le piaceva molto.
    Disponevo si, di un’accogliente alcova. Ma il prozio era stato più che chiaro, quando mi aveva dato le chiavi della mansarda parrocchiale.
    “Tieni Raoul, qui sei a casa tua e puoi starci quanto vuoi. Ma ricordati che siamo al santuario di Panis Angelorun e io sono un uomo di Chiesa. E quindi, non azzardarti a portarti in casa una donna prima che io vi abbia sposati, o ti sbatto fuori a calci in culo.”
    Pisciai e tornai a letto. Avevo circa un’ora prima della fine della funzione e quindi del prossimo scampanio.



    2

    “Allora signora si decida, o metto o lascio!” urlai svegliandomi di soprassalto allo scampanio di fine messa. Reduce del mio precedente lavoro di fruttivendolo.
    Tornai in bagno e mi rasai, guardando di tanto in tanto dalla finestra la campagna retrostante il santuario. Con i suoi boschetti di acacie, che si stavano ricoprendo di foglie nuove, di un bellissimo verde chiaro.
    La primavera mi aveva sempre messo di buon umore e unita all’atmosfera serena del Panis Angelorum, aveva un fascino ancora maggiore.
    Dove il mio prozio Fra Calmizius, stimandomi per la mia presunta sensibilità d’animo, poco prima della tesi mi aveva accolto, considerandomi una sorta di pecorella smarrita, della quale si sentiva in dovere di occuparsi.
    Il dopobarba, in pasta bianca all’eucalipto, spandeva il suo aroma di bottega da barbiere nel piccolo bagno, e io mi massaggiai le guance assaporando il momento. Uno dei migliori nella giornata di un uomo. Quando ti capaciti dell’ottima rasatura e della sua liscezza. Accrescendo l’autostima e di conseguenza le aspettative per la giornata che sta per iniziare.
    Interrotto purtroppo dal cellulare.
    “Si?” risposi a Carossa, il capo-redattore o redattore-capo, del Corriere della Lomellina.
    “Stronzini, ma che diavolo ti ha preso?”
    Stronzini, Raoul Stronzini. Nome rampante e cognome da commedia di Serie B anni ’80, per un mix più grottesco che ridicolo.
    D’altra parte, cosa ci potevo fare, c’era chi nasceva con la camicia e chi con un cognome come il mio. E perché proprio a me il cognome? Rimisi la domanda insieme a tutte le altre che avevo in attesa di risposta e proseguii con Carossa.
    “Perché capo?”
    “Perché per scrivere un articolo così devi esserti rincoglionito del tutto!”
    “Perché?” chiesi nuovamente “Sarà pure un articolo leggero, diciamo pure mondano, ma sicuramente è un argomento che desta il suo interesse. Almeno nel lettore medio..”
    “Non dire stronzate Stronzini!” urlò Carossa. “Non è una questione di interesse o meno, non puoi dare così impunemente del cornuto ad un sindaco. E soprattutto al sindaco di Torvo.”
    “Ma è vero. E poi dico, il Corriere della Lomellina, è o no un giornale indipendente? E poi il sindaco di Torvo è una mezza calzetta..”
    “Può anche darsi che lui lo sia, ma suo padre era un boss della Democrazia Cristiana negli anni’60. E lo sai cosa vuol dire? Che se vuole farci il culo ce lo fa. E grazie a te, Stronzini.” concluse. Caricando il mio cognome di rabbia, quasi per attribuirgli tutto il suo significato recondito.
    Boh, probabilmente aveva ragione lui. Ma mettere insieme un articolo interessante dalle mie parti non era certo cosa facile. Dato che per fortuna a Borgofiasco non succedeva mai niente.
    “E lei crede che lo farà?” chiesi timidamente.
    “Lo sta già facendo! Mi ha appena telefonato un certo avvocato Bruciapaglia di Milano, legale del sindaco di Torvo, per preannunciarmi una bella querela per diffamazione e calunnia.”
    “Ha ha ha!” non riuscii a trattenermi.
    “Si può sapere che cosa cazzo hai da ridere?”
    “E’ uno scherzo vero?”
    “Che cosa?”
    “Avanti capo, non vorrà mica dirmi che in giro c’è davvero un tizio che si chiama Bruciapaglia?”
    “Possibile che tu non riesca mai a essere serio una volta nella vita?”
    “Mi scusi.”
    “Mi scusi un cazzo! Metti giù un articolo di secca smentita e viscide scuse che lo pubblichiamo sull’edizione di domani. E forse riusciamo a sfangarla. Maledetto imbecille, tu e quell’altro idiota che ha passato il tuo articolo!”
    “Si capo.” biascicai alla bell’e meglio.
    “E ringrazia il Magnifico Rettore del Santuario di Panis Angelorum, se non ti caccio dal giornale a calci in culo.” click. Riaggancio.
    Immaginai Carossa nel suo studio, camminare avanti e indietro nervoso. Gettando una manciata di dadini di pollo crudo nell’acquario, per nutrire i piranha, cosa che faceva sempre quando era nervoso.
    Ringraziai fra me e me prozio Calmizius e andai a vestirmi.
    Forse avevo esagerato davvero con quell’articolo, o forse non avrei dovuto ridere in faccia a Carossa. O forse avevo esagerato con il moral-up, l’ultimo antidepressivo omeopatico a base di foglie di genziana che stavo provando.
    Infilai i jeans, una camicia bianca e una giacca di velluto beige. Scarpe di tela, sciarpetta di seta e scesi.
    Il mio modo di vestire, a qualcuno appariva troppo ricercato, a qualcuno vintage, a qualcuno retrò e a qualcuno da sfigato.
    Per me era solo il modo alla Stronzini. Che ingentiliva maggiormente la mia faccia innocente, incorniciata da capelli ricci e biondi che portavo un po’ selvatici. Il tutto per un risultato da putto, che comunque avevo avuto modo di constatare che avesse il suo perché, con il sesso debole.
    Scesi le scale ed uscii nel cortile posteriore del santuario. Che fungeva anche da cortile dell’oratorio. E dalla porticina retrostante, entrai in sacrestia.
    Ormai non c’era più nessuno. La messa era già finita da una mezz’ora buona e un silenzio rassicurante riempiva le navate. Attraversai il colonnato di sinistra e raggiunsi l’acquasantiera, vicino ad uno dei portoni di ingresso.
    Bagnai le dita della mano destra e mi feci il segno della croce. Dopodiché, uscii dal portone principale.
    Prozio Calmizius, con ramazza di paglia in mano, stava dando una vigorosa pulita al sagrato.
    Nonostante i suoi settantaquattro anni, non era mai fermo un secondo. E con il suo metro e ottanta di altezza e i suoi quasi cento chili avvolti nel saio marrone, era pressoché imponente.
    Vedendomi uscire mi si avvicinò. E guardando alcuni bambini che giocavano allegri, attorno alla fontana antistante il santuario, mi poggiò una manona nerboruta sulla spalla e mi disse: “Li vedi Raoul, la verità sono loro.”
    Ed io non potei dargli torto.
    Scesi la scalinata, attraversai il piazzale e raggiunsi la rastrelliera per biciclette, all’ombra dei platani che lo incorniciavano.
    Inforcai la mia Leri e incominciai a pedalare, direzione Borgofiasco.
    Era aprile, una mattina di aprile piena di sole. Dei suoi raggi, delle sue rondini, del suo profumo e di tutte le meraviglie e le speranze che solo una rigogliosa primavera sa dare.
    Oltre ai pollini cui ero allergico.
    Soffiai il naso pedalando senza mani. Lungo il chilometro dritto come una schioppettata, che collegava la frazione del Panis Angelorum al paese. E cacciatomi una mano nella tasca della giacca, tirai fuori una compressa di sciuganas, l’ultimo ritrovato in fatto di antistaminici.
    Il mais era appena spuntato e le risaie erano uno specchio d’acqua. Un trattore agricolo stava attraversando un campo alla destra della strada. E io mi sbracciai per salutare l’anziano Carletto Balleri.
    Un ometto margo magro, contadino da sempre, temprato da sole vento e pioggia. E che a detta di tutti produceva il miglior riso della Lomellina, quindi del mondo.
    Oltre che grande amico di prozio Calmizius. Che da tempo immemore, alla processione di ferragosto, trainava con il suo trattore il carro addobbato con le statue e i paramenti sacri, da Borgofiasco al santuario.
    Aveva voglia a lamentarsi Carossa, a Borgofiasco non succedeva mai nulla.
    E tutti i miei articoli erano ciclici e improntati sui piccoli avvenimenti che offriva un paesino di provincia come il mio. Tipo appunto la processione di ferragosto, la commemorazione dei caduti al xxv Aprile, i lavori di asfaltatura delle strade, il cambio di presidenza al circolo Proloco e altra robetta.
    Per cui, se non ci infilavo un po’ di mondanità mescolata ad un po’ di fantasia…
    Accelerai la pedalata, con lo stomaco che gorgogliava e la voglia dei cornetti caldi della signora Lorena, che mi trainavano come una carota con gli asini.
    E al sobbalzare della bicicletta sulle rotaie del passaggio a livello, ringraziai il Culo-stop, il mio fido antidissenterico.
    Si viveva di corsa. Inseguendo amore, soldi, amicizia, felicità, fortuna, salute, fantasie, chimere, ricordi, fantasmi, sogni, miraggi, manie, abitudini, passioni, hobby, sciocchezze, tempo libero, tempo perso, tempo che stringe, tempo che fugge, cose che mancano, cose superflue, cose necessarie e cose di troppo.
    Ma io mi limitavo a pedalare.
    Seduto ad un tavolino davanti all’osteria Leon d’Oro, appena dopo il passaggio a livello all’imbocco del paese, c’era l’Ovidio Balleri. Il fratello di poco più giovane del Carletto.
    Con lo sguardo perso nel vuoto, era già alticcio nonostante fossimo solo a metà mattina e con un bicchiere di frizzantino da quattro soldi davanti.
    Ormai erano anni che era in pensione, ma a differenza del Carletto che non stava mai fermo, passava le sue giornate all’osteria a bere.
    Prozio Calmizius, mi aveva raccontato che da giovane faceva il garzone in una bottega da barbiere. Poi, andato in pensione suo padre dalle Ferrovie dello Stato, lui ne aveva preso il posto.
    “Sei stato fortunato Ovidio, li sei a posto per sempre”. Gli dicevano tutti.
    E così, per quasi quarant’anni, il fortunato Ovidio si era ritrovato ad alzarsi la mattina alle cinque e un quarto. Per prendere il treno locale che lo scarrozzava fino a Milano Centrale. Da li cambiare e prendere il primo treno che passava per la Stazione Nord di Via Moscova e li lavare carrozze dei treni fino a sera. Quando con lo stesso locale, il fortunato Ovidio tornava a Borgofiasco per le otto meno un quarto della sera.
    Risultato: niente donne, niente figli, niente interessi, molti frizzantini e qualche amico beone come lui.
    Per la maggior parte in paese lo guardavano con compassione. Ma d’altra parte, che diavolo altro poteva fare?
    “Tutto bene Ovidio?” lo apostrofai con tono squillante.
    “La solita merda.” fece lui di rimando, accompagnando le parole con un cenno stanco della mano.
    Tirai dritto verso la piazza e ringraziai tra me di non avere un padre pensionato delle FF.SS.
    Imboccai il Corso Garibaldi, la strada principale, e rallentai. Trasformando la mia pedalata in una passeggiata rilassante.
    In fondo, con il mio lavoro e con la mia vita in generale, di fretta era difficile averne.
    I negozi erano tutti chiusi, ma data la bella domenica mattina, sul Corso c’era uno spensierato via vai. Dai bar, alle vetrine dei negozi, alla chiesa e viceversa.
    Raggiunsi il Caffè Garibaldi, che prendeva appunto il nome dal Corso e li pinzai i freni. Appoggiai la bicicletta al paletto del divieto di sosta piantato sul marciapiede e mi sedetti ad uno dei tavolini esterni. Che da pochi giorni tutti i bar avevano rimesso fuori. Molto ansiosi e poco speranzosi, dato il periodo di crisi, di migliorare gli incassi grazie alla bella stagione che si prospettava.
    Ma d’altra parte erano anni grami, ed anche se Borgofiasco poteva dirsi un’isola felice, un po’ di recessione si sentiva anche li.
    Aprii il Corriere della Lomellina e mi immersi nella lettura del mio articolo.
    Forse aveva ragione Carossa, avevo un po’ esagerato. Pazienza, una delle mie specialità era proprio smentire. Tanto che più di una delle liste politiche presentatesi alle scorse elezioni comunali, mi avrebbe voluto con se.
    E quindi, avrei smentito magistralmente anche quella volta.
    “La brugola del tredici!” urlai ridestandomi di soprassalto dai miei pensieri. Reduce del mio passato di aiutante meccanico-ciclista, al sopraggiungere della signora Lorena e del suo: “Cosa ti porto Raoul?”
    “Cappuccino tiepido decaffeinato senza cacao e cornetto integrale con marmellata bio ai frutti di bosco.” risposi d’un fiato. Ancora con il fiatone per lo spavento.
    “Zucchero o dolcificante?”
    “Fruttosio se possibile.”
    La signora Lorena era una gran bella donna. Passava di poco la quarantina, non molto alta, mora, prosperosa e dai lineamenti dolci. La tipica bellezza mediterranea. Ed era corteggiata da una fila di maschi di tutte le età, tra cui il sottoscritto, attratti e dalla sua procacia e dalla sua spontaneità.
    Fila di corteggiatori che lei mandava puntualmente in bianco. Felicemente sposata con il titolare del Bar Garibaldi. Che oltre ad avere il privilegio di beneficiarne come femmina, ne beneficiava anche in merito al fatturato del bar. Che dalla di lei comparsa in avanti, aveva subito una decisa impennata.
    E così non rimaneva che dedicargli qualche sega di tanto in tanto.
    Vedendo arrivare due amici posai il giornale.
    Il sole mi carezzava la faccia. E io presi nota mentalmente, che era ora di rifornirmi di dora-croccant. Uno dei più efficaci oli abbronzanti in commercio, a base di carota bruna delle Ande sud-occidentali.
    L’estate era imminente e io dovevo prepararmi ad hoc.
    “Ciao Raoul.” Mi salutarono Gildo e Ivano, sedendosi al tavolino con me.
    Gildo e Ivano erano due dei miei più vecchi amici, tanto che ormai ero più portato a pensare a loro come a veri e propri parenti.
    Ed infatti, erano anche quelli che più mi erano stati vicini, dopo la misera fine della mia convivenza con Katia. Quando mi ritrovai in mezzo ad una strada e venni raccattato da prozio Calmizius.
    Ricordo ancora poverina, quante calde lacrime di coccodrillo pianse il mattino che mi butto fuori senza un perché. Piombando in una profonda depressione, che non le passò fin verso metà pomeriggio.
    Ma d’altra parte le donne sono animali strani, che noi animali più faciloni, tutt’al più possiamo accettare ma mai fino in fondo comprendere.
    “Ciao ragazzi.” feci io felice di vederli.
    Gildo lavorava da poco più di un anno in un grosso allevamento di pollame, dove si facevano i tre turni. E da allora, contrariamente al suo carattere, era spesso di cattivo umore. A causa del sonno e della sua mansione infame di pulitore di merda di pollo.
    Ivano invece era stato un po’ più fortunato. Dopo qualche anno alla disperata ricerca di un lavoro da rappresentante, durante i quali si era trovato a vendere porta a porta ogni genere di cianfrusaglie, tipo libri, aspirapolveri, detergenti intimi, multiproprietà immobiliari, estintori, articoli paramedicali, eccetera, uno dei suoi curriculum era finito nel posto giusto. Ovvero sulla scrivania del responsabile commerciale di una multinazionale di servizi. Appena sbarcata in Italia ed in forte espansione. Dove anche senza una raccomandazione e nonostante un mediocre colloquio, era stato assunto. Dal suo lungimirante superiore, che comunque ci aveva visto giusto. In quanto Ivano, nonostante fosse sempre stato un po’ impacciato, aveva una volontà di ferro. E infatti, buttatosi in quel lavoro anima e corpo. Aveva ottenuto a distanza di poco tempo, soddisfazione e aumento.
    Totale, il più morbido dei tre ero io.
    “Tutto bene ragazzi?” chiesi.
    “Bene un cazzo!” fece acido Gildo. “Venerdì ho fatto il turno di notte e ho finito alle sei di mattina. E alle nove ho dovuto portare mia nonna al Policlinico per i suoi controlli. Sono tornato sfatto dal sonno e sabato sera non sono nemmeno uscito. Questo cazzo di lavoro mi sta uccidendo.”
    Ero stato al Policlinico il mese scorso, per i miei test allergici. E le presone se ne stavano lì in coda all’accettazione, con il loro bravo biglietto numerato in mano. Con fare sonnolento e annoiato, come tanti bovini in una stalla. Ed al suono elettrico del contanumeri, si destavano e partivano uno alla volta. Come da bambino avevo visto fare in un documentario, ad un gruppo di babbuini in cattività. Durante un esperimento che associava la somministrazione del cibo al suono di un campanello.
    La cosa mi aveva dato ispirazione per un articolo dal titolo: “Strano parallelo uomo/bestia.” sottotitolo: “Anche gli animali hanno un ‘anima o neanche le persone ce l’hanno?”
    Articolo che Carossa prontamente mi aveva bocciato.
    “Non toccare quelle clavette!” urlai riavendomi di soprassalto. Reduce del mio precedente lavoro di artista di strada.
    Alla gomitata di Ivano, che mi stava indicando una ragazza.
    “Mamma mia quanto è figa!” sibilò a bassa voce. Vedendo arrivare la Titti Marozzi, a braccetto con il fidanzato.
    La Cinzia detta Titti, era davvero una gran bella ragazza. E in paese era famosa come solerte praticatrice, di quella funzione che gli antichi chiamavano fellatio ferocius et accanitus. Ma che ad un certo punto della sua vita, si era fidanzata e non ce n'è più stato per nessuno. Con rammarico di molti.
    Ovviamente, il fidanzato non era di Borgofiasco, ma di un paesino del milanese, dove la fama della Titti Marozzi non era mai arrivata.
    Le persone ci passeggiavano davanti allegre nel radioso mezzogiorno. Il sole era alto sul Corso Garibaldi e la filodiffusione del bar, diffondeva a basso volume una vecchia canzone melodica. E noi ce ne stavamo li morbidi, a goderci tutta la dolcezza del far niente.


    3

    Una meno un quarto, salutati gli amici, inforcai di nuovo la Leri e mi diressi verso il pranzo. Ovvero la Trattoria del Fiasco. Dove prozio Calmizius, era invitato fisso tutte le domeniche mezzogiorno. E dove io di conseguenza mi imbucavo.
    Proseguii il Corso, girai giù per la piazzetta Togliatti e parcheggiai di nuovo la Leri. Contro la saracinesca della Farmacia Perini, che ovviamente era ben calata.
    Pagliazzo, il sindaco di Borgofiasco, se ne stava li in doppiopetto scuro, sulla porta della Trattoria a fumare il sigaro, sparando cazzate al cellulare con non so chi, e con la sua solita aria da vincitore stampata in viso.
    “Non ci sono santi. Se vuoi andare sul sicuro, dai retta a me: macchine tedesche, rhum cubano e donne a pagamento. Ha ha ha!”
    “Ciao Stronzini.” fece lui vedendomi arrivare.
    “Ciao Pagliazzo.” feci io.
    “Fra Calmizius è già a tavola con Don Fanfaroni. Ed è giò un pezzo che ti aspettano.” disse, mentre agganciavo il lucchetto alla bicicletta. “Ti conviene sbrigarti. Sai che a quest’ora tuo zio se non mangia diventa nervoso.”
    Stronzini, Pagliazzo, Calmizius, Fanfaroni Borgofiasco, Bruciapaglia. Era mai possibile? A volte avevo l’impressione di vivere sul palcoscenico di un’operetta.
    “Vado vado.” dissi io varcando la soglia della trattoria. “E tu? Hai già pranzato?”
    “No, vi raggiungo immediatamente.”
    Entrai, salutai Gianni il proprietario e mi diressi nella saletta dove sapevo esserci il solito tavolo di prozio Calmizius.
    “Allora Raoul, è possibile che ti si debba sempre aspettare?!” mi apostrofò subito il prozio, già accomodato a tavola, in compagnia di Don Fanfaroni, il prevosto di Borgofiasco.
    “Scusate, sono stato trattenuto.” mentii, sedendomi a mia volta.
    “Chiedo venia, vado un attimo in bagno.” disse alzandosi Don Fanfaroni.
    “Se non ti metti un po’ in carreggiata con gli orari, prima o poi ti prendo a calci in culo.” prontamente mi sibilò sottovoce prozio Calmizius, affamato più che mai.
    “Scusa zio.”
    “Humpf!”
    La saletta era discretamente piena, come solito la domenica. Ed anche le facce erano più o meno le solite della domenica.
    Don Fanfaroni tornò indietro ed anche il sindaco venne ad accomodarsi con noi.
    “Allora Stronzini, quand’è che ci farai leggere un bell’articolo? Magari all’americana. Del tipo: surfista morsicato da uno squalo, o qualcosa di simile?” disse sedendosi. Con quel suo tipico sorriso sornione, da sindaco in campagna elettorale.
    “Quando nel Ticino ci saranno squali mordaci e surfisti idioti.” risposi.
    E prozio Calmizius, prontamente mi elargì un calcione da di sotto il tavolo. Con il suo quarantaquattro pianta larga, che per poco non mi ruppe uno stinco.
    Mascherai da sorriso la smorfia di dolore e Gianni arrivò per le ordinazioni.
    Pranzavo sempre in quella trattoria, con prozio Calmizius la domenica mezzogiorno.
    A volte noi due soli, a volte in compagnia di Don Fanfaroni o di altri amici del prozio. A volte in compagnia di amici miei e a volte perfino in compagnia di avventori casuali.
    Ma quella domenica mezzogiorno, forse per la presenza congiunta di parroco e sindaco, il mio istinto di scadente cronista locale, mi allertava di una esagerata concentrazione di poteri, per quel piccolo tavolo.
    “Antipasto?” fece Gianni. Posando sul tavolo una bottiglia di acqua minerale liscia e una brocca da litro del suo leggendario Bonarda. Di cui aveva ben donde di andare fiero.
    “Solo perché è domenica.” disse Don Fanfaroni. Anch’esso ottima forchetta come prozio Calmizius. Che anche se meno stazzato di fisico, compensava la capienza con una prominente pancia da mangiatore, che tradiva il forte allenamento.
    “Si ma solo un assaggio.” intervenne pronto prozio Calmizius. Con il suo relativo e del tutto personale concetto di assaggio, che Gianni ormai ben conosceva.
    Ed io, senza farmi vedere dal prozio, mascherando il gesto da sbadiglio, infilai in bocca una capsula di bonpast. Il mio collaudato anti-acido.
    Alla TV, posata su di una mensola a muro sopra al banco-frigo dei contorni, un inviato della RAI, nello stato del Michigan, stava intervistando un bambino americano. Diventato famoso per essersi laureato in fisica atomica-nucleare, all’età di soli dieci anni.
    “Guardate.” se ne esordì prozio Calmizius. “Così piccolo e parla già inglese.”
    Ed io prontamente, gli assestai un calcione da di sotto il tavolo. Con il mio quarantuno pianta sottile, che per poco non mi ruppi l’alluce.
    “Bene, a che cosa stai lavorando attualmente Raoul?” chiese Don Fanfaroni, allargandosi il tovagliolo sulle gambe.
    “Mi sto un po’ portando avanti. Sto preparando la traccia per gli articoli sulla commemorazione del XXV Aprile e del I° Maggio. Oltre a quello sulla processione di Santa Bernarda. Che si svolgerà a Torvo la prossima settimana.”
    “Niente di nuovo insomma.” fece Don Fanfaroni
    “La solita routine.” fece il sindaco.
    La figlia di Gianni, bella e solare come un campo di fiori e prosperosa come una frisona olandese, arrivò con i vassoi dell’antipasto. Che Prozio Calmizius guardò con robusto appetito.
    Mentre io con ben altro appetito, ammiravo le di lei curve.
    “E’ indubbiamente un mestiere interessante e pieno di soddisfazioni il tuo.” proseguì Don Fanfaroni. “Ma così non diventa un po’ noioso?”
    “Così come?” chiesi io. Mentre gli uomini di chiesa si riempivano abbondantemente i piatti. Ed il sindaco già masticava.
    “Così come viene svolto in un piccolo paese.” intervenne il sindaco. “Dove non succede mai nulla e ti ritrovi sempre a dover riscrivere le stesse cose.”
    “Ok, dove cazzo volete arrivare?” avrei chiesto se avessi avuto del fegato. Ma io ero un codardo, così mi limitai a servirmi l’antipasto a mia volta ed a sciorinare una banale risposta diplomatica.
    “Beh, forse si.”
    “Bene.” Proruppe prozio Calmizius. “Vedo che sei perfettamente d’accordo con noi. Ma per fortuna, abbiamo trovato una soluzione.”
    Si alzò. E con fare teatrale riempì tutti i bicchieri di Bonarda.
    Al che, anche gli altri due commensali si alzarono e porsero il bicchiere a modi brindisi.
    Qualunque cosa avessero avuto in mente. Mi fu immediatamente chiaro che un possibile mio rifiuto, non era contemplato dal protocollo cerimoniale.
    Non potei fare altro che alzarmi a mia volta e partecipare ai convenevoli. Con un sorriso più o meno festoso, più o meno incerto e più o meno idiota.
    “E quindi?” chiesi dopo il cin cin e dopo essermi bagnato il becco di rito, mentre ci riaccomodavamo.
    “Quindi, da un accadimento infausto e che ci ha tutti rattristati.” proseguì il prozio. “Abbiamo deciso di esacerbarne un’opportunità di crescita personale, per la tua carriera e per te in generale.”
    Fsssst. Il mio ego si gonfiò di colpo, come una mongolfiera piena di elio.
    “E quindi?” ripetei entusiasta.
    “Proprio ieri sera.” attaccò Don Fanfaroni “Ho appreso l’infausta notizia, che Sua Eccellenza Monsignor Pierfelice Baini, già vescovo di Pavia, si è spento in grazia al Signore, all’età di centodue anni, in quel del Lago Maggiore. Dove ormai da qualche anno, a causa dell’età avanzata, si era ritirato a casa di un nipote.”
    Boom, il mio ego si era sgonfiato di colpo, come un pneumatico su un chiodo da carpentiere.
    “Posso portare il risotto con le rane?” sopraggiunse Gianni.
    “Altroché!” confermò Don Fanfaroni.
    “E tu Raoul, avrai l’occasione di sperimentare una vera e propria trasferta da reporter.” intervenne a quel punto il sindaco. “Oltre che l’onore di presenziare alle esequie, in rappresentanza ufficiale sia del Comune di Borgofiasco, sia della comunità cristiana.”
    Gianni se n’era già andato e sua nipote stava arrivando con una terrina stracolma di risotto. Ma gli occhi dei miei commensali, solitamente attenti alle pietanze, quella volta erano tutti indirizzati a me.
    “Contento?” chiese con entusiasmo il prozio.
    Come un cappone a Natale, pensai. “Non ho parole.” dissi. Cercando di mascherare il più possibile il tono sciapo, che rispecchiava il mio entusiasmo.
    “Proprio come immaginavamo.” concluse Don Fanfaroni con soddisfazione.
    E come se non fosse bastato, Pagliazzo, teatrante come solito e sindaco di mestiere, decise di coinvolgere anche gli altri avventori.
    “Scusate signori, vorrei un bell’applauso per il nostro Stronzini! Che sta per partire per il Lago Maggiore, per rappresentare il dolore dell’intera comunità, ai funerali di Sua Eccellenza Monsignor Pierfelice Baini!”
    Partì lo scroscio di approvazione e noi facemmo tintinnare nuovamente i bicchieri in segno di somma soddisfazione. A parte me ovviamente.
    Il pranzo riprese, e l’ampia terrina di risotto di Gianni si svuotò. Finendo in un discreto piattino per me ed in tre porzioni extralarge per i miei commensali.
    “E quando dovrei partire?” chiesi.
    “Domattina.” disse il prozio. Di poche parole come solito, mentre ci dava di forchetta.
    “Domani ci saranno il rosario e la veglia funebre.” intervenne Don Fanfaroni. “Presso la Basilica di San Ottorino di Rivallegra. E dopodomani si svolgerà il corteo funebre, per portare la salma presso il Cimitero Monumentale del Monastero della Catechesi, alle pendici del Mottarone a pochi chilometri da Rivallegra, dove avverrà la sepoltura.”
    “Grand’uomo Monsignor Pierfelice Baini…” se ne uscì Pagliazzo. Che molto probabilmente nemmeno lo conosceva. Ma che nonostante appartenesse ad una coalizione di centro-sinistra ed assomigliasse vagamente a Trozky, ben si guardava dallo sfigurare con degli uomini di Chiesa.
    “Può dirlo forte.” proseguì Don Fanfaroni. “Pensi che a quanto pare, da parte di madre avrebbe dei legami genealogici con i Borromeo.”
    “Ovvero?” chiesi io. Beccandomi un secondo calcione da di sotto il tavolo da prozio Calmizius.
    “Ovvero la famiglia di San Carlo Borromeo.”
    “Ah!” esclamai ad alta voce. Un po’ per lo stupore, un po’ perché il prozio mi aveva beccato nello stesso punto del primo calcio e mi aveva fatto un male cane.
    “C’è solo un problema.” tentai timidamente di obbiettare. “Carossa, il mio capo-redattore o redattore-capo, non so se sarà d’accordo? In fondo lavoro per lui e...”
    “A quello ci ho già pensato io.” Mi interruppe prozio Calmizius, posandomi una mano sulla spalla per meglio tranquillizzarmi. “Gliene ho parlato proprio questa mattina dopo la santa messa, quando mi ha chiamato per un certo articolo… pubblicato oggi. E lui stesso ne è rimasto entusiasta. Anche se un po’ titubante sulle tue capacità di riuscita.”
    Naturalmente per me fu un piacere sentirmelo dire.
    “Per secondo c’è: trippa, costine con le verze o brasato d’asino. Cosa vi porto?” intervenne la nipote di Gianni.
  10. .
    Scusate alcune parolacce (di uso corrente nel quotidiano), ma spesso ci sono nei miei racconti, perchè non vogliono essere il punto di vista del letterato (cosa che per altro io non sono) ma dell'uomo della strada.


    "I vivi e i morti"

    La miseria suonava ai bordi della strada. Accordi di fisarmonica e note di violino, che si spandevano a modi sottofondo per tutto il mercato. Donne di tutte le età che andavano e venivano. Tante chiacchiere e pochi affari, i tempi erano duri e lo si leggeva sui musi lunghi degli ambulanti.
    E' facile guardare il mondo dal tavolino di un bar. Ed è quello che stavo facendo io, godendomi l'ombra delle tende da sole, con davanti un caffè.
    Era piena estate, ma la notte c'era stato temporale ed aveva rinfrescato. E io, non avevo nessuna fretta di muovermi di lì.
    Alla cantilena di un rosario, avevo alzato gli occhi dal giornale, e mi ero accorto che a pochi passi da me, stava arrivando un corteo funebre.
    Ormai era troppo vicino per ritirarmi all'interno, così mi ero alzato in piedi.
    Non sapevo chi fosse, ma anche il più pezzo di merda, nell'ultimo viaggio meritava rispetto. Figuriamoci quel povero disgraziato.
    Ricordo mio nonno, aveva chiesto un funerale civile, senza preti. E qualcuno aveva malignato che lo avessimo seppellito senza il conforto di Dio. Come se Dio fosse proprietà dei preti.
    Il corteo era quasi passato e io me ne stavo ancora lì in piedi. E di colpo mi era venuto in mente, che noi esseri umani eravamo gli unici animali a farla tanto lunga, quando uno dei nostri simili veniva meno.
    Oltre al fatto di essere gli unici ad usare le scarpe, la carta igienica, il bancomat, e un sacco di altre cianfrusaglie. E come se non bastasse, a farci belli di essere gli unici, ad avere un'anima. Chissà poi con che diritto.
    Le ultime persone di fine coda, mi stavano passando davanti. E io mi ero sentito autorizzato a sedermi di nuovo. Per tornare al mio giornale e al mio caffè.
    Tempo fa, mi ero dovuto recare per motivi di lavoro, in un paese dell'Africa centrale. E dopo alcuni mesi, stupito dal fatto di non aver mai visto un cimitero, avevo chiesto ad un nativo dove seppellissero i loro defunti. E lui, allargando un sorriso amaro, in un inglese stentato, mi aveva risposto qualcosa che pressappoco suonava come : “Amico, qui non conti niente da vivo, figuriamoci da morto.”
    Altro metro, altra misura.
    Buttato giù il caffè, avevo chiuso il giornale e mi ero diretto verso il mercato.
    La scuola era finita e i bambini vociavano allegri. Le madri un po' meno e se li trascinavano dietro per mano. Fino a settembre prossimo, per loro le giornate sarebbero state più lunghe.
    Un pullman aveva chiuso le porte ed era partito. E qualcuno aveva urlato al conducente di fermarsi.
    Perso, niente da fare. Ma quello era un pullman che passava tutti i giorni.
    “Venghino signori! Venghino!” Urlavano i venditori. “Questo pela patate vi cambierà la vita!” Proprio così. Un pela patate costa pochi euro e sognare non costa niente. E a me sarebbe piaciuto averne un bel po' di quegli arnesi. Così ogni volta che avrei fatto una cazzata, me ne sarei giocato uno, et voilà! Avrei preso un altro pullman ed avrei ricominciato.
    Ma ricominciato da dove? Non di certo da troppo indietro. Mai e poi mai avrei sopportato di nuovo certi stress. La pubertà, l'acne giovanile, le seghe, le bigiate da scuola col fuoco al culo.
    Era una bella estate. Ma l'estate bene o male mi è sempre piaciuta. Si sta all'aria aperta, si fanno le ferie e le donne si scoprono. E quell'estate non vi faceva eccezione.
    Gonne di tanti colori e diverse lunghezze mi sfilavano accanto. Gonne adatte a tutte le età ed a tutte le etnie. In una felice mescolanza, che solo al mercato ed in pochi altri luoghi, si sapeva produrre.
    E quanti modi ci sono per fare colpo su una donna. Ma sicuramente il peggiore è usare una frase che non è tua. Soprattutto se te l'ha suggerita un amico segaiolo, che l'ha rubata di notte, da una pubblicità di preservativi, in onda durante un film scollacciato.
    Però suonava bene, talmente bene che la donna mi ha sposato. Per chiedere poi il divorzio, otto anni e due figli dopo, a dimostrazione che il crimine non paga.
    Ma d'altra parte nessuno la passa liscia e ognuno ha la sua Croce. E con tutte le disgrazie che accadono, una moglie stronza che a un certo punto buttata tutto a carte quarantotto, probabilmente era ancora il minimo della pena.
    Chissà, forse quand'ero nato avevo trovato un giudice indulgente. O forse ero il milionesimo cliente. “Complimenti Charlie! Lei ha vinto un giro facile!”
    Il mercato era pieno di gente che andava e veniva. Teste piene di problemi, occhi pieni di speranze e bocche piene di parole. Frammenti di discorsi, tanti discorsi, i soliti discorsi. Il tempo vola! Vaglielo a dire a un ergastolano. La vita all'aperto fa bene alla salute! Vaglielo a dire a un senzatetto. Il mondo è piccolo! Vaglielo a dire a uno che vive a Milano, e da lì a piedi, vaglielo a dire a uno che vive a Roma.
    Il cielo era di un azzurro profondo, in cui le nuvole bianche ballavano Il Danubio blu, cambiando continuamente forma, sotto le mani sapienti del vento. Fino a quando non si dissolvevano del tutto, per far posto ad altre nuvole.
    Il mercato era pieno di gente e io vi stavo proprio nel mezzo. Ma che dico, io ero uno di loro. E nessuno mi sembrava poi così diverso dalle nuvole.
  11. .
    Il giorno del matrimonio


    Avevamo stabilito il ritrovo alle nove del mattino. In piazzetta, al bar che aveva preso il posto della storica Osteria Barbieri, che aveva ceduto al passo dei tempi, dopo cinquant’anni di onorata attività.
    Giusto il tempo di fare colazione e coprire quell’oretta di distanza tra Gerberasco e Montegualdone. Per noi ignota località del Tortonese, che subito avevamo ribattezzato Monteguardone, Monte di Venere e con altri soprannomi ben più osceni.
    Facile umorismo boccaccesco da caserma. Ma d’altra parte, la mia generazione era cresciuta all’epoca di Alvaro Vitali e della Fenech. E qualcosa c’era rimasto.
    Da Gerberasco dovevamo partire in quattro. Io, Paolo Sforzini detto il Tiepido, Valerio Bonetti e Giacomo Ferrari detto Sua Eccellenza, nonché testimone dello sposo.
    Nessuno avrebbe scommesso un euro su Germano sposato. Neanche lo avessero dato cento a uno. Non certo a quell’età, dato che ormai aveva staccato la cedola dei quarantacinque.
    Ma un giorno, prestando i suoi servizi di fisioterapista ad un anziano infermo, aveva conosciuto la sua giovane badante ed era scoccata la scintilla.
    Lei era veramente uno splendore di ragazza. Aveva vent’anni meno di Germano ed era rimasta vedova giovanissima. E giunta in Italia dalla lontana Ucraina, con un figlio ancora piccolo, pareva avere fatto bingo. Dato che Germano, come si diceva dalle nostre parti, aveva deciso di portarsi a casa vacca e vitello.
    In poche parole, la tipica storia d’amore del XXI Secolo.
    “Germano e Tijla oggi sposi.” recitava una scritta in oro, sull’invito che mi rigiravo tra le dita poco convinto, mentre aspettavo gli amici davanti al bar. D’ogni modo, miglior fortuna a Germano.
    Finalmente vedevo la macchina di Valerio imboccare la piazzetta e con lui c’era il Tiepido. Soprannominato così, perché non se l’era mai presa calda in vita sua. Un po’ come i gas nobili, che non fanno reazione con nulla. Al che si poteva dare il via alla colazione. Inutile attendere Sua Eccellenza. Dato che era soprannominato così, perché se la prendeva sempre troppo comoda. E che come da copione, sarebbe sicuramente arrivato in ritardo.
    “Senti Jack.” mi aveva chiesto il Tiepido, rimestando col cucchiaino dentro la sua tazza. “Ma che tipo era il precedente marito di Tijla?”
    “Se devo dire la verità, non ho capito bene se era: un militare, un poliziotto, o un bandito. D’ogni modo, da quel poco che mi ha raccontato Germano, credo sia morto sul lavoro.”
    “Cioè?”
    “Gli hanno sparato.”
    Era il primo di ottobre, anche se il sole brillava in cielo come una moneta da venti centesimi, appena uscita dalla Zecca. E faceva un tale caldo, che pareva tutti avessimo strappato una pagina di troppo dal calendario.
    Comunque un’altra estate era finita. E ce n’è concessa una sola l’anno. E lo sapevo bene io, che me n’ero già giocate quarantadue, di cui buona parte malissimo. E non era scontato averne a disposizione altrettante. E in ogni caso, le seconde quarantadue, non sarebbero mai state paragonabili alle prime.
    Io stavo finendo il mio croissant, chiacchierando morbido con Valerio. Mentre il Tiepido, immerso nella lettura di un quotidiano sportivo, controllava le partite in schedina.
    Io ero separato e facevo il promotore finanziario. Praticamente consigliavo ai profani, come perdere velocemente i loro risparmi. Valerio era reduce di due convivenze finite male e faceva il consulente aziendale. E il Tiepido, che ancora viveva con la madre, lavorava per una multinazionale. Con una mansione che nonostante ripetuti tentativi, mai e poi mai ero riuscito a capire cosa fosse. Ma che recitava qualcosa come: Risks & Price Management Consulting & Advisoring delle Risorse Umane e di Sua Sorella in Cariola.
    Che razza di quarantenni eravamo. La generazione dei nostri genitori, pari età erano tutti sposati e con figli. E tutti avevano un lavoro sicuro, magari schifoso, ma sicuro. La mia generazione invece, pareva scivolare dall’adolescenza alla vecchiaia, senza passare per l’età adulta.
    La nuova cameriera, molto giovane e un po’ abbondante di fianchi, ad ogni passaggio mi elargiva generosi sorrisi.
    Aveva un bel viso e qualche chilo glielo si poteva perdonare. Dato che a quell’età sta ancora tutto su da solo.
    Un po’ come quando il salumiere taglia un paio di fette di troppo. “E’ un po’ di più, cosa faccio lascio?” E tu porti tutto a casa perché va bene così.
    Ragionamento maschilista, ma che non faceva una grinza. D’ogni modo distoglievo definitivamente lo sguardo. Dato che sicuramente, c’erano meno anni di differenza tra lei e le mie figlie, piuttosto che tra lei e me.
    “Come va con Elena?” avevo chiesto a Valerio.
    “Mica tanto bene se devo dire la verità.” mi aveva risposto svogliato.
    “Però è parecchio che vi frequentate. O sbaglio?”
    “Un anno, più o meno. Ma la vedo dura. Non credo andremo avanti ancora molto. Comunque non la biasimo, sono io che non capisco le donne. E non c’è speranza, è inutile che mi sforzi.”
    “Ben venuto in famiglia.”
    “E tu Jack? Come va con… Come si chiama questa?”
    “Deborah.”
    “Come va con Deborah?”
    “Difficile capire cosa le passi per la testa. Segatura suppongo.”
    “Ma non mi avevi raccontato che è una violinista?”
    “E allora?”
    “E’ un artista e questo spiega molte cose.”
    “Ma non giustifica nulla.”
    Per cavarsela al primo round, ci volevano un gran destro e un buon gioco di gambe. O per lo meno una discreta dose di fortuna. Altrimenti non ti restava che imparare a incassare. E io ero tutto un livido.
    “Questa sera c’è Atalanta – Palermo. Se ne vedranno delle belle.” Si era inserito il Tiepido, al quale ogni cosa sembrava scivolare addosso. Tanto che io, non avevo ancora deciso se catalogarlo un idiota, o un genio incompreso.
    La colazione era terminata, il giornale era stato spulciato a sufficienza e di donne si era blaterato anche troppo.
    Usciti sotto i portici, di Sua Eccellenza non si vedeva ancora l’ombra.
    La piazzetta era piuttosto animata, come sempre la domenica mattina.
    “Ecco l’imbecille!” aveva esclamato Valerio, vedendo arrivare la macchina di Sua Eccellenza. “Non cambierà mai.”
    Accostatosi ai portici, aveva abbassato il finestrino. “Bevo un caffè al volo e partiamo.”
    Ma noi impietosi, spalancati gli sportelli eravamo già saliti. Io davanti, Valerio e il
    Tiepido dietro.
    “Per niente.” avevo risposto secco. “Ti sei giocato la colazione.”
    “Solo un caffè, ci vogliono cinque minuti.” aveva tentato di obbiettare.
    Ma al “Parti.” intimidatorio di Valerio, la macchina aveva fatto lentamente inversione, con Sua Eccellenza poco convinto.
    Al giornale radio, alcuni politici andavano cianciando a proposito del nostro futuro, che neanche fossero stati soci del Padreterno. Così mi ero affrettato a cambiare stazione, per cercare un po’ di musica. Aprendo la solita discussione. Meglio il pop o il rock? Musica italiana o straniera? Avete mai sentito qualcosa di John Lee Hooker? E se uno volesse un po’ di jazz? Vi siete accorti, che non esiste neanche una stazione radio, che passi un po’ di jazz?
    Nonostante fossimo amici sin dall’adolescenza, erano anni che non ci trovavamo tutti e quattro sulla stessa auto. Eppure sembrava non essere cambiato niente. Anche se in realtà, era cambiato tutto.
    Ne era passata di acqua sotto i ponti, da quando sbarbatelli, a bordo della Fiat 128 del padre del Tiepido, si andava per locali in quel di Pavia. E si tornava a notte fonda, attraversando i placidi paesini di provincia, mano sul clacson e natiche fuori dal finestrino. Giochetto idiota, che dalle nostre parti si chiamava mostra-culo. Ma che il codice penale, bollava come atti osceni e disturbo della quiete pubblica.
    Poi erano arrivate le fidanzate, l’età adulta e le responsabilità. E il gioco era fatto.
    Il sole era proprio di fronte a noi e tutti avevamo inforcato gli occhiali scuri. Incartati nei nostri completi sartoriali, con tanto di camicie bianche e cravatte, da sembrare un gruppo di scalcinati imitatori dei Blues Brothers. Di meglio, non ci era proprio riuscito di fare.
    “Chi di voi è mai andato a mangiare il sciusci?” aveva chiesto il Tiepido.
    “Il che cosa?” aveva finto di non capire Sua Eccellenza.
    “Il sciusci, quella roba cruda che mangiano i giapponesi.”
    “Sushi.” non aveva potuto fare a meno di puntualizzare Valerio. “Io ogni tanto vado.”
    “Anch’io.” gli si era accodato Sua Eccellenza.
    “Hanno appena aperto un posto simile nel centro commerciale di fronte al mio ufficio e pensavo di provarlo.” aveva proseguito il Tiepido.
    “Per mangiare bene devi andare a Milano, da veri giapponesi.” se ne era uscito Sua Eccellenza, che non perdeva mai occasione di millantarsi uomo di mondo. ”Qui in provincia, che sappia io, tutti i sushi-bar, in realtà sono gestiti da cinesi.”
    “E come si fa a distinguere i giapponesi autentici?” aveva chiesto il Tiepido.
    “Dal conto suppongo.” mi ero inserito.
    “E che cosa cambierebbe se lo fanno i cinesi?” aveva domandato Valerio. “Per preparare il sushi non serve nemmeno il cuoco. E’ solo roba cruda.”
    “Come sarebbe non serve il cuoco? Il preparatore di sushi in Giappone è quasi una figura sacra!” aveva sentenziato quasi scandalizzato Sua Eccellenza.
    “A casa mia un cuoco è uno che condisce, mescola, impanna, griglia, frigge e fa bollire. Il preparatore di sushi sarà anche sacro, ma è solo un tizio che fa delle fette.”aveva osservato Valerio.
    “D’ogni modo, speriamo non lo si mangi al matrimonio di Germano. A me non piace per niente.” avevo concluso io.
    Uno stormo di uccelli, danzava elegante nel vento sopra la campagna. Al ritmo lento di una musica, che evidentemente solo a loro era concesso di sentire.
    Avevamo lasciato alle nostre spalle la Lomellina, con le mietitrebbie che trottavano nei campi, a conclusione di una stagione di lavoro. E incominciavamo a salire sulle morbide colline del Tortonese, dove i filari di viti, erano appena stati spogliati dai grappoli.
    Erano le dieci e un quarto, mancava mica molto alla cerimonia.
    Il navigatore satellitare di Sua Eccellenza non funzionava. Ciò nonostante la fortuna si. E finalmente, ci era apparso un cartello che indicava Montegualdone, a una manciata di chilometri.
    “Ce l’hai l’indirizzo della chiesa?” aveva chiesto il Tiepido a Sua Eccellenza. Che in quanto testimone dello sposo, tutti avevamo dato per scontato toccasse lui, documentarsi prima di partire.
    “No. Ma da che mondo è mondo la chiesa è in piazza” aveva risposto.
    “E se ci fosse più di una piazza?” aveva insistito il Tiepido.
    “Montegualdone sarà grande uno sputo. Per cui: una piazza, una chiesa.” aveva tagliato corto Sua Eccellenza. Con Valerio che stranamente gli dava ragione. “Mi pare sensato.”
    Sensato. Perché ci si sforzava sempre di dare un senso a tutto? Di trovare sempre delle buone motivazioni? O quantomeno delle scuse plausibili? Neanche dovessimo rendere conto a qualcuno, o a noi stessi, che non stiamo sprecando il nostro tempo.
    Finalmente eravamo arrivati a Montegualdone. In effetti era un paesino. Così non restava che seguire la strada principale, che probabilmente ci avrebbe portato all’unica piazza. E io potevo darci un taglio con la mia filosofia a grana grossa. In offerta speciale, a un euro e novantanove al chilo.
    Ma per nostra sorpresa, la piazza che effettivamente alloggiava la chiesa, era quasi deserta.
    Avevamo parcheggiato ed eravamo scesi.
    “Sei sicuro che siamo arrivati?” aveva chiesto il Tiepido, non meno perplesso di tutti noi. Compreso Sua Eccellenza, che comunque tentava di ostentare sicurezza.
    “Non vedo perché no. Siamo a Montegualdone e quella è la chiesa.”
    Erano le dieci e mezza in punto. L’ora del matrimonio.
    “E dove diavolo hanno parcheggiato tutti gli altri?” avevo chiesto io.
    “Ma che importanza ha? Saranno venuti a piedi.”
    Una volta entrati, ci si paravano davanti tre navate completamente vuote. Ad eccezione di una donna secca secca e un po’ in la con gli anni, che spazzolone alla mano, dava di straccio al pavimento.
    Immediatamente avevamo fulminato Sua Eccellenza con lo sguardo. E trattenendo la gragnola di insulti, che gli avremmo somministrato non appena usciti dal luogo sacro, ci eravamo avvicinati alla signora.
    “Scusi, ma qui non ci dovrebbe essere un matrimonio?” aveva chiesto non ancora pago il testimone di nozze.
    “No. Qui c’è stata la messa.”
    “E non c’è un’altra chiesa, qui a Montegualdone?” aveva chiesto Valerio.
    “In paese c’è solo questa. Però potete andare a vedere alla chiesetta della Madonna della Neve, a un paio di chilometri da qui. E’ in mezzo alla campagna ed è molto bella. Tante coppie scelgono di sposarsi la.”
    Non c’era un solo istante da perdere. La strada spiegataci appariva facile. Quindi, schizzati fuori dalla chiesa, eravamo saltati sull’auto di Sua Eccellenza, partendo a tutta birra come rapinatori in fuga.
    Usciti dal paese, dopo pochi minuti, ecco spuntare alla nostra sinistra, una cappelletta proprio in mezzo ai campi. Al che avevamo imboccato la stradina sterrata che ci avrebbe condotto.
    Germano, piantato davanti alla chiesa e nervoso come non mai, se ne stava pugni sui fianchi a guardarci arrivare. Masticando fra i denti, chissà quali maledizioni nei nostri confronti.
    Da giovane aveva avuto i capelli chiari, probabilmente ormai grigi, che lisci come spaghetti, aveva sempre portato un po’ lunghi. Ma mai lo avevo visto in uno stato simile. Forse per togliersi qualche anno in ragione della sua giovane sposa. O forse perché dopo i quaranta ci si concede le ultime follie. Fatto sta, che con una specie di caschetto lungo a mezzo collo e tinto di un biondo improbabile, pareva si fosse cacciato in testa una parrucca da battona.
    Purtroppo avevo condiviso la mia impressione anche con gli altri. Tanto che eravamo scesi dall’auto ridendo come matti. Nonostante la colorita e variopinta escandescenza, con cui Germano ci stava accogliendo.
    Ma il siparietto era durato poco. Dato che all’orizzonte, già si vedeva la Balilla della sposa.
    Appena in tempo. Due pacche sulle spalle e ognuno era corso al proprio posto in chiesa. Io e il Tiepido tra le panche, Germano e Sua Eccellenza vicino all’altare. E dopo pochi istanti, partiti coro e musica d’organo, ecco entrare Tijila. Bella come un disegno e allegra come una fontana, con l’abito bianco e un bimbo sorridente per mano. Suo figlio.
    Forse dopotutto, aveva ragione Germano.



    Charlie Cristiano
    Marzo 2012




11 replies since 23/3/2011
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